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Bielorussia, Turchia, Libia, Caucaso: le crisi che circondano l’Europa mostrano plasticamente come sia immersa in un “arco di crisi”. Ciò richiederebbe capacità di azione e una volontà comune, anche e soprattutto in termini politici. Eppure, nonostante i proclami – da ultimo, l’ambizioso obiettivo della Commissione von der Leyen di costruire un’“Europa geopolitica” – tale volontà non appare per nulla evidente. Quali sono le prospettive possibili e gli ostacoli con cui la politica estera europea deve fare i conti?
Il fatto di essere circondati dalle crisi è una realtà consolidata e che ormai conosciamo bene, perlomeno dal 2014. Tutto iniziò ad est, con l’annessione della Crimea. Ma a sud, dal 2012-2013, la promessa delle Primavere arabe era già diventata un autunno che stava entrando nel suo lungo inverno. Tutto ciò è andato accentuandosi con le tensioni nel Mediterraneo Orientale e la nuova guerra nel Caucaso tra Armenia e Azerbaijan, che sono andate ad aggiungersi a conflitti che già preesistevano – come quello israelo-palestinese – oppure che sono scoppiati negli ultimi anni e che non si sono risolti, come la situazione in Siria. Lo scenario era tuttavia già molto turbolento.
Noi come europei, potremmo leggere tutto ciò con la storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Se facciamo un confronto tra gli ultimi cinque anni e l’ultimo anno e mezzo (e probabilmente i prossimi quattro anni), un elemento appare evidente: nel ciclo politico-istituzionale precedente c’era molta più attenzione di quanto non ce ne sia ora su temi di politica estera, in particolare di sicurezza e difesa. In parte, ciò è dovuto in parte a fattori esogeni, come la crisi appena scoppiata dell’Ucraina, la Brexit, l’elezione di Trump alla Casa Bianca. Tutta questa attenzione all’esterno era tuttavia data anche da una ragione molto più interna, ossia la totale incapacità dell’Unione di avanzare sui dossier che le erano più naturali, come ad esempio la riforma dell’eurozona ed il tema migratorio.
Adesso, le cose sono totalmente cambiate. Il bicchiere è mezzo pieno se consideriamo che nell’ultimo anno – ed in particolare negli ultimi mesi – si è ritrovata una coesione e una solidarietà interne su temi diversi, non di politica estera. Per far fronte alla pandemia, alcune delle vecchie ferite generate dalla crisi dell’eurozona e acuite dalla cosiddetta crisi migratoria, se non si sono sanate, hanno almeno iniziato a rimarginarsi. C’è stato come un colpo di reni dell’Unione: è stato evidente che bisognasse fare qualcosa. Questo slancio ha portato all’accordo sul Next Generation EU: non lo abbiamo ancora portato a casa, ma mi auguro che siamo sulla buona via per arrivare al risultato. Se è vera la tesi secondo cui per articolare una politica estera coerente e coesa ci debba essere un’unità interna, questa situazione ha dato un nuovo impeto alla condizione fondamentale per una politica estera europea: la solidarietà. Trovo assolutamente irrealistico pensare che in Europa si arrivi ad una percezione condivisa delle minacce. Lo impediscono la geografia, la storia, la cultura politica degli Stati Membri che sono e continueranno ad essere diverse. Ciò su cui si deve lavorare – su cui è davvero possibile arrivare a dei risultati – è proprio la solidarietà. Pensiamo ad esempio alla Russia: è irrealistico credere che la percezione della minaccia in Italia, in Francia, in Estonia e in Polonia sia perfettamente convergente. Non lo è però ritenere che, se l’Estonia si dimostra solidale con la Francia nel Sahel, allora la Francia potrà mostrare solidarietà nei rapporti con la Russia. È sulla solidarietà reciproca che si può lavorare a livello politico in modo efficace.
Se questi passi interni fanno ben sperare, il bicchiere è mezzo vuoto perché l’attenzione su temi di politica estera, specie di sicurezza e difesa, è precipitata. Lo vediamo molto chiaramente dalla posizione che occupano questi temi nelle discussioni sul bilancio europeo. Mentre il bilancio – soprattutto con la leva del Next Generation EU – è stato aumentato in modo significativo, la parte destinata alla politica estera, al Fondo europeo per la difesa e allo Strumento europeo per la pace sono stati addirittura dimezzati rispetto alle aspettative. L’Unione è quindi in una modalità molto più introversa di quanto non fosse qualche anno fa. Da cittadina, lo comprendo perfettamente: nel mezzo di una pandemia è naturale che l’attenzione venga spostata su temi socio-economici e sanitari. Detto ciò, come sappiamo, le crisi che ci circondano continueranno a restare irrisolte. È un’illusione pensare che con l’amministrazione Biden gli Stati Uniti torneranno ad essere il poliziotto del mondo, sarebbe una tragedia se leggessimo nella vittoria dei Democratici un argomento per abbassare la guardia su questi temi.
In definitiva, il bicchiere può essere mezzo pieno solo se c’è la volontà politica di assumersi sia la responsabilità che il rischio per quello che ci circonda. Spesso la conversazione si incancrenisce sulla spesa per la difesa e la politica estera: è evidente che l’Europa ha bisogno di determinate risorse e capacità, tuttavia il tema centrale è proprio la necessità di una volontà politica condivisa di assumersi un rischio. Su questo punto, non si può neppure dire che il problema sia la divisione tra gli Stati membri: il consenso sul fatto che non vogliamo assumerci questo rischio è quasi trasversale. Ancora una volta, dietro questa scelta c’è la convinzione che qualcun altro gestirà quei rischi al nostro posto, e questo è l’errore strategico che rischiamo di commettere con l’amministrazione Biden.
Un esempio lampante delle tensioni di cui abbiamo parlato e dalla mancanza di attenzione ad una politica estera condivisa viene dal peggioramento dei rapporti con la Turchia, che ci consente di fare una riflessione sulla postura dell’Unione nelle sue relazioni internazionali. Anche di fronte ad una crescente accettazione del “fait accompli”, l’Europa non manca – almeno sulla carta – di ribadire l’importanza di una politica estera basata su quel “principled pragmatism” di cui si è tanto discusso nel 2016, a seguito dell’adozione della Global Strategy. Che cosa significa nello scenario attuale, per l’Unione, cercare di mediare tra un approccio realista e uno normativo? Qual è lo spazio effettivo di credibilità di questo approccio?
A livello concettuale, credo che sia un errore vedere il principled pragmatism come una sorta di contraddizione in termini, che punta ad un equilibrio tra norme ed interessi contrastanti. Il concetto va letto in un altro modo: quello che ci guida e che vogliamo ottenere sono i principi. Su questo non c’è compromesso: i principi sono l’obiettivo. La vera domanda è quale possa essere il modo più efficace per raggiungerlo. A volte, per ottenere il rispetto dei principi risulta più efficace il bastone, fare la voce grossa con misure di natura coercitiva e sanzioni. Per quanto veda davvero pochi casi in cui riuscirei a legittimarlo – in linea teorica e alla luce del dibattito sulla Responsibility to protect – si potrebbe arrivare addirittura all’utilizzo della forza militare. Ma è davvero il modo migliore per raggiungere il risultato?
Caliamo questa domanda nel contesto della Turchia. Come Unione Europea, abbiamo interesse non tanto nel cambiare la politica estera di Ankara – su cui ci dovremmo anzi fare un esame di coscienza – ma piuttosto il suo discorso interno, la china autoritaria e di de-democratizzazione che il paese ha seguito perlomeno negli ultimi dieci anni. Ma siamo davvero sicuri che fare la voce grossa e imporre sanzioni sia il metodo più efficace? La storia ci insegna che nei nostri rapporti con la Turchia – quindi a partire dal 1963 – gli unici momenti in cui siamo riusciti ad avere un impatto positivo sulle dinamiche interne sono stati i momenti in cui c’è stato l’abbraccio, e non lo schiaffo. Con alcuni Stati funziona lo schiaffo, con la Turchia no. Al netto della volontà di darci una pacca sulla spalla – motivata spesso da ragioni egoistiche di politica interna e legate alle nostre opinioni pubbliche – se quello che ci guida è avere un impatto esterno reale, l’approccio deve essere completamente differente. Però attenzione: l’abbraccio “condizionato” alla Turchia per cercare di ristabilire una politica interna basata sullo stato di diritto non è un compromesso tra norme e interessi. Il punto è che vogliamo seguire la norma: lo vogliamo fare veramente, non in modo ipocrita.
Concretamente, come può esprimersi questo rapporto “condizionato” con la Turchia nei vari dossier con cui possiamo esercitare una leva in direzione dello stato di diritto?
Il rapporto con la Turchia è composto da tante componenti: abbiamo un rapporto economico, un rapporto di politica estera/sicurezza, rapporti politici, rapporti strategici legati all’energia e altri alla migrazione. Alcuni di questi temi si prestano maggiormente a un rapporto transazionale, una sorta di do ut des in cui spesso e volentieri ci troviamo in una condizione svantaggiosa. Il tema migratorio ne è l’esempio perfetto: si presta poco ad un discorso più ampio, di tipo contrattuale, e Ankara ha il coltello dalla parte del manico molto più di Bruxelles o di Berlino. L’errore che abbiamo compiuto è che tutti gli altri Stati membri – quindi non solo Berlino, ma anche Parigi, Roma, Atene ecc. -, in maniera estremamente miope, hanno escluso la ricostruzione di un rapporto in ambiti che si presterebbero molto meglio ad un rapporto basato sullo stato di diritto.
Ad esempio, l’idea di una modernizzazione dell’unione doganale è, a mio avviso, il candidato perfetto. Parlare ora di processo di adesione è totalmente utopico: tuttavia, pragmaticamente, potremmo pensare ad una modernizzazione dell’Unione doganale all’interno della quale ci siano delle condizionalità importanti in termini di procurement, di gestione dell’economia politica. Certo, non potremmo parlare direttamente di temi fondamentali come quello dei giornalisti che si trovano in carcere, ma saremmo in grado di iniziare ad agire su altri temi. Rifiutarsi di agire per “fare i duri” e vendicarci della politica turca nel Mediterraneo Orientale è una strategia che non migliora la situazione interna in Turchia, si limita tutt’al più a farci mettere la coscienza in pace.
Il dibattito su questi temi ruota molto spesso attorno alla questione dell’autonomia strategica dell’Europa. L’intervista che Emmanuel Macron ha rilasciato a Le Grand Continent ha sollevato di nuovo il tema, mettendo in luce un importante dissidio tra la visione del Presidente francese – l’Europa come un terzo polo tra Usa e Cina – e quella portata avanti da paesi come la Germania, secondo la quale è impensabile un’autonomia strategica che prescinda dagli Stati Uniti. Come interpretare queste diverse posizioni?
Sono convinta che parliamo troppo di autonomia strategica e facciamo troppo poco. Tali divisioni tra Francia e Germania non sono nuove: se ci fosse un po’ più di azione concreta e andassimo davvero a fare autonomia strategica, non esisterebbero. Credo che, ad oggi, autonomia strategica e rapporto rafforzato con gli Stati Uniti siano due facce della stessa medaglia. Non esiste più il mondo come lo abbiamo visto durante la Guerra Fredda e ancor più negli anni successivi, quando c’era una netta egemonia statunitense all’interno della quale noi europei ci proteggevamo. Non è più pensabile uno schema per cui, come ai tempi, gli americani si occupino di sicurezza intesa in senso più hard e mentre noi complementiamo la loro azione con una serie di politiche più soft. Il XXI secolo vedrà una nuova bipolarità tra USA e Cina, le altre potenze verranno attratte magneticamente più da una parte o più dall’altra: presumibilmente, noi saremo più attratti verso gli Stati Uniti, la Russia verso la Cina. Questo sarà il nuovo, instabile, equilibrio.
In questo nuovo mondo, noi giocheremo la partita insieme agli Stati Uniti: con la consapevolezza che la sfida è enormemente più grande di quanto non fosse quella della Guerra Fredda. Allora, per quanto riguarda il conflitto politico-ideologico, non c’è mai stata una reale partita, non c’è mai stato un vero dubbio su dove si vivesse meglio. Erano i cittadini della Germania Est che cercavano di attraversare il muro, non certo il contrario. Il dramma che vivremo in questo secolo è che, con la Cina, questa domanda di natura politico-ideologica si pone molto concretamente. Innanzitutto, Pechino sta dimostrando che abbiamo sbagliato: per anni abbiamo sostenuto che le libertà politiche debbano necessariamente andare di pari passo con la prosperità economica, che l’una non può esistere senza le altre. Ma la Cina ci mostra che non è così: possiamo dirci che prima o poi le loro contraddizioni esploderanno, ma per ora ciò non è successo. Quello che sappiamo è che, al momento, loro crescono e noi no.
A ciò si aggiunge il tema più contingente della pandemia. Va infatti riconosciuto che, per quanto ne sappiamo oggi, la loro gestione del contenimento del virus è stata più efficace della nostra. Questo pone una grande sfida per noi liberal-democrazie. Per affrontarla, dobbiamo lavorare con gli Stati Uniti, che a loro volta hanno bisogno di un’Europa proattiva, che ci metta del suo. E metterci del nostro richiede un’autonomia strategica. Ciò non vuol dire né indipendenza né, tantomeno, autarchia: significa semplicemente, come indica l’etimologia stessa della parola, avere un’identità che vuole vivere rispettando il proprio diritto.
Cosa significa, in definitiva, “costruire” l’autonomia strategica?
Torniamo al discorso sulle crisi che ci circondano e sull’assunzione di maggiori rischi e responsabilità. Take your pick: la mia preferenza personale sarebbe la Libia, per quanto possa esserci un bias nazionale. La Libia è del resto il tipico caso in cui, per quanto ci possiamo lamentare della mancanza di azione da parte degli Stati Uniti, le cose non cambieranno. Obama non ha fatto molto, Trump non ha fatto nulla, Biden farà lo stesso. Se non agiamo noi, lo faranno gli altri, sicuramente non nei nostri interessi: la Russia, la Turchia, gli Emirati, l’Egitto.
Quindi, cosa vogliamo fare? Qui non si parla di spese militari esorbitanti o di capacità che ancora non abbiamo. Quello che ci è richiesto è innanzitutto un’assunzione di rischio: è chiaro che mandare in Libia una missione di monitoraggio del cessate-il-fuoco, in un contesto in cui la violenza è ancora attiva, comporta il rischio che dei soldati muoiano. Ma questo è un rischio che gli Stati Uniti si sono assunti. È una questione di cultura strategica: se a noi europei per ora è andata di lusso, è solo perché qualcuno si è assunto rischi al posto nostro.
Gli occhi restano in ogni caso puntati sulla nuova Amministrazione Biden. Una volta era piuttosto comune percepire le elezioni americane come “politica interna”. Con Trump, però, l’Atlantico è tornato ad essere un oceano. La vittoria di Biden invertirà questa tendenza? Cosa aspettarsi: un rilancio del rapporto transatlantico, o un “more of the same”? E quali saranno, nei prossimi anni, i temi centrali e più spinosi nell’evoluzione del rapporto tra le sponde dell’Atlantico?
Ci sarà senza dubbio una differenza molto sostanziale, che va al di là dei singoli temi di accordo o disaccordo. La vera differenza tra l’amministrazione Trump e tutte le amministrazioni che l’hanno preceduta sin dal dopoguerra è che, per la prima volta nella storia dei rapporti transatlantici, l’Unione Europea è stata considerata un nemico. Non era mai successo: in passato ci stati screzi anche più acuti, pensiamo ad esempio alle guerre commerciali sulle banane negli anni ’90 o alla divisione sulla guerra in Iraq, nel 2003. In realtà, durante l’amministrazione Trump i dissidi sono stati parzialmente attenuati dal fatto che per la prima volta non c’è stata una guerra. Il problema non è stato tanto un problema di policy (che pure ci sono stati, basti pensare all’accordo sul nucleare iraniano): è stata la consapevolezza da parte degli europei che la Casa Bianca ci considerava un nemico.
Questo stato di cose cambierà con Biden, si tornerà ad una normalità fatta anche di divisioni e disaccordi, ma sempre articolati all’interno di un’alleanza. Si lavorerà quindi in modo molto più coordinato su vari temi: sul rilancio del multilateralismo, sull’accordo di Parigi, sulla ripresa economica post-Covid, sulla gestione dei vaccini e molto altro.
Le differenze dal punto di vista delle policy continueranno a manifestarsi in particolare su due piani: in primo luogo sulla questione del protezionismo, che continuerà seppure in forma differente. Certo, sarà possibile risolvere alcune delle dispute più spinose: sono fiduciosa che si arriverà ad eliminare i dazi sull’acciaio e l’alluminio e che si riuscirà a trovare un accordo sulla disputa Boeing-Airbus. Ma le questioni cruciali, come ad esempio l’idea di riprendere un’agenda come era quella del TTIP, continueranno a restare off limits.
Il secondo piano di potenziale discontinuità è la Cina. Per molti versi siamo infatti nella stessa squadra. La differenza sostanziale tra Stati Uniti ed Europa sta nel fatto che abbiamo obiettivi diversi, per quanto in parte sovrapponibili. Per gli Stati Uniti, in ballo c’è una questione di rivalità strategica: da parte loro, l’ascesa della Cina è percepita come una minaccia perché comporta un calo relativo del ruolo internazionale degli USA. Noi europei non ci poniamo questo problema, non abbiamo pretese di egemonia globale. Per noi si tratta di una questione per certi versi più esistenziale, ovvero come assicurarci che pur nell’ascesa della Cina – che vediamo ormai come inevitabile – le nostre libertà interne e lo stato di diritto vengono protetti, come possiamo continuare a promuovere esternamente queste norme. Per noi è una questione identitaria, più che di competizione.
Per l’Europa, una parte importante delle relazioni con la Cina si articola nei rapporti con il continente africano, dove le condizionalità alla cooperazione poste dall’Unione trovano sempre più un’alternativa nel modello cinese.
Ciò che la Cina fa in Africa importa ben poco agli americani, se non alla luce della competizione geostrategica. Gli Stati Uniti hanno lasciato l’Africa ormai da parecchio, mentre per noi, invece, è fondamentale anche per quanto riguarda la promozione esterna della norme di cui abbiamo parlato. Pensiamo ad esempio alle tecnologie come il 5G o il caso Huawei: la discussione avviene necessariamente sia in seno all’Unione che fuori. Internamente dobbiamo assicurarci che gli Stati membri raggiungano degli standard adeguati in termini di sicurezza digitale e di tutela dei diritti ad essa legati, esternamente dobbiamo assicurarci, soprattutto nei confronti della Cina, di “level the playing field, but levelling it up” – di stabilire condizioni paritarie, ma senza abbassare i nostri standard. Huawei, ad esempio, essendo fortemente sovvenzionata dalla Cina, ha prezzi molto più bassi che portano buona parte degli Stati africani ad optare per questa compagnia. Dal canto nostro, come possiamo giocare la partita dal momento che le nostre regole interne contro gli aiuti di stato impediscono un sostegno finanziario alle compagnie europee? Ciò che vogliamo fare è assicurarci che la Cina rispetti i nostri standard, senza però abbassarci al protezionismo. Purtroppo non c’è al momento una risposta chiara su come possiamo arrivare a questo obiettivo, ma è senza dubbio arrivato il momento di affrontare la questione in modo aperto, nella sua complessità.
Questa analisi non vale solamente in materia economica, ma anche per la promozione dei diritti fondamentali: dobbiamo cercare un approccio quanto più possibile pragmatico, innanzitutto capendo in profondità la situazione degli Stati terzi con cui cooperiamo e l’influenza di altri paesi. Da qui, possiamo poi proporre delle condizionalità più coercitive nelle situazioni in cui abbiamo più leve per fare pressione. Dove invece non ne abbiamo è necessario trovare una via diversa per giungere allo stesso risultato in termini di diritti.
Inseriamo però anche un altro fattore nell’analisi: nel contesto post-pandemia, quale sarà la natura della globalizzazione? La strategia cinese della One Belt, One Road è stata concepita e incardinata in una fase di iperglobalizzazione estrema, che non è stata messa in discussione neppure dopo la crisi finanziaria globale. È tuttavia possibile che la pandemia cambi la natura della globalizzazione accorciando le catene del valore, portando una maggiore diversificazione e forse un aumento relativo dei costi, un aumento che potrà essere accettato dall’opinione pubblica dal momento che garantisce maggiore sicurezza. Questo potrebbe mettere in discussione l’attuale strategia cinese. Il dibattito sulla natura della globalizzazione è infatti molto presente anche in Cina: il nuovo piano quinquennale parla di dual circulation, spinge cioè verso la rigenerazione della domanda interna piuttosto che la proiezione economica internazionale. Nel prossimo decennio, potremmo quindi vedere una Cina più asiatica e meno africana: questo ci offrirebbe un’occasione. Torna ancora una volta il tema della responsabilità, dell’assunzione del rischio e dell’autonomia: saremo in grado di cogliere questa opportunità?
Se con le presidenziali l’Europa può aver ritrovato un alleato negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha lasciato e lascerà un solco profondo nelle relazioni transatlantiche e su alcuni dei temi più centrali della politica internazionale, con un impatto diretto sulla legittimità delle organizzazioni che tentano di normare lo spazio transnazionale. È il caso ad esempio delle tensioni con l’Oms e con l’Omc, ma anche e soprattutto del ritiro dagli Accordi di Parigi. Cosa resterà del trumpismo dopo Trump, specie per quanto riguarda il futuro del multilateralismo?
Bisogna fare delle distinzioni: su alcuni temi ci saranno degli avanzamenti positivi, su altri molto meno. Di certo il trumpismo continuerà a lasciare la sua scia per quanto riguarda la situazione delle organizzazioni che si occupano di commercio internazionale: non credo proprio che con l’Amministrazione Biden ci sarà una immediata risoluzione del blocco dell’Omc, così come non ci sarà un nuovo slancio da parte degli Stati Uniti per quanto riguarda gli accordi commerciali plurilaterali.
Su altri temi, invece, ci sarà per lo meno un tentativo di cambiare rotta. È il caso dell’Oms, dove tuttavia gli spazi di manovra per portare avanti una riforma sono estremamente limitati anche a causa della forte presenza cinese. Per quanto riguarda il clima, invece, la direzione futura dipende in gran parte da questioni di politica interna statunitense. Nella rosea ipotesi in cui le elezioni in Georgia del 5 gennaio dovessero portare alla vittoria di due candidati democratici, la situazione di parità del Senato potrà essere sbloccata dalla Vicepresidente. In questo caso, Biden potrebbe riuscire a portare avanti la sua agenda molto ambiziosa sui temi della transizione energetica e del clima. Ma se ciò non dovesse avvenire, su questi dossier il nuovo Presidente avrà – almeno in parte – le mani legate. Anche per quanto riguarda l’accordo sul nucleare iraniano la situazione sarà simile: ci sarà la volontà di un riavvio, ma non sarà semplice.
In altri ambiti possiamo invece essere più ottimisti. È il caso ad esempio del controllo degli armamenti: credo infatti che l’Amministrazione Biden riuscirà ad arrivare agilmente ad un consenso per il rilancio dello START II e ad immaginare un rinegoziato dell’Inf e degli Open Skies.
Il grande interrogativo sugli Accordi di Parigi resta probabilmente tra i più centrali. L’Europa si è posta l’obiettivo di diventare leader nella transizione ecologica, come dimostrato da ultimo dal Green Deal e dal Next Generation EU. Si può addirittura affermare che l’Europa stia cercando, con la sua politica in materia, di uscire da una condizione di marginalità in termini di leadership internazionale in cui si trova relegata su molti altri dossier. Quanto il clima può diventare uno strumento di politica estera, su cui investire per favorire la nascita di nuove e più trasversali coalizioni di attori, e quanto invece si limiterà ad essere una “questione di politica interna”?
Credo che il tema della transizione sia in assoluto il candidato migliore per giungere ad un’autonomia strategica dell’Europa. Autonomia non significa naturalmente che, sul clima, l’Europa deve procedere da sola: al contrario significa che deve mettere a frutto le sue capacità e i suoi mezzi per lavorare con altri. Sarà necessario sia un forte impegno interno per quanto riguarda l’attuazione del Green Deal, che una strategia esterna ad ampio spettro.
Si tratterà in primis di capire in che misura sarà possibile lavorare con gli Stati Uniti per rendere la COP26 un successo, una volta chiariti i rapporti di forza al Senato. Ma si tratterà anche di trovare un modo per far leva sulla Cina, riprendendo gli impegni presi dallo stesso Presidente Xi Jinping. Se è vero che non abbiamo particolari leve per fare pressione su Pechino, dobbiamo partire dal presupposto che – dal momento che tali impegni sono stati presi – è probabile che Xi li ritenga una necessità interna, nei confronti della propria opinione pubblica.
Dobbiamo poi riflettere sul tipo di coalizioni trasversali si possono costruire con l’Asia, con l’Africa e con l’America Latina. Prendiamo semplicemente l’esempio del carbon pricing: è chiaro che, se dovessimo andare avanti da soli con un carbon pricing interno e con un carbon border adjustment pricing esterno, finiremo per ottenere solamente una diversione delle emissioni altrove. Si tratterà di capire innanzitutto in che modo possiamo aiutare altre regioni del mondo ad attuare il loro Green deal. In questo senso, l’Europa può farsi leader e partner: autonomia e partenariato sono due facce della stessa medaglia.