Le elezioni europee hanno visto contrapporsi partiti «tradizionali» che sono considerati del tutto interni alla democrazia liberale e partiti cosiddetti «populisti» che invece, almeno dal punto di vista dell’establishment, sono marginali se non estranei, e comunque dannosi, a quel regime. È così?
Mah, le cose mi paiono un po’ più complicate di così. Stiamo attraversando un passaggio epocale, e direi di partire intanto da questo assunto. Siamo vivendo un momento di trasformazione causato dal cedimento di un ordine storico che si è affermato fra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento e che è fondato, a farla molto semplice, sulla centralità dell’individuo da un lato e sull’integrazione del Pianeta dall’altro. Quell’ordine storico viene oggi rifiutato sia all’interno dell’Occidente, che lo ha creato e imposto, sia al di fuori di esso. L’idea originaria era che quell’ordine, poiché si fonda su valori che sono sì di origine nordatlantica, ma si propongono pure come patrimonio universale dell’umanità, fosse destinato a espandersi pacificamente su tutto il Pianeta. È stato il grande sogno degli anni Novanta, quando si pensava che in paesi come la Cina e la Russia i diritti, le libertà e la democrazia si sarebbero affermati naturalmente e rapidamente grazie all’espansione dell’economia di mercato. Oggi quel sogno non solo è morto e sepolto, ma si è rovesciato in un incubo: il mercato non appare più come uno strumento di convergenza geopolitica — semmai come un’arma nel conflitto geopolitico.
Quest’incubo colpisce con particolare forza l’Unione Europea, che non soltanto è nata nel 1992 all’interno dell’ordine che adesso è in crisi, ma ha fondato la propria identità sulla pretesa di esserne portavoce e modello. Ecco: penso che il conflitto politico odierno dovrebbe essere compreso inquadrandolo in questo schema storico più ampio. Altrimenti si rischia di non capire molto.
Il conflitto fra forze politiche «tradizionali» e «populiste» è un abbaglio, dunque?
No, il conflitto esiste. La prospettiva sistemica ci consente però di guardarlo dall’alto, evitando di assumere il punto di vista di uno dei due contendenti. È il difetto che rimprovero a tanto mainstream giornalistico, intellettuale e accademico: l’unilateralismo. È come se si cercasse di comprendere le invasioni barbariche adottando esclusivamente il punto di vista dell’imperatore romano. A quali conclusioni potrà mai giungere l’imperatore? È ovvio: che c’era una meravigliosa civiltà progredita e raffinata, e che quella che l’ha spazzata via è un’orda di trogloditi maleodoranti e sanguinari. La profonda crisi dell’Impero che ha reso possibile le invasioni, adottando questa prospettiva, scivola in secondo piano. Per altro, la metafora ha i suoi limiti. In questo caso i «barbari» invasori non vengono dall’esterno del sistema, ma dall’interno. Sono «barbari verticali», per usare l’espressione di Ortega y Gasset. Ossia sono elettori di sistemi democratici: persone che ci circondano, che condividono la nostra vita, con le quali interagiamo ogni giorno. Quando si comincia a dare del troglodita al vicino di casa, la democrazia non è in buona salute.
Gli intellettuali liberali sono pigri e autopermissivi?
Una parte almeno del mondo intellettuale è, per usare un’espressione gramsciana, organica all’ordine di cui dicevo. E perciò, ovviamente, lo difende. È da capire però se questo sia il modo migliore di difenderlo. O se non sia meglio cercar di comprendere in che cosa quell’ordine abbia fallito e come possa esser riparato. Anche perché nel frattempo i barbari se ne infischiano degli intellettuali e continuano a incamerare voti.
Lei che cosa propone?
Di interpretare il cosiddetto populismo come la conseguenza, non la causa, della crisi della democrazia liberale. E quindi di partire dalla domanda: perché la democrazia liberale è in difficoltà? Insomma: di prendere sul serio le esigenze che i cosiddetti barbari stanno portando alla nostra attenzione.
Le esigenze cui si riferisce quali sono?
Ripartiamo dall’ordine politico che si afferma fra gli anni Settanta e i Novanta del Novecento, e diamogli un nome. Propongo di chiamarlo regime storico liberale radicale — non mi piace, ma non ho trovato ancora una definizione migliore. Dicevamo che quel regime si fonda sulla centralità dell’individuo da un lato e sull’integrazione del Pianeta dall’altro. Questa «tenaglia» fra l’individuale e il globale ha stritolato le identità collettive e i corpi intermedi. Negli anni Novanta i teorici di un ordine post-tradizionale — penso in particolare ad Anthony Giddens — immaginavano che identità collettive e corpi intermedi si sarebbero ricostituiti in virtù della naturale sociabilità umana, non più imposti autoritativamente dal peso del passato ma scelti liberamente da individui riflessivi. Ma, a trent’anni di distanza, non mi pare che le cose stiano andando in questo modo. L’appassire di identità collettive e corpi intermedi ha inevitabilmente ristretto lo spazio della politica — che è un’attività collettiva, una consumatrice di identità e un simbionte dei corpi intermedi. E là dove la politica è democratica, ha ristretto lo spazio della democrazia. Ne abbiamo parlato a lungo tre anni fa, lei e io, nel libro-intervista Antipolitica.
Il regime storico liberale radicale, insomma, è un regime ad alta intensità liberale e a bassa intensità democratica. Ma questo ha squilibrato la liberaldemocrazia, che certamente ha un bisogno vitale di tutela dei diritti individuali e di checks and balances che dividano e limitino il potere — ma ha pure un bisogno altrettanto vitale che quel potere ci sia, che gli elettori si sentano in controllo di istituzioni che, a loro volta, dimostrino di avere una certa capacità di tenere sotto controllo la storia. Insomma: come hanno detto fra gli altri Yascha Mounk e Cas Mudde, in questi ultimi decenni siamo andati verso un sistema di liberalismo antidemocratico. Inoltre, mentre il potere democratico è soprattutto nazionale, i contropoteri liberali hanno una significativa componente sovranazionale. Il conflitto fra democrazia e liberalismo si è intrecciato così con quello fra locale e globale, complicandosi ulteriormente.
E rafforzando nell’elettore medio la convinzione che la democrazia sia un guscio vuoto e le elezioni una liturgia vana, che il vero potere sia da tutt’altra parte e sfugga completamente al suo controllo. Se gli elettori hanno smesso di votare non è perché sono brutti, sporchi e cattivi, ma perché, con dolore e frustrazione, pensano di non contare nulla. Non vederlo è disonestà intellettuale.
Però questo liberalismo antidemocratico per molti anni ha dimostrato di poter funzionare.
Certo. Ma è un regime fragile. Essendo post-tradizionale e incardinato su una nozione radicale di libertà individuale, non può che essere politeista. Di conseguenza, non può trarre legittimità da nessun Dio. La legittimazione, allora, se la compra a credito: trae forza dalla propria capacità di garantire progresso. Il regime storico liberale radicale è una profezia che si autoavvera, o, a voler essere più cattivi, uno schema Ponzi: «Dovete fidarvi di me», dice, «perché se vi fidate di me e fate quel che vi dico, il vostro futuro sarà certamente migliore». Il problema delle profezie che si autoavverano è la velocità con la quale il loro circolo virtuoso può convertirsi in vizioso: se le cose non vanno bene e la fiducia viene meno, la piramide Ponzi collassa in un istante. È il crollo che abbiamo visto accadere nel secondo decennio del ventunesimo secolo. In quel momento le persone hanno cercato rifugio nella politica democratica e l’hanno trovata del tutto impreparata.
Dunque si pone un problema di riequilibrio?
Sì. Di fronte alle difficoltà di un ordine sbilanciato sul versante liberale, si tratta oggi di riequilibrare su quello democratico. È quello che propongono i cosiddetti populisti, che si elevi l’intensità della componente democratica/nazionale a scapito di quella liberale/sovranazionale. In sé, è una proposta sensata. Ma è irta di mille problemi: in che modo, con che tempi, con quali strumenti — e soprattutto spingendosi fino a dove. Perché se dal liberalismo antidemocratico cadiamo nella democrazia illiberale, dalla padella finiamo nella brace.
Chi non vuol capire questa esigenza di riequilibrio rientra tra coloro che il mondo lo pensano (il «sentitodire») ma non lo vivono («vistocogliocchi»)?
Il regime storico liberale radicale — lo diceva già Giddens, che ovviamente non usa quest’espressione — è governato da sistemi astratti. Il mercato, i diritti umani, la morale universalistica: sono tutti sistemi di regole generali che si presume siano valide in ogni tempo e luogo e siano in grado di regolare la convivenza umana senza che debba intervenire la discrezionalità di chicchessia. Il capo del personale che licenzia non lo fa per sua scelta, ma perché così gli impone il mercato; il giudice che decide si limita ad applicare la legge; la multinazionale o l’università che mettono alla porta il dipendente politicamente scorretto non sono che il braccio armato della moralità collettiva. Dominano, appunto, i sistemi astratti, non discrezionali, decontestualizzati. In questo senso, qui sul Grand Continent, ho avuto modo di parlare di «sentitodire», riprendendo una metafora dal grande romanzo di Stefano d’Arrigo, Horcynus Orca.
Il problema è: quanti esseri umani sono in grado di gestire quanta astrattezza? Gli esseri umani sono concreti, contestuali, cercano — per restare con d’Arrigo — il «vistocogliocchi». Per questo, credo, i populismi sono incentrati sulla figura del leader e sul suo potere discrezionale: perché il leader è fisicamente presente, visibile e tangibile. E se sbaglia puoi punirlo, hai un bersaglio concreto col quale prendertela.
Ed è in questo contesto che nascono le Meloni e le Le Pen?
Sì, ma anche i Podemos, gli Tsipras, i Wilders, gli Alternative für Deutschland. Trattandosi di una grande ribellione, la si può fare in nome delle soluzioni più disparate. Se vogliamo nobilitarli parafrasando Eugenio Montale, i cosiddetti populisti codesto solo oggi possono dirci, ciò che non sono, ciò che non vogliono. Per altro, mi pare che la protesta di sinistra e quella di destra abbiano due approcci opposti al regime storico liberale radicale. Quella di destra gli si oppone sic et simpliciter — e per questo è più forte, perché la sua è una posizione elementare e chiara. Quella di sinistra è più complessa, accetta il regime con beneficio di inventario e ce l’ha più col suo fallimento che con lui stesso. Lo vorrebbe molto più ostile al mercato e ancor più moralista, e ritiene che non abbia funzionato proprio perché non ha spinto con forza sufficiente sul pedale etico.
E per questo gli alfieri del regime storico liberale radicale tendono a demonizzare più la destra che la sinistra?
Sì, anche se chiunque dubiti della capacità di quel regime di garantire progresso rappresenta per loro un pericolo, perché rompe il circolo virtuoso della profezia che si autoavvera. È per questo che la sfida populista non può che essere demonizzata, perché un regime che vive a credito non può sopravvivere alla sfiducia. Di fronte all’incredulità, può soltanto continuare a dire — come in Italia nel periodo del Covid — che «tutto andrà bene», che siamo soltanto di fronte a una crisi temporanea, che il progresso resta garantito. Magari questa è davvero l’unica soluzione possibile. Certo è, però, che richiede un certo disprezzo della realtà — quella realtà nella quale, nel frattempo, i partiti di protesta continuano a gonfiarsi di voti. Mi viene in mente un’altra poesia di Montale, scritta negli anni Sessanta, sulla morte del pessimismo, «Il raschino»: «Abbiamo ben grattato col raschino / ogni eruzione di pensiero. Ora / tutti i colori esaltano la nostra tavolozza, / escluso il nero».
È per questo che anche in Francia i barbari stanno, forse, per arrivare al potere?
Il problema di fondo mi pare sia lo stesso in tutte le democrazie avanzate, solo che si presenta in forme, tempi e modi diversi. Fra Francia e Italia pesano le diverse storie e i differenti sistemi istituzionali. La Francia ne ha uno forte, accentrato, e ha poi un sistema elettorale che penalizza gli estremisti. L’Italia è istituzionalmente più debole, permeabile e flessibile. La crisi dei partiti tradizionali nella Penisola è avvenuta ben prima che nell’Esagono, già all’inizio degli anni Novanta, e ha portato con sé una violenta ventata di antipolitica. L’esplosione populista, così, è arrivata già nel 2013, ed è entrata subito nelle istituzioni, anche se non è andata al governo. La vicenda di Matteo Renzi ha rappresentato un primo tentativo di incanalare e poi soffocare l’energia dell’esplosione, ma si è conclusa con un clamoroso fallimento.
Nel 2018 i partiti populisti — Movimento 5 stelle e Lega — sono andati al governo. Come detto, le istituzioni italiane sono deboli e permeabili. Ma non sono del tutto indifese: quel governo, cosiddetto giallo (5 stelle)-verde (Lega), era in realtà un governo giallo-verde-Mattarella. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, e perfino il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sono stati scelti in realtà dal Presidente della Repubblica, che ha mantenuto discretamente ma efficacemente sotto controllo quel gabinetto. L’Italia ha quindi subìto la sfida, ma l’ha pure assorbita e depotenziata. Ha romanizzato i barbari, appunto. La Francia — della quale parlo con cautela, su una testata francese almeno per origine — ha tenuto per quarant’anni il Front National ai margini, grazie al suo sistema istituzionale ed elettorale.
Fino a quando non ha dovuto compiere un’operazione a mio avviso molto forzata con Emmanuel Macron: un’operazione populista nelle forme e antipopulista nei contenuti. Fra le definizioni di populismo c’è questa, di Kurt Weyland: «una strategia politica attraverso la quale una leadership fortemente personalizzata cerca di conquistare o esercita il potere pubblico appoggiandosi al sostegno diretto, disintermediato e non istituzionalizzato di un gran numero di seguaci per lo più non organizzati». Mi pare proprio che la si possa applicare a Macron.