La convinzione che la nostra società si stia dirigendo verso il collasso eco-sociale è ormai consolidata, sia nell’immaginario dell’ambientalismo politico che nella società nel suo complesso. Un numero crescente di ambientalisti avverte che l’autodistruzione ecologica della modernità è irreversibile. Oggi queste voci si sentono in molti Paesi. Nei Paesi occidentali esistono molte forme di teoria del collasso: dal movimento dell’adattamento profondo all’ambientalismo stoico di Scranton e del suo Learning to Die in the Anthropocene (2015), passando per la teoria di Olduvai del suprematista Richard Duncan fino alla collassologia di Servigne o Stevens. Questa atmosfera angosciosa di ambientalismo comunica con gli immaginari di una società sempre più nichilista e incredula sulla possibilità di un futuro migliore.

In un libro recentemente pubblicato da Arpa, Contra el mito del colapso ecológico, ho criticato queste posizioni ideologiche, che ho raggruppato sotto la categoria di «collassologia», e che stanno conquistando il cuore dell’ambientalismo politico. L’obiettivo principale del libro non è semplicemente quello di sottolineare che la collassologia è politicamente irrilevante per evitare che gli scenari più pessimistici diventino realtà. L’aspetto forse più innovativo della ricerca su cui si basa è l’analisi critica delle diagnosi errate e delle incongruenze teoriche che alimentano la tentazione collassologica. In altre parole, il problema della collassologia non sta solo nei suoi disastrosi effetti politici, ma anche nei suoi fondamenti intellettuali: una raccolta distorta di dati scientifici e, soprattutto, l’applicazione di una teoria sociale errata.

La collassologia esiste davvero?

Molte voci della comunità ecologica che hanno fatto del collasso l’epicentro del loro approccio rifiutano il termine collassologia. Lo considerano un’etichetta indifferenziata con una connotazione peggiorativa che provocherebbe un dibattito controproducente. Altri sono dell’idea, ancora più semplice, che si tratti di uno spettro che non esiste.

Il problema della collassologia non sta solo nei suoi disastrosi effetti politici, ma anche nei suoi fondamenti intellettuali.

Emilio Santiago

Il fatto che la maggior parte del dibattito si sia svolto su social network come Twitter, che sono programmati algoritmicamente per generare bolle, camere dell’eco e caricature polarizzanti, senza dubbio non ha contribuito a placare la polemica. È tuttavia necessario sdrammatizzare. L’unanimità è direttamente proporzionale alla stagnazione in un movimento di trasformazione. Qualsiasi proposta di cambiamento sociale è attraversata da posizioni diverse che si scontrano in modo conflittuale. E rispetto ad altre epoche, questi conflitti si esprimono in modo innegabilmente civile. Allo stesso tempo, con l’eccezione di fanatici e fondamentalisti, è chiaro che le diverse correnti dell’ambientalismo, siano esse più collassologiche o più possibiliste, hanno abbastanza in comune da potersi e doversi incontrare e lavorare insieme per condurre lotte e raggiungere obiettivi concreti. In linea di principio, l’impegno per una giusta trasformazione ecologica della nostra economia offre tanto o più spazio per la cooperazione quanto per il disaccordo.

Sebbene non sia l’oggetto di questo testo, due delle critiche che la collassologia brandisce per evitare di essere considerata un fenomeno ideologico coerente meritano una risposta. La prima è quella che considera la collassologia come uno feticcio retorico, progettato per screditare le posizioni della decrescita. Questa reazione difensiva non ha senso, perché la decrescita non è la collassologia. In effetti, il grosso del movimento internazionale della decrescita non è per la collassologia, anche se in alcuni Paesi, come la Spagna, le due cose possono sovrapporsi. Qualche settimana fa, Jason Hickel, una delle grandi figure della decrescita, ha difeso la rilevanza di un New Deal verde radicale, una posizione che molti di noi difendono e che è profondamente incompatibile con la visione collassologica.

La seconda critica che va affrontata è che la collassologia non esiste, che è una creazione di fantasia. La trovo particolarmente dadaista e poco credibile. Il mio libro contiene una grande quantità di autocritica, una presa di distanza da posizioni intellettuali alle quali sono stato profondamente legato, che continuo a rispettare anche se non le condivido, e che credo di conoscere abbastanza bene. Tanto da sapere non solo che la collassologia esiste, ma anche che l’etichetta circola: in questo micro-universo sociale, il termine collassologia è di uso comune. Se torniamo al caso spagnolo, esiste una sorta di gergo che divide questo spazio ideologico in due sensibilità, i «mo-cos» – moderatamente collassisti – e i «co-cos» – completamente collassisti.

Un New Deal verde radicale è profondamente incompatibile con la visione collassologica.

Emilio Santiago

In caso di dubbio, l’uso della categoria «collassologia» non è un attacco che denigra le posizioni opposte, al contrario. È il riconoscimento di una coerenza analitica e ideologica collettiva sufficientemente forte da rendere utile un dibattito sulle questioni importanti. Per quanto riguarda la questione della decrescita, anche se ho un problema con l’etichetta a causa della sua mancanza di maturità politica, nel mio caso ho abbandonato l’ambientalismo collassologico, ma non l’obiettivo della decrescita. Se con questo intendiamo la necessaria riduzione di molte dimensioni materiali della nostra economia per riportarle entro i limiti planetari, nonché una critica dell’accumulazione del capitale come asservimento – come elaborato per la prima volta da Marx – e una denuncia della fallace equazione tra produttivismo, consumismo e benessere, allora mi considero chiaramente un sostenitore della decrescita. Inoltre, sostengo che se si crede nella giustizia sociale e nei diritti umani nel XXI secolo, probabilmente non si può che volere la descrescita, anche se non si è convinti di questa posizione, almeno nella sua formulazione attuale.

Delimitare il fenomeno ideologico della «collassologia»

Detto questo, cosa intendiamo per «collassologia»? La collassologia è una corrente ideologica emergente all’interno dell’ambientalismo che ritiene che quello che abbiamo scelto di chiamare «collasso ecosociale» sia, se non una certezza, almeno un evento molto probabile e anche sufficientemente imminente, in termini storici, da condizionare le attuali strategie politiche.

Oltre a questo primo tratto caratteristico, ve ne sono altri, che non sono condivisi da tutte le voci della collassologia, ma che sono condivisi da una parte significativa di esse. In sostanza, si tratta di un insieme di speculazioni su una società post-collasso, caratterizzata da un significativo calo demografico; da una notevole regressione tecnologica; da un aumento del potere del mondo rurale e del settore primario a fronte del declino del settore urbano-industriale; da una decomposizione delle grandi istituzioni della modernità in un ordine più semplificato, frammentato e decentrato. Infine, la collassologia sarebbe incomprensibile se non prestassimo attenzione alle sue impronte politiche: sebbene nessuno dei convinti della collassologia cerchi intenzionalmente di provocare il collasso (non esiste, a quanto mi risulta, un accelerazionismo collassologico), molti di loro capiscono che, oltre alla tragedia che sarà insita in esso, il collasso offrirà un’opportunità che può essere politicamente fruttuosa. In particolare per le proposte anarchiche o libertarie.

Ridefinire il collasso per renderlo un concetto operativo

Nella mia definizione di collassologia, ho specificato che i suoi sostenitori considerano inevitabile un evento, un avvenimento o un processo «che scelgono di chiamare collasso», perché uno dei primi grandi problemi teorici di questa scuola di pensiero è l’imprecisione del termine. Non è raro che la parola «collasso» venga usata in modo eccessivo: in realtà, la parte più intellettuale della collassologia proietta un orizzonte futuro più oscuro che si evolverà in periodi di tempo prolungati. Questa visione è incompatibile con l’immaginario del collasso per almeno due motivi. In primo luogo, perché il fatto che il futuro sarà ecologicamente difficile è innegabile e aggiunge poco all’analisi dell’ecologia politica. In secondo luogo, perché la conversione del collasso in un lungo processo di degenerazione, che può durare decenni o addirittura secoli, è incompatibile con le questioni semantiche in gioco. E, soprattutto, perché rende inoperante l’ipotesi politica del collasso, ossia il primato, nel breve periodo, dell’azione autogestita delle piccole comunità che riempiono il vuoto lasciato dal collasso dello Stato e del mercato.

Il fatto che il futuro sarà ecologicamente difficile è innegabile, ma non aggiunge molto all’analisi dell’ecologia politica

Emilio Santiago

La definizione più coerente di collasso utilizzata dal discorso sul collasso è, come quella di Tainter, una drastica riduzione della complessità sociale. Il problema di questa definizione è che la complessità sociale è una categoria tanto difficile da definire quanto da misurare. Propongo di intendere il collasso ecosociale come un fallimento altamente distruttivo, rapido e relativamente irreversibile della capacità di regolazione dello Stato (che include il mercato, nella misura in cui tutti i nostri mercati funzionano inestricabilmente con lo Stato moderno) causato da uno shock o da un colpo della crisi ecologica (carenza di energia o di risorse; evento climatico estremo; pandemia derivante da un fenomeno di zoonosi). Uno scenario di rapida rottura della stabilità riproduttiva dell’ordine moderno, il cui collasso offrirebbe la possibilità di successo a strategie politiche con un forte profilo anarchico o autonomista, con un marcato carattere rivoluzionario e allo stesso tempo locale e comunitario.

Il collasso al microscopio: il picco di Hubbert

Sono diversi gli argomenti che mettono in discussione il pensiero collassologico: da un attento esame delle prove scientifiche utilizzate, che in alcuni ambiti come quello energetico ammettono importanti sfumature e interpretazioni alternative, alla messa in discussione della praticabilità politica delle sue illusioni anarchiche, passando per un’analisi dettagliata dell’architettura teorica che sostiene le sue argomentazioni. In effetti, l’architettura teorica della collassologia presenta sorprendenti parallelismi con il catastrofismo marxista del periodo precedente la prima guerra mondiale.

In breve, la collassologia combina generalmente una scienza naturale seria, anche se soggetta a molte incertezze, con una sbagliata concezione della sociologia. Il risultato è un intervento politico problematico che, a livello di base, rafforza il clima di nichilismo, rassegnazione e paralisi preesistente. E nel caso dell’ambientalismo militante, lo sgancia dalle richieste e dai malumori delle classi lavoratrici e lo lancia in un velleitario avventurismo politico (inconsapevolmente segnato dal neoliberismo nella sua rivendicazione del mantra ideologico «non c’è alternativa» e nell’assunto che la politica istituzionale sia impotente a trasformare la società).

L’architettura teorica della collassologia presenta sorprendenti parallelismi con il catastrofismo marxista del periodo precedente la prima guerra mondiale

Emilio Santiago

Il primo decennio del nuovo millennio è stato segnato da un intenso dibattito sull’energia dopo la pubblicazione di un famoso articolo di Campbell e Laherrère nel 1998, «The End of Cheap Oil» 1.. Questo articolo utilizzava la metodologia di Hubbert per prevedere un picco petrolifero globale nel primo decennio del XXI secolo, dopo il quale la produzione di petrolio sarebbe diminuita in modo irreversibile. Sulla base di questa proiezione e a causa dell’impressionante natura petrocentrica del mondo contemporaneo (80% di combustibili fossili nella sua matrice energetica e un quasi monopolio del petrolio in settori come i trasporti e l’agricoltura industriale), è nata una scuola di collasso che ritiene che la logica conclusione di questi dati incrociati sia l’immediata condanna a morte della società industriale come la conoscevamo. La complessità moderna non poteva essere mantenuta in un contesto di declino irreversibile della disponibilità di energia, che prefigurava un brutale processo di razionalizzazione sociale. In altre parole, un collasso. Gli eventi del primo decennio degli anni Duemila (l’invasione dell’Iraq, l’aumento spettacolare del prezzo del petrolio come parte del superciclo delle materie prime trainato dallo sviluppo cinese, la crisi finanziaria del 2008) hanno contribuito molto a plasmare la narrativa del picco del petrolio come un nuovo punto di vista che articola gli eventi di quel decennio con una coerenza esplicativa molto convincente.

Questa esplosione discorsiva ha dato vita a una rete internazionale interconnessa tramite tutta una serie di siti web, blog e forum di discussione online (guidati in Spagna dal sito Crisis Energética, che ha fatto un lavoro impressionante di traduzione e produzione della propria riflessione sul picco del petrolio). Si trattava (e si tratta tuttora) di una rete ibrida, composta in parte da scienziati preoccupati per l’esaurimento dei combustibili fossili e in parte da cittadini che, una volta introdotti in un corpus di conoscenze che ha sconvolto enormemente le loro vite, hanno cercato di approfondirlo e di contribuire al suo sviluppo, oppure hanno mostrato la volontà di adattarsi in vari modi. Come nota Mathew Schneider-Mayerson 2, e questo non è un caso ma una logica conseguenza dei modelli di collasso, la maggior parte di queste reazioni sono state strettamente individuali. Infatti, la scoperta del picco del petrolio negli Stati Uniti è stata una delle principali cause di cambiamento delle traiettorie biografiche – trasloco, cambio di lavoro – e, in alcuni casi, la porta d’accesso alla sottocultura preparista. Altre reazioni, più minoritarie, hanno assunto un carattere più collettivo, come nel caso del movimento delle Transition Towns, emerso nel mondo anglosassone. O con il recupero della tesi del picco del petrolio da parte di movimenti sociali come l’ambientalismo e l’anarchismo in Spagna. Ciò che univa tutta questa congerie di iniziative e voci era la proiezione di un’enorme e imminente rottura della civiltà, che avrebbe avuto un impatto sul modello capitalistico, e che era così certa e contrastata che alcuni dei suoi effetti potevano persino essere datati con relativa precisione.

La rete della collassologia è ibrida, composta in parte da scienziati preoccupati per l’esaurimento dei combustibili fossili e in parte da cittadini che, una volta venuti a conoscenza di un corpo di conoscenze che ha fortemente sconvolto le loro vite, hanno cercato di saperne di più e di contribuire al suo sviluppo, oppure hanno mostrato la volontà di adattarsi in vari modi

Emilio Santiago

Ecco un esempio delle previsioni diffuse all’epoca. Nell’editoriale del numero zero della rivista iberica 15/15, un esercizio di finzione letteraria ambientato nell’anno 2030, si legge la seguente previsione, che ha dato il nome alla pubblicazione: «È stato calcolato che in soli 15 anni dal 2015 rimarrà solo il 15% dell’energia con cui il petrolio ha sostenuto la Civiltà della Crescita». Questo approccio alle improvvise carenze energetiche segue il lavoro pionieristico di persone come Pedro Prieto, con il già citato sito Crisis energética, o Ramón Fernández Durán, che nel 2008 ha pubblicato il libro El crepúsculo de la era trágica del petróleo, uno dei primi libri sull’argomento in Spagna, che include interpretazioni di rapporti dell’Agenzia Internazionale dell’Energia che concludono che «all’attuale ritmo di crescita della domanda globale di petrolio, entro il 2012 questa domanda non sarà più soddisfatta, o forse anche prima».

Uno sconvolgimento nel settore energetico

Nel 2019, tuttavia, era chiaro che lo scenario del picco del petrolio non corrispondeva alla realtà. Come io stesso ho sottolineato quell’anno, nel primo testo in cui prendevo un po’ le distanze da quelli che allora erano i miei compagni di militanza: «Due realtà rendono il nostro discorso particolarmente controintuitivo per la maggioranza: (a) il prezzo del petrolio è relativamente basso, rispetto alle cifre stratosferiche prima del 2014, e (b) l’economia globale continua a crescere, anche se a costo di accumulare contraddizioni in una folle corsa finanziaria a capofitto».

Più avanti, l’articolo metteva in evidenza ciò che era al centro dell’esperienza quotidiana e che contraddiceva le nostre convinzioni collassologiche: «Nel 2004, quando abbiamo sentito parlare del picco del petrolio e delle idee di Hubbert in una conferenza di Pedro Prieto, sembrava impossibile arrivare al 2019 con il livello di continuità essenziale per la vita moderna».

Il decennio 2010 è stato certamente turbolento. La crisi finanziaria ha minato la presunta fine della storia neoliberista. Le misure di austerità, soprattutto in Europa, sono state una tortura sadica e inutilmente dolorosa del corpo sociale. Rivolte e movimenti popolari hanno cambiato la mappa politica del mondo. Ma a metà del decennio era chiaro – almeno in Occidente, ma anche in Cina e in molti Paesi emergenti – che l’approvvigionamento energetico, l’ordine pubblico o la sicurezza alimentare non erano stati modificati in modo sostanziale. Almeno non nella misura che avevamo previsto. Né è stato contestato il fatto che la produzione di petrolio abbia continuato a crescere grazie alla rivoluzione tecnologica del fracking negli Stati Uniti, anche se ciò ha comportato nuovi problemi tecnici e finanziari di varia natura. O che la percezione del rischio di scarsità di energia, notevole tra le élite negli anni Duemila, sia radicalmente diminuita. Un vero e proprio punto di svolta può essere visto nel cambiamento di posizione di alcuni autori che avevano ampiamente contribuito a consolidare il discorso sul picco del petrolio, come lo spagnolo Mariano Marzo e l’italiano Ugo Bardi.

A metà degli anni 2010 era chiaro – almeno in Occidente, ma anche in Cina e in molti Paesi emergenti – che l’approvvigionamento energetico, l’ordine pubblico e la sicurezza alimentare non erano stati sostanzialmente alterati dalla crisi finanziaria

Emilio Santiago

Oggi, negli ambienti degli specialisti dell’energia, la sensazione prevalente è che il picco del petrolio sia stato un falso allarme o un problema che doveva essere parzialmente rimandato. Ad esempio, una delle figure più importanti del pensiero energetico in Spagna, Antxón Olabe, consigliere del Ministero della Transizione Ecologica tra il 2018 e il 2020 e uno dei promotori del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (la roadmap ufficiale del governo spagnolo per la decarbonizzazione del Paese), nel suo ultimo libro si è riferito alla questione del picco del petrolio in questi termini, da cui estraggo alcuni frammenti rilevanti: «I sostenitori di tale ipotesi hanno sbagliato. Nei casi ideologicamente più estremi, è stata costruita un’intera narrativa sull’inevitabile collasso eco-sociale e civile, la cui causa principale sarebbe l’incapacità del sistema energetico di immettere petrolio a basso costo nell’economia (…). Oggi, a distanza di un decennio e mezzo, il sistema energetico globale, lungi dall’avere un problema di scarsità di approvvigionamento di greggio, dispone, come abbiamo detto, di riserve di petrolio equivalenti a cinquant’anni di produzione attuale (…)».

E dopo aver elencato le varie innovazioni in corso per affrontare la crisi climatica (diffusione delle energie rinnovabili, mobilità elettrica), Olabe conclude che «il vero problema per il sistema energetico in generale, e per il settore petrolifero in particolare, è che nel medio e lungo termine ci ritroveremo con un’enorme quantità di stranded asset».

Il fatto che l’ipotesi del picco del petrolio formulata nel primo decennio degli anni 2000 non si sia avverata non significa che non ci troviamo di fronte a gravi problemi energetici. Le nuove scoperte di petrolio sono in calo da decenni. La concentrazione di risorse sfruttabili in alcuni territori rimane una fonte di pericolosa vulnerabilità geopolitica, come ci ha ricordato l’invasione russa dell’Ucraina. Gli oli non convenzionali che soddisfano la nostra domanda sono più costosi, più difficili da estrarre, meno adattabili e molto più inquinanti. La dipendenza dal petrolio della società moderna significa che la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio sarà un compito titanico e rischioso. Ma questo scenario di diminuzione dei rendimenti energetici non significa il crollo della civiltà industriale. Né è vero che le energie rinnovabili non siano in grado di far fronte al cambiamento della matrice energetica di una società industriale (sebbene il dibattito sulla loro capacità sia aperto e non vi sia consenso, la maggior parte degli studi indica che la società moderna – con cambiamenti significativi – e le energie rinnovabili sono fenomeni perfettamente compatibili). Questo è il tipo di argomentazione che l’ideologia collassologica favorisce e che disorienta e compromette in peggio le strategie dell’ambientalismo trasformista.

Decifrare la formula dell’errore collassologico

Come possiamo spiegare l’errore dell’ipotesi del collasso con il picco del petrolio? Sono molti i meccanismi mentali e argomentativi che alimentano la collassologia. Alcuni sono di natura psicologica, altri sono legati all’inerzia culturale e dell’immaginario monopolizzata dalla distopia, altri ancora hanno a che fare con questioni micro-sociologiche e anche con l’adeguatezza della teoria a determinati assiomi politici, come è accaduto nel caso della sua famosa ricezione anarchica. Presenterò, in termini molto semplificati, cinque elementi epistemologici e teorici ricorrenti che ci aiutano a capire cosa è andato storto nelle proiezioni dei gruppi coinvolti nella teoria del picco del petrolio e che fanno parte del substrato intellettuale del pensiero collassologico.

  • Un certo livello di pregiudizio di conferma scientifica, che dà sempre la priorità alle prospettive o ai dati che, in dibattiti accademici molto complessi e pieni di incertezze, si adattano meglio alla narrazione generale.
  • Un marcato riduzionismo, come se il petrolio e il suo declino potessero coprire tutti i fenomeni della storia recente, ignorando le molte altre dimensioni degli eventi, in molti casi con un potere esplicativo maggiore (come nel caso, in questi ambienti, della crisi finanziaria del 2008).
  • Un meccanicismo notevole, che ha sistematicamente sottovalutato il dinamismo della società e la sua capacità di adattamento su molti fronti, dall’innovazione tecnologica alla possibilità di diversi assetti economici e politici. Due fattori che hanno influenzato lo stress energetico contraddicendo lo scenario prescritto dalla teoria.
  • Un approccio deterministico, in cui l’energia è intesa nello stesso modo in cui il marxismo più volgare concepiva l’economia: come base infrastrutturale da cui dipende il comportamento evolutivo della società.
  • Un certo abuso della nozione di sistema, che facilita una costante confusione tra macro e micro scala, confondendo le particolarità delle congiunture in uno schema esplicativo generale e affidandosi troppo a una nozione di crisi governata dall’idea di effetto domino.

Il Regno della libertà non è condannato

Questi errori teorici non sarebbero significativi se rimanessero nell’ambito della sperimentazione accademica. Ma si stanno cristallizzando in narrazioni semplificate, miti e idee potenti che influenzano sempre più il dibattito e l’azione del movimento ambientalista. I quadri politici ambientalisti chiamati a esercitare una leadership essenziale nei decenni a venire sono oggi socializzati in ambienti ideologici che invitano a ogni sorta di pericolose confusioni. Ad esempio, la maggior parte dei lavori accademici sull’argomento contraddice l’idea che le energie rinnovabili siano un’appendice dei combustibili fossili. Si tratta di un miraggio energetico su cui non si dovrebbe scommettere, perché un futuro sostenibile significherebbe avvicinarsi a una realtà metabolica preindustriale. Certo, il fatto che le energie rinnovabili possano alimentare una civiltà industriale, anche se ha trasformato parametri importanti come l’alimentazione e la mobilità, non elimina i problemi e la violenza della loro applicazione nel quadro di una grammatica economica capitalista. Ma questo è un altro discorso: la necessità dell’ecosocialismo. Un’altra pericolosa confusione promossa dalla collassologia è quella di pensare che il disimpegno dello Stato sia un’opzione scientificamente giustificata dalla presunta irreversibile decomposizione dei nostri livelli di complessità sociale.

Gli errori teorici si cristallizzano in narrazioni semplificate, miti e idee forti che influenzano sempre più il dibattito e l’azione del movimento ambientalista.

Emilio Santiago

Come abbiamo visto recentemente in Francia con la messa al bando antidemocratica del movimento ecologista Les Soulèvements de la Terre, non è necessario che un governo esplicitamente di estrema destra salga al potere perché l’ambientalismo subisca processi repressivi di profondo smantellamento. E se questa battaglia dovrà essere combattuta nelle strade, non sarà vinta solo nelle strade. Questa battaglia si vincerà anche all’interno dello Stato, in una faticosa e intermittente guerra di posizione per costruire maggioranze sociali in grado di governare – la linea tracciata da Gramsci resta valida anche oggi. E la prima condizione per la vittoria è non dimenticare che questo campo d’azione è quello che nessun crollo improvviso ci risparmierà.

Il fatto che il picco del petrolio, così come era stato concepito all’inizio degli anni 2000, si sia rivelato un falso allarme non significa che non ci troviamo di fronte a problemi ecologici esistenziali. Rischi che minacciano la vita sociale così come la conosciamo. Un 22° secolo abitabile non è ancora assicurato. L’energia può darci un po’ di tregua, ma al prezzo di aggravare e accelerare la catastrofe climatica che stiamo affrontando, su un fronte in cui le cattive notizie si moltiplicano. La crisi della biodiversità continua a minacciare il nostro futuro. In entrambi i casi, però, abbiamo ancora un temporaneo margine di manovra per realizzare le trasformazioni strutturali di cui abbiamo bisogno, in parte tecnologiche, ma soprattutto socio-economiche e politiche. E a differenza dell’ipotesi del picco del petrolio, che con il suo drastico declino energetico ha compromesso anche la nostra capacità di reazione, queste alternative sono concepibili ed eseguibili a partire da un certo livello di continuità materiale (e non economica, che deve essere radicalmente trasformata) con le fondamenta della vita moderna. Questo chiarisce l’orizzonte del cambiamento e lo rende fattibile.

Il fatto che il picco del petrolio, così come era stato concepito all’inizio degli anni 2000, si sia rivelato un falso allarme non significa che non ci troviamo di fronte a problemi ecologici esistenziali.

Emilio Santiago

Naturalmente, la soluzione alla crisi ecologica implica una riduzione mirata di molti settori produttivi per riportarli entro limiti ecologici ragionevoli, oggi pericolosamente superati (un obiettivo che la decrescita si propone di raggiungere, anche se è ancora lontana dall’essere un’idea politicamente funzionale). Inoltre, in modo più profondo e complesso, la sostenibilità richiede di disattivare la maledizione della bulimia capitalistica, passando a un ordine economico razionale che faciliti la pianificazione democratica di una produzione ecologicamente sostenibile nel tempo, ridistribuendo la ricchezza e garantendo l’accesso universale alla sicurezza materiale. Un progetto che molti di noi pensano ancora in termini ecosocialisti.

Il fatto che la collassologia, almeno nel suo aspetto energetico, si riveli alla luce dei fatti una mitologia basata su errori scientifici e teorici, è un’ottima notizia per gli ecosocialisti: ci incoraggia a pensare che il bene superiore, il progetto emancipatorio che Marx chiamava Regno della Libertà, non sia condannato. La sua realizzazione comporta indubbiamente la sovrapposizione della sua costruzione progressiva al compito prioritario della nostra generazione, che è quello di evitare il male più grande: la traiettoria di una Terra a effetto serra che impedirà la vita umana civilizzata sul nostro pianeta.

Per quelli di noi che hanno a lungo dato per inevitabile il collasso della società industriale, scoprire che non avevamo ragione è una fonte di gioia politica che l’intero ambientalismo trasformista dovrebbe accogliere.

Note
  1. Colin J. Campbell, Jean H. Laherrère, «The End of Cheap Oil», Scientific American, vol. 278, no. 3, 1998, p. 78–83.
  2. Matthew Schneider-Mayerson, Peak Oil: Apocalyptic Environmentalism and Libertarian Political Culture, Chicago, University of Chicago Press, 2015.