«La mia notte al museo dell’Acropoli», una conversazione con Andrea Marcolongo
Andrea Marcolongo condivide con noi un’esperienza inedita al museo dell’Acropoli di Atene. Di fronte ai fregi del Partenone, l’autrice si interroga: amiamo situare l’origine della nostra “identità” in Grecia, ma di quale Grecia stiamo parlando? Notte in bianco di fronte ai miti greci
Spostare la luna dall’orbita, perché questo titolo?
«Spostare la luna dall’orbita» è una frase che ci è riportata da un archeologo presente durante la rimozione dei marmi del Partenone ad inizio Ottocento, che sostiene di averla sentita dagli ateniesi. Trovo quest’espressione affascinante. Possiamo sentire il presentimento di una catastrofe, l’idea di un saccheggio che non è solo un errore o un’ingiustizia, ma un gesto di un’ampiezza più grande, una frattura di ordine superiore, una frattura quasi cosmica.
Nell’edizione francese, il libro si inserisce in una collezione chiamata “La mia notte al Museo” (pubblicata dall’editore Stock), la cui idea di base è permettere a degli autori di passare un’intera notte in un museo a scelta, per farne un racconto. Lei ha scelto di passare la notte al museo dell’Acropoli di Atene, davanti ai resti dei fregi del Partenone; la maggior parte di questi ha però lasciato la Grecia ad inizio Ottocento, per raggiungere il British Museum ed altri musei europei. Nel suo caso, la notte al museo è stata un pretesto o ha davvero determinato il modo in cui ha scritto questo libro?
È una buona domanda, questo genere di esperienza è sempre una scommessa editoriale. Una notte può essere intensa, potente, emozionante, ma evidentemente non basta a creare un libro. La notte non è nemmeno il momento stesso della scrittura: l’intero libro è stato preparato prima e scritto dopo. L’esperienza può fornire un buon reportage in sé, ma non crea a priori della letteratura. Certamente si può anche immaginare di passare una notte al museo senza scriverci un libro. Nel mio caso, la fortuna è stata che il governo greco e l’amministrazione del museo abbiano impiegato quasi un anno a concedermi l’autorizzazione. Quest’anno di preparazione è stato un modo di documentarmi, anticipare l’esperienza della notte stessa – cominciare a costruire il libro prima di quel momento, secondo una dinamica che dà al mio racconto una certa impazienza, un’attesa, una tensione, almeno spero. Direi quindi che immergersi nel museo dell’Acropoli quella notte è stato più che un semplice pretesto per dare vita al libro.
Il suo racconto è costruito, come in un’epopea greca, attorno ad un antieroe, Lord Elgin, l’uomo che ha ordinato il furto dei fregi del Partenone, e del suo opposto eroico, Lord Byron, che ha trasformato il nostro sguardo sulla Grecia soltanto qualche anno più tardi.
Effettivamente, questa storia è così romanzesca e, ancora di più, così fortemente tragica da sembrare inverosimile. Lord Elgin, ambasciatore a Costantinopoli, ha avuto tutto e perso tutto. Venne colpito da quella che Byron stesso definì «la maledizione di Minerva», perdendo alla fine alcuni dei “suoi” marmi (in naufragi), la sua fortuna, la sua reputazione, sua moglie, i suoi incarichi e persino il suo aspetto, poiché fu afflitto da una sorta di cancrena che gli divorava il viso, come le statue che aveva mutilato e rimosso dal Partenone.
Questa tragedia, a tratti, è anche geopolitica. Il ruolo di Elgin avrebbe potuto essere affidato a un qualsiasi altro ambasciatore inglese pronto ad approfittare, come lui, della nuova alleanza tra la Corona e l’Impero ottomano dopo la cacciata dei francesi dall’Egitto sotto il Consolato. Lord Elgin non è un eroe (o un antieroe) tragico in quanto tale. A miei occhi, incarna piuttosto la sintesi della visione europea sulla Grecia ad inizio Ottocento. La Grecia in quel periodo è una sorta di periferia d’Europa, una regione povera dell’Impero ottomano. A nessuno veniva in mente di proteggere o difendere la Grecia.
Da dove viene l’hubris di Lord Elgin e la sua passione sfrenata per i fregi del Partenone, che non conosce e che fa portare via nemmeno averli visti.
Atene all’epoca era una piccola città, sporca e incolta, dove si racconta che ci fosse solo un vecchio capace di capire il greco antico. Lord Elgin, come molti aristocratici europei della fine del XVIII secolo, non sa quasi niente sulla Grecia. Vede soltanto una pura opportunità di soddisfare la sua ambizione, un modo per farsi valere di fronte alla Corona inglese.
Questo “furto” d’altronde avviene a titolo esclusivamente privato. Elgin, ambasciatore inglese a Costantinopoli, usa la sua influenza per farsi consegnare un firman, un documento ufficiale del Sultano che lo autorizza a far staccare i fregi dal Partenone e portarli da lui in Inghilterra. È solo in un secondo momento che questo furto individuale, privato, è diventato il problema geopolitico che conosciamo oggi. È un altro lato di questa storia da romanzo. Tutto quello che Elgin ha fatto, lo ha compiuto da privato, protetto dall’autorità garantitagli dal suo status di ambasciatore. Se ha infine venduto i marmi – ben al di sotto del loro valore – al British Museum, è stato per cercare di coprire i debiti colossali che questa avventura gli aveva procurato.
Nel primo decennio dell’Ottocento, Elgin importa a nome proprio dei marmi che appartenevano a una città dell’Impero ottomano. Oggi lo Stato greco ne chiede la restituzione al Regno Unito. Tutti gli attori di questa storia sono cambiati.
Entrare in questa storia mi ha permesso di riflettere profondamente sul nostro rapporto al patrimonio storico, sul senso dei musei, sulla concezione stessa del museo, sulla sua dimensione universale. Quando ho cominciato a scrivere questo libro, non era avvenuta alcuna restituzione. Nel frattempo, il Vaticano, l’Italia e l’Austria hanno recentemente restituito alla Grecia i marmi del Partenone in loro possesso.
Ci sono somiglianze tra il caso greco e le opere d’arte africane, al 90% custodite oggi nei musei occidentali?
Duecento anni fa, la Grecia era l’Africa d’Europa. Le critiche e i pretesti rivolti per decenni alla Grecia per non restituirle i fregi del Partenone – non sareste in grado di conservarli, i vostri musei non sono abbastanza grandi, abbastanza moderni e abbastanza sicuri, etc. – sono esattamente gli stessi usati oggi per l’Africa.
È un tema appassionante e allo stesso tempo molto delicato. Le due minacce sono l’iperemotività e il nazionalismo brutale. Naturalmente, non tutte le opere straniere presenti nei musei sono il risultato di un furto. Sarebbe assurdo assegnare a ogni opera la “nazionalità” del Paese moderno che corrisponde al luogo in cui è stata creata. Dal momento che l’Europa ha inventato l’idea stessa di museo universale, penso spetti sempre all’Europa inventare la prossima tappa della storia del museo. Dobbiamo ovviamente coinvolgere nel processo di riflessione i Paesi che esigono le restituzioni, ma non possiamo chiedere loro di sviluppare al posto nostro questa critica interna alla nostra concezione del museo.
La riflessione iniziata dal rapporto Savoy-Sarr mi sembra un primo passo convincente. Le sue conclusioni non si limitano a delle considerazioni logistiche sulle restituzioni. Invitano ad inventare nuove maniere di circolazione per il patrimonio artistico. Oggi, i nostri musei sono così presi d’assalto che sono diventati delle attrazioni turistiche che non hanno quasi più niente a che fare con l’arte. Le persone fanno migliaia di chilometri per vedere le opere d’arte. Perché non immaginare il contrario, pensare musei itineranti, in cui le opere d’arte, che sono un patrimonio mondiale davvero universale, andrebbero incontro al pubblico per il mondo intero?
Nel 1812, la rivoluzione degli sguardi europei sulla Grecia è avvenuta grazie a Lord Byron: la pubblicazione e largo successo di Childe Harold ha davvero prodotto un miracolo geopolitico. Si è prodotto un circolo virtuoso tra il mondo intellettuale, pubblico e politico. Una tale circolarità sarebbe benvenuta anche oggi. Non esigo che si possa avere un Lord Byron in ogni Paese; ma credo che gli intellettuali dovrebbero far loro – lo dico davvero – questi temi, partecipare a questi dibattiti, iniziare un dialogo col mondo della decisione politica.
Lei scrive: «le radici culturali di cui pretendiamo essere i frutti, un po’ come tutto il mondo contorto in cui abitiamo, non sono le nostre, ma abbiamo disperatamente bisogno di crederlo». Cosa intende con questo?
Ci piace molto situare l’origine della nostra “identità“ in Grecia. Ma di quale Grecia stiamo parlando? La Grecia del V secolo avanti Cristo, quella di Pericle, o quella di Aristotele cent’anni più tardi? Il Peloponneso, Atene o Sparta? Davanti a queste distinzioni, credo che si tratti piuttosto di una Grecia immaginaria, che ci hanno trasmesso i latini. È una Grecia che noi continuiamo ad inventare. Ma abbiamo bisogno si situare da qualche parte questa idea di radice. Sono d’altronde delle radici molto tangibili, per quanto immaginarie: possiamo proiettarle nei testi, nei marmi, nei paesaggi del Mediterraneo.
Ma questo dove ci porta? Sappiamo fino a che punto le nozioni di radici o identità possono essere utilizzate a fini nefasti. Credo ci si possa impadronire di questi concetti sapendoli sfumare, liberandoli dal loro lato nocivo. Non possiamo vivere come rizomi, che galleggiano senza radici. Se continuiamo la metafora, mi stupisco di sentire così spesso parlare di presunte radici – greche, romane, giudeo-cristiane, etc. – che indubbiamente in qualche misura esistono e contano all’interno dell’albero che è la nostra società; mi stupisco però che molto più raramente si parli di frutti, che sono la cosa davvero importante, ciò che avviene nel presente. Le nostre radici non determinano cosa scegliamo di fare oggi, sono semplicemente un dato storico.
Dobbiamo accettare i capi d’accusa della appropriazione culturale, che considera una frode impadronirsi di un soggetto che proviene da un’area culturale a cui non si appartiene per nascita?
Non credo. La parola radice va spesso di pari passo con posizioni molto conservatrici: veniamo da lì, non bisogna cambiare niente, e quello che si allontana da dove veniamo non ha diritto di accedere all’albero. Nei fatti, questa posizione raggiunge in fondo, seppur con un percorso politico opposto, quella dell’appropriazione culturale, che considerare una frode, se non un crimine, il fatto di utilizzare in modo creativo o ricreativo aspetti di una cultura alla quale non si “appartiene”. In questo caso, senza “appropriazione culturale”, l’idea stessa della Grecia sarebbe scomparsa 2000 anni fa. Scrivendo questo libro, ho spesso visto questa sindrome della frode, ne parlo a più riprese. Non credo che bisogni vivere con questa precauzione, ma piuttosto superarla.
Qual è il più grande sacrilegio, il furto o l’amnesia?
L’amnesia, senza dubbio l’amnesia collettiva. Nel nostro rapporto alla Grecia, c’è sempre stata una parte di furto e una parte di amnesia. Ma in un certo senso, può essere anche meno grave quando è il furto a prendere il sopravvento, perché è almeno il segno di una curiosità, di un interesse, di una fascinazione, di un’attività immaginare – rispetto al lasciare quell’idea affondare nelle ombre di un tranquillo oblio.
Potrei passare la mia vita a militare per il ritorno dei marmi al Partenone. Ma se ci focalizziamo su delle pietre, delle belle pietre – indubbiamente le più belle al mondo – perdiamo forse di vista la difesa della cultura umanista, che sta scomparendo esattamente come i fregi spariti da Atene più di duecento anni fa, ovvero nell’indifferenza generale. Per me, il Partenone è un simbolo della cultura che lasciamo scomparire passivamente, forse pensando che stiamo a volte vedendo la luna spostata dalla sua orbita.
Il suo sguardo sulla Grecia sembra evolvere da una conoscenza scolastica e accademica verso una conoscenza più intima della Grecia contemporanea. Cosa percepite di diverso?
Il nostro rapporto alla Grecia in effetti è ostaggio del passato. Se cercate degli autori greci in una libreria, vedrete sempre molti più autori morti da più di 2000 anni che autori viventi. La Grecia stessa è intrappolata in questo immaginario turistico, di cui soffre. Il discorso sull’età dell’oro della Grecia classica e l’eclisse che sarebbe stata l’epoca ottomana crea una sorta di schizofrenia storica. Tuttavia, i greci che oggi dicono questo non hanno niente a che vedere con i greci della lega di Delo. È tanto assurdo essenzializzare questa discendenza quanto parlare in Francia di “i nostri antenati Galli”. È anche per questo che serve riconoscere la parte di immaginario che questo lascito contiene, e sapere che una fecondità immaginaria ha senso se ci libera, non se ci imprigiona. È anche importante saper decentrare il nostro sguardo sulla Grecia: non guardarla soltanto da Roma, ma anche dalla Turchia o dai Balcani. La Grecia è anche un Paese dell’Asia minore. I testi di Orhan Pamuk sono forse quelli che lo hanno colto meglio. Uno dei suoi ultimi libri, Le notti della peste (Einaudi 2022), descrive un’isola immaginaria in cui la popolazione è metà greca metà turca, forse una versione letteraria di Izmir. La rivisitazione più bella che abbia mai visto di un mito greco è sempre di Pamuk, che ha saputo unire il mito di Medea con un mito ottomano. Possiamo, dobbiamo anche sforzarci di leggere e guardare la Grecia dalla Turchia, per rendere il nostro sguardo più sfumato e più complesso.