Durante il discorso tenuto in occasione della consegna del Premio Carlo Magno ad Aquisgrana, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha auspicato una «indipendenza europea». Secondo lei, sarebbe possibile realizzare tale ambizione aumentando la spesa per la difesa, accelerando l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione, sostenendo una capacità di innovazione tecnologica autonoma e rafforzando la democrazia. Elencando queste priorità, la presidente suggerisce senza dubbio che esse sono strettamente interconnesse, come condizioni indispensabili per la libertà degli europei.

Parallelamente alla diffusione dirompente e trasformativa delle tecnologie digitali, si è sviluppato un ecosistema mediatico di nuovo tipo. Se da un lato alimenta un certo sviluppo economico e la circolazione delle conoscenze necessarie ai cittadini nelle democrazie, dall’altro è diventato lo strumento privilegiato di una guerra cognitiva.

Questo è il motivo per cui, senza indipendenza digitale, non potrà esserci indipendenza europea.

Ma l’indipendenza digitale non si dichiara.

Si progetta e si realizza con energia, innovazione, preparazione e visione a 360°.

A questo proposito, serve immaginare un nuovo inizio. 

Un imperativo europeo: ripensare la politica delle piattaforme

In quasi vent’anni, tra il 2007 e il 2025, l’Europa ha concesso alle grandi piattaforme americane un vero e proprio oligopolio sulle infrastrutture digitali che organizzano l’economia della conoscenza.

Queste piattaforme godono di un potente effetto-rete che le favorisce nei confronti di qualsiasi concorrenza, sono in grado di controllare i mercati nei quali operano e di raccogliere ingenti risorse economiche e finanziarie. Intanto, concentrano un patrimonio di dati immenso sulle persone, le organizzazioni, le loro relazioni, i loro comportamenti, i loro valori. Sicché sono anche fortissime nei large language model e l’intelligenza artificiale generativa.

Ma c’è di più.

L’importanza economica e tecnologica delle aziende che controllano le grandi piattaforme si traduce ormai in un potere politico che non può più essere ignorato e che, da relativamente occulto, è diventato manifesto con l’arrivo a Washington dei tecnocrati della Silicon Valley.

È vero che negli ultimi anni l’Europa ha modificato il proprio quadro normativo introducendo riforme profonde che impongono alle grandi piattaforme — dette «gatekeeper» — di assumersi le proprie responsabilità su una serie di fronti importanti riguardanti il rispetto dei diritti umani, la salvaguardia della competitività dei mercati, l’equità dello scambio di informazioni e il rispetto dei diritti d’autore.

La produzione normativa europea è partita dal General Data Protection Regulation (GDPR) e si è poi sviluppata con il Digital Services Act (DSA), il Digital Markets Act (DMA), l’AI Act.

La UE ha inoltre investito decine di miliardi per ricerca e infrastrutture destinate alla costruzione di una produzione europea di intelligenza artificiale. Ha anche avviato una discussione sull’intera filiera elettronica e digitale, dalla produzione di chip al rilancio della forza delle compagnie di telecomunicazioni e della manifattura di prodotti elettronici.

Ma non ha ancora sviluppato una strategia per affrontare il nodo essenziale del problema delle piattaforme: il loro potere appare privo di reali contrappesi.

Questa onnipotenza ha profonde conseguenze sulle persone che le usano, i mercati sui quali insistono e gli stati con i quali si confrontano. Si può regolamentare il comportamento delle piattaforme esistenti, ma la loro potenza è tale che molte misure decise nei loro confronti risultano deboli. 

L’Unione non ha ancora sviluppato una strategia per affrontare il nodo essenziale del problema delle piattaforme: il loro potere appare privo di reali contrappesi.

Luca de Biase

In realtà, la strada maestra per limitare il potere delle BigTech è quella di creare in Europa piattaforme alternative e superiori a quelle esistenti: piattaforme nuove nelle quali il pubblico possa trovare servizi di valore, nativamente coerenti con il rispetto dei diritti umani, più adatte a difendere e valorizzare il modo di vivere, produrre, consumare e discutere degli europei.

Certo, a prima vista, la creazione di nuove piattaforme appare molto difficile, proprio per il motivo che spinge a riflettere sulla loro creazione: il potere delle piattaforme esistenti

Tuttavia, Internet è forse ancora uno dei pochi ambiti in cui non è mai molto saggio sottovalutare la nostra capacità di stravolgere un sistema.

In questo articolo si discutono le possibilità di sviluppare piattaforme digitali innovative europee che possano risanare l’ecosistema dei media e avviare una fase evolutiva di maggiore qualità culturale, tecnologica, economica, politica, sociale, democratica.

I difetti delle piattaforme esistenti, se sono sentiti dagli utenti, possono essere la base per la realizzazione di alternative che ne siano prive. E oltre a questo, non va escluso che qualcuno possa trovare idee alle quali i progettisti delle piattaforme esistenti non hanno pensato.

Per esplorare queste possibilità, è necessario che il mondo digitale si apra a nuove forme di concorrenza, almeno in Europa.

Noi siamo qui

È legittimo chiedersi se la morsa monopolistica – o, per essere più precisi, oligopolistica (ma gli effetti sono gli stessi) – costituita dalle visioni distopiche della Silicon Valley e del Partito Comunista Cinese nel campo delle piattaforme digitali sia davvero destinata a durare per sempre.Tuttavia, Internet è forse ancora uno dei pochi settori in cui non è mai molto saggio sottovalutare la nostra capacità di sconvolgere un sistema.

Diversi motivi inducono a pensarlo.

La potenza tecnologica delle piattaforme esistenti è enorme grazie al numero di utenti e ai dati che raccolgono, ma il loro potere deriva anche dall’enorme quantità di capitali di cui dispongono per sviluppare le loro strategie.

D’altra parte, in Europa non disponiamo di risorse comparabili. Inoltre, secondo molti osservatori, avremmo la spiacevole abitudine di concentrarci più sulla regolamentazione che sull’innovazione.

Infine, le sanzioni europee sono troppo lente ad essere applicate rispetto alla velocità di innovazione delle piattaforme e ai danni che possono causare a breve termine. La minaccia del diritto europeo non sembra quindi essere, per il momento, una spada di Damocle particolarmente efficace per modificare le scelte strategiche dei giganti del web.

A queste considerazioni si aggiunge la mancanza di un senso di urgenza sulla questione.

Sembra infatti che gli europei abbiano passivamente accettato il pregiudizio secondo cui il monopolio delle piattaforme sarebbe il risultato legittimo della loro competitività. Queste considerazioni appaiono tuttavia molto deboli se si considera che le piattaforme sono oggi molto più che semplici servizi: sono luoghi da cui si esercita il potere.

Tuttavia, è proprio questa massiccia concentrazione di potere che fa sì che ci siano tante ragioni per sperare di poter cambiare il corso delle cose.

Da un lato, le piattaforme americane sottraggono una parte importante del valore dell’economia europea senza restituire altrettanto in termini di investimenti nella ricerca, nelle competenze, nelle entrate fiscali e nella disponibilità dei dati.

D’altro canto, la concezione delle piattaforme americane è ormai chiaramente e manifestamente associata a un deterioramento del benessere degli adolescenti e a un degrado generalizzato della qualità dell’informazione.

Oggi le piattaforme sono molto più che semplici servizi: sono luoghi da cui si esercita il potere.

Luca de Biase

Infine, l’influenza esercitata dalle potenze straniere su queste piattaforme, sulle quali si svolge gran parte della comunicazione degli europei e che costituiscono il teatro della guerra cognitiva, non è compatibile con l’indipendenza europea in materia di difesa.

Ecco perché le ragioni che inducono a pensare che un cambiamento radicale sia possibile sono altrettanto evidenti.

Una via europea per la creazione di piattaforme

In primo luogo, il panorama geopolitico è cambiato.

Mentre le alleanze tradizionali non sono più affidabili, una risorsa strategica come l’infrastruttura digitale è ormai parte integrante di qualsiasi prospettiva di indipendenza per un sistema politico. Le normative europee sono cambiate e consentono di aprire una nuova fase nella transizione digitale europea.

In secondo luogo, gli europei hanno l’opportunità di riprendere il comando nella corsa all’IA.

Per farlo, invece di cercare di imitare gli americani, dovrebbero orientarsi verso modelli basati su architetture diverse, meno energivore e basate su conoscenze più affidabili, come i dati prodotti costantemente dalla robotica industriale e dall’industria manifatturiera europea.

La scienza europea è sempre più consapevole della propria forza. Secondo i dati della Fondazione Bertelsmann, supera la scienza americana in termini di numero di pubblicazioni in un momento in cui quest’ultima è messa in difficoltà dall’amministrazione Trump.

Si sta aprendo una finestra di opportunità: la probabilità che gli europei possano intervenire per contribuire alla creazione di piattaforme europee sembra aumentare.

Infatti, mentre gli europei cercano di diventare autonomi in materia di difesa, non possono farlo senza estendere gli investimenti necessari alle tecnologie che servono a difendere la sicurezza dei cittadini nella guerra cognitiva.

Allo stesso modo, mentre sono chiamati a prendere decisioni fondamentali per le grandi sfide del secolo – dal clima alle migrazioni, passando per le disuguaglianze sociali – non possono deliberare democraticamente basandosi su piattaforme progettate per un contesto americano e gestite dagli Stati Uniti.

Mentre gli europei cercano di diventare autonomi in materia di difesa, non possono riuscirci senza aumentare gli investimenti necessari nelle tecnologie che servono a difendere la sicurezza dei cittadini nella guerra cognitiva.

Luca de Biase

I valori europei, fondati sui diritti umani e sostenuti dallo Stato sociale, dalla sanità all’istruzione, non sono compatibili con l’ipercompetitività, la manipolazione e la distruzione spettacolare che prevalgono sui social network odierni.

La colonizzazione cognitiva che abbiamo permesso che avvenisse cedendo la nostra indipendenza agli americani aveva forse un senso all’epoca in cui la leadership culturale era detenuta da un Paese che era nostro alleato strategico e condivideva i nostri valori democratici.

Ma l’alleanza è crollata e la democrazia in America potrebbe essere agli sgoccioli.

Le proposte

Dopo l’elezione di Trump, sono emerse diverse proposte europee per affrontare la questione.

Il rapporto EuroStack  1 propone quindi di combattere la dipendenza tecnologica creando un’infrastruttura digitale sovrana europea che consentirebbe all’Europa di essere autonoma lungo tutta la catena di approvvigionamento, cosa che attualmente è ben lungi dall’essere una realtà.

Perché non è sempre stato così.

Fino al 2007, la maggior parte dei dispositivi digitali più importanti al mondo, ovvero i telefoni cellulari, era prodotta in Europa.

Gli europei erano allora nella posizione strategica più vantaggiosa nell’intera catena di approvvigionamento, dai componenti elettronici per le comunicazioni mobili alle tecnologie di rete, passando per i software operativi. La sola Nokia aveva raggiunto una quota di mercato mondiale del 41% dei telefoni cellulari. Ericsson, Alcatel e Siemens completavano il dominio europeo in questo settore.

Questo esempio dimostra chiaramente che, dal punto di vista tecnologico, economico e scientifico, l’Europa non è destinata a rimanere indietro. Tuttavia, in termini di potere politico, le Big Tech americane giocano in un altro campionato, anche rispetto alle migliori aziende europee.

Fino al 2007, la maggior parte dei dispositivi digitali più importanti al mondo, ovvero i telefoni cellulari, era prodotta in Europa.

Luca de Biase

Indubbiamente, il punto di forza degli Stati Uniti è la disponibilità di risorse finanziarie che possono essere investite per preservare il potere assoluto delle grandi piattaforme.

Ci sono almeno due ragioni per questo. Da un lato, i tecnocrati sono in grado di generare profitti colossali sui mercati che controllano. D’altra parte, il denaro immesso nell’economia americana durante l’allentamento quantitativo che ha seguito la crisi del 2007-2008, e poi dopo la crisi pandemica — stimato in 7.000 miliardi di dollari — è andato meno all’economia reale che alla finanza. La polarizzazione del mercato finanziario ha finito per favorire le grandi imprese digitali nella corsa all’attrazione di questi ingenti capitali.

Naturalmente, anche in Europa abbiamo attuato politiche simili all’allentamento quantitativo. Ma non disponevamo di imprese così abili nel concentrare le risorse immesse nel sistema. E non siamo riusciti a impedire che, a lungo termine, anche i capitali iniettati finissero sul mercato americano, come dimostra chiaramente il rapporto Draghi.

Le conseguenze di questa asimmetria sono ormai note.

Come dimostrano numerose ricerche, da quelle dedicate alla questione della sorveglianza sollevata da Shoshana Zuboff 2, al colpo di Stato digitale denunciato da Marietje Schaake 3passando per le strategie digitali delle autocrazie ricostituite da Anne Applebaum 4 — il successo delle Big Tech si è tradotto in un rafforzamento del potere politico di strutture fuori da ogni controllo.

Questo potere sta ridisegnando i sistemi in cui riesce ad affermarsi con un progetto di compressione dei diritti umani, di limitazione della concorrenza attraverso pratiche monopolistiche, di frammentazione degli aggregati sociali e di privatizzazione di funzioni che un tempo erano prerogativa degli Stati, dai viaggi spaziali all’emissione di moneta.

Di contro, l’Unione continua a difendere i diritti umani, prosegue i suoi sforzi in materia di diritto della concorrenza per limitare i monopoli, crede nello Stato sociale e, soprattutto, investe ingenti risorse pubbliche per favorire lo sviluppo dell’economia in una direzione compatibile con i grandi obiettivi delle sue popolazioni.

Come affermano i relatori dello European Democracy Shield 5, questo approccio è corretto e deve essere difeso contro la disinformazione e le diverse forme di ingerenza straniera nell’ecosistema dell’informazione europeo. Non si tratta solo di difendere gli attori tradizionali della produzione di informazioni, ma anche di cercare di ridurre l’onnipotenza delle piattaforme esistenti, richiamandole alle loro responsabilità.

È qui che entra in gioco la proposta della Social Data Science Alliance (SDSA) 6 per una strategia che favorisca la creazione di nuove piattaforme in Europa. Queste piattaforme sarebbero organizzate in modo da non ostacolare la libera espressione delle idee e aumentare gli spazi di circolazione di informazioni di qualità, attualmente soffocati dalle piattaforme americane.

Il punto centrale della proposta è che possiamo promuovere un tipo di imprenditoria volta a lanciare nuove piattaforme, a condizione che siano interoperabili e strutturate in modo da garantire la libera circolazione delle persone tra le piattaforme stesse.

Le piattaforme europee non sarebbero quindi orientate in modo organico verso la monopolizzazione della loro zona di influenza, ma disegnerebbero un ecosistema innovativo, libero, competitivo, pluralista, senza un’eccessiva concentrazione di valore aggiunto e di potere.

Possiamo promuovere un tipo di imprenditoria volta a lanciare nuove piattaforme, a condizione che siano interoperabili e strutturate in modo da garantire la libera circolazione delle persone tra le piattaforme stesse.

Luca de Biase

Questa proposta affronta il nocciolo della questione: l’eccessivo potere delle piattaforme generato dall’assenza di concorrenza.

Il passaggio a un sistema di piattaforme interoperabili renderebbe meno vincolante l’effetto rete delle grandi piattaforme esistenti e faciliterebbe la creazione di nuove piattaforme alternative.

Ciò non sarebbe ovviamente sufficiente, ma la relazione della Social Data Science Alliance osserva che se le grandi piattaforme non accettassero le norme europee in materia di concorrenza, potrebbero anche essere soggette a sanzioni significative, non solo multe, ma anche la chiusura temporanea delle loro attività, come è già avvenuto in Brasile nei confronti di X e come gli Stati Uniti hanno minacciato di fare con TikTok.

In breve, la concorrenza si difende con le regole: in assenza di regole che la proteggano, in particolare nell’ambiente digitale, i più forti diventano sempre più forti e impediscono l’emergere di qualsiasi concorrenza.

Parallelamente all’applicazione rigorosa del diritto della concorrenza, è necessario investire per favorire l’emergere delle piattaforme alternative necessarie al raggiungimento degli obiettivi sistemici.

Reimagine Europa 7 ha elaborato una proposta volta a convincere le istituzioni dell’Unione a impegnarsi a creare un’infrastruttura che consenta la creazione di nuove piattaforme.

Il contesto che può consentire questo tipo di impegno da parte dell’Europa è quello che ha portato alla definizione di una strategia per l’IA. Le imprese europee, anche in questo settore, sembrano nettamente in ritardo rispetto ai giganti americani.

Da questo punto di vista, l’Unione non si è tirata indietro.

È convinta che la questione dell’intelligenza artificiale lasci spazio a diverse interpretazioni della tecnologia, alcune delle quali più adatte al sistema europeo, che ha i suoi punti di forza. La robotica industriale, la capacità produttiva e la scienza europee sono più avanzate di quelle degli Stati Uniti e possono costituire una base per lo sviluppo di intelligenze artificiali efficaci ed economicamente sostenibili.

L’Europa ha trovato il modo di sostenere questa ipotesi investendo in infrastrutture adeguate: supercomputer, centri dati, AI Factory e AI Gigafactory sono infrastrutture pubbliche che i centri di ricerca, le imprese e le start-up europee possono utilizzare gratuitamente per formare i propri modelli senza disporre dei capitali privati di cui beneficiano le imprese americane.

Questo modello potrebbe anche servire da base per una strategia.

Infrastrutture pubbliche essenziali, con un ruolo di facilitatori, sarebbero così in grado di garantire la difesa dei diritti e della sicurezza dei cittadini favorendo l’emergere di piattaforme alternative a quelle americane.

Non assorbendo la maggior parte delle risorse, lascerebbero inoltre un grande valore aggiunto alle nuove piattaforme applicative che, a loro volta, dovrebbero competere in un contesto di interoperabilità, innovando senza sperare di conquistare un monopolio, ma con l’obiettivo di offrire servizi che le persone vogliono davvero utilizzare. In questo contesto, sono anche maggiori le possibilità di vedere nascere piattaforme impegnate nel miglioramento della qualità delle informazioni in circolazione.

Il confronto tra lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e l’evoluzione dei social network è piuttosto pertinente.

Questi ultimi sono infatti ormai inglobati nel “mondo” dell’intelligenza artificiale. Non solo perché i contenuti sono sempre più spesso creati a partire da modelli generativi e perché servono a raccogliere una moltitudine di dati essenziali per lo sviluppo dei modelli generativi, ma anche e soprattutto perché il traffico è gestito e manipolato da IA che applicano in modo personalizzato algoritmi di raccomandazione.

Da anni ormai sappiamo quanto questi algoritmi si siano rivelati socialmente pericolosi: progettati per creare contenuti divisivi by design, hanno aumentato la polarizzazione, la radicalizzazione e la frammentazione delle opinioni dei cittadini.

Allo stesso modo, gli algoritmi di raccomandazione sono spesso responsabili del successo di messaggi emotivamente coinvolgenti, anche se completamente falsi: le organizzazioni che producono disinformazione conoscono bene questa circostanza e la sfruttano per attaccare i paesi avversari, diffondendo informazioni che mettono in difficoltà le democrazie.

Tuttavia, la disinformazione non può essere sconfitta contrapponendo una verifica dei fatti a ogni informazione falsa in circolazione: si combatte con l’educazione, ma anche lottando contro gli algoritmi di raccomandazione e la centralità delle piattaforme che li propongono agli utenti, spesso inconsapevoli del pericolo.

L’introduzione di alternative senza sistemi di raccomandazione — o con sistemi di raccomandazione volti a migliorare il servizio, ad esempio contestualizzando le informazioni o presentando diversi punti di vista — potrebbe ridurre la forza della disinformazione, in particolare perché favorirebbe la circolazione di informazioni diverse, forse ben documentate e affidabili, in grado di contestualizzare o fornire punti di vista alternativi, erodendo complessivamente il potere delle poche piattaforme attuali.

La disinformazione si combatte con l’educazione, ma anche contrastando gli algoritmi di raccomandazione e la centralità delle piattaforme che li propongono agli utenti, spesso inconsapevoli del pericolo.

Luca de Biase

Il RGPD fornisce già un punto di partenza per la creazione di queste infrastrutture essenziali: i cittadini europei hanno il diritto di scaricare tutti i propri dati personali dalle piattaforme che utilizzano, di salvarli in un formato standard su server sotto il loro controllo e di utilizzarli per accedere a piattaforme concorrenti.

Questo concetto, già sviluppato in India, è attualmente allo studio in Europa.

Se i cittadini controllano i propri dati personali attraverso un sistema unico di certificazione dell’identità da loro controllato e che possono utilizzare per accedere a qualsiasi piattaforma, sono soddisfatti i presupposti per l’interoperabilità.

Questo portafoglio contenente documenti di identità e dati personali — e persino gli euro digitali che potrebbero essere messi in circolazione in futuro — potrebbe essere uno strumento fondamentale per la libertà nel mondo digitale, a condizione che i dati siano controllati dai cittadini e non da aziende private o autorità pubbliche.

Una prima applicazione di tale portafoglio potrebbe servire a correggere i problemi che i social network causano ai cittadini minorenni.

A luglio l’Unione lancerà un’applicazione per la verifica dell’età, concepita per rafforzare la protezione dei minori online. Questo strumento consentirà di confermare l’età degli utenti senza che questi siano obbligati a fornire dati personali alle piattaforme. Sebbene l’Unione non imponga un metodo unico di verifica, essa richiede che i siti che trattano contenuti sensibili adottino misure adeguate.

Questa applicazione, che precede il portafoglio digitale previsto per il 2026, fornirà all’Unione uno strumento supplementare per esigere maggiore rigore da parte delle piattaforme. Henna Virkkunen, commissaria europea responsabile per il digitale, ha sottolineato in un’intervista al Financial Times 8 che la protezione dei minori deve essere una priorità e che le grandi aziende del settore digitale devono raddoppiare gli sforzi.

A partire dal portafoglio per i dati personali, la soluzione potrebbe proseguire con la creazione di piattaforme di pubblicazione, anche open source, che potrebbero essere utilizzate per generare reti di relazioni digitali innovative, distribuite, con valore locale o settoriale per i partecipanti.

Un’infrastruttura basata su questi principi mobiliterebbe solo una parte delle risorse delle piattaforme applicative, che potrebbero così funzionare con modelli economici meno costosi.

Ciò può moltiplicare il numero di iniziative e consentire anche applicazioni meno industriali e di migliore qualità per gli utenti, in particolare al servizio dell’innovazione sociale, per iniziative educative e culturalmente significative, per informazioni di qualità al servizio della salute o dei trasporti, ecc.

Se i cittadini controllano i propri dati personali attraverso un unico sistema di certificazione dell’identità e possono utilizzarlo per accedere a qualsiasi piattaforma, sono soddisfatti i presupposti per l’interoperabilità.

Luca de Biase

Grazie alle vaste possibilità offerte dall’intelligenza artificiale indipendente, potrebbero emergere start-up specializzate nella gestione di conoscenze di qualità basate su dati controllati. Queste servirebbero a contestualizzare le informazioni, tradurre, generare informazioni basate su dati quantitativi, ecc. Sarebbero create reti di nuova generazione, facili da usare ma anche da creare, per ogni tipo di innovazione sociale e culturale, con un modello economico razionale: non una nuova piattaforma gigantesca, ma un numero gigantesco di nuove piattaforme per trasformare un sistema monopolizzato da pochi giganti in un mercato competitivo, aperto e ricco di innovazioni.

I dubbi europei

Fatta questa constatazione, cosa spiega la riluttanza delle autorità a impegnarsi a favore della creazione di piattaforme alternative europee autonome?

L’ipotesi secondo cui non ne vedrebbero l’importanza è senza dubbio errata: l’Unione ha ampiamente legiferato nel corso dell’ultima legislatura per limitare il potere delle piattaforme esistenti.

Una seconda ipotesi è che la Commissione ritenga che, in fondo, sarebbe troppo difficile battere le piattaforme americane: competere con i monopoli americani, considerati molto potenti, molto ricchi e molto efficienti dal punto di vista tecnologico, sarebbe un fallimento certo.

Le piattaforme che beneficiano dell’effetto rete sono imbattibili. Ma come ha dimostrato Bernardo Huberman nei suoi studi sulle «leggi del web» 9, l’effetto rete si applica a tutte le categorie di servizi. In altre parole, è sempre possibile creare piattaforme che offrono un servizio diverso da quelli già esistenti. Non si tratta di rifare Google o Instagram, ma di creare piattaforme completamente diverse, che possano tuttavia attirare l’attenzione con proposte più sensate e razionali dal punto di vista umano rispetto a quelle delle piattaforme americane.

Una terza ipotesi potrebbe attingere a ragioni più ideologiche: nei corridoi della Commissione potrebbe ancora prevalere l’idea che le attività concorrenziali delle piattaforme dovrebbero essere regolate dal mercato, cioè dagli imprenditori e dai privati, piuttosto che dallo Stato.

A livello puramente teorico, è vero che si tratta di un’attività economica che non si svolge in condizioni di fallimento del mercato, così come è vero che è piuttosto complicato intervenire politicamente nel mondo dei media senza rischiare di aggravare la situazione democratica e la libertà di espressione.

Nei corridoi della Commissione potrebbe ancora prevalere l’idea che le attività concorrenziali delle piattaforme dovrebbero essere regolate dal mercato, ovvero dagli imprenditori e dai privati, piuttosto che dallo Stato.

Luca de Biase

Va tuttavia ammesso che ciò sarebbe in contraddizione con il fatto innegabile che molti paesi democratici europei dispongono di un sistema pubblico di radiodiffusione, che fornisce un servizio pubblico in nome della democrazia, del pluralismo e dell’informazione come servizio universale.

In altre parole, questo approccio parte da un presupposto errato: il mondo dei social network non è perfettamente competitivo. Si potrebbe addirittura affermare che, impedendo l’emergere di nuovi attori, esso può essere considerato un mercato inefficiente.

Esiste una quarta ipotesi: quella che vede i politici e le parti interessate non voler affrontare uno strumento che è ancora, per loro, un formidabile strumento di propaganda.

Si tratta di un tema che interessa maggiormente i politici estremisti, che sono quelli che traggono il massimo vantaggio dai social network. I politici che non potrebbero fare a meno degli attuali social network sono quelli che vivono di polarizzazione, che non approfondiscono i temi, che si accontentano di intercettare ogni forma di malcontento. I social network attuali accentuano la visibilità dei messaggi puramente emotivi e rendono invisibili le informazioni documentate, esigenti e razionali. L’Unione dovrebbe tuttavia garantire che i cittadini europei prestino maggiore attenzione a informazioni di migliore qualità e più approfondite rispetto a quelle che prevalgono sui social network.

Una comunità di intenti

È possibile una nuova strategia europea per i social network.

È necessario trovare motivi di unità politica in un mondo digitale che ha fatto di tutto per dividere le popolazioni e frammentare i gruppi sociali, fino a generare una vera e propria epidemia di solitudine.

Si tratta di pensare a cose che non sono ancora state fatte, di introdurre nel sistema mediatico logiche di innovazione che, senza imporre contenuti specifici, alimentino metodi che consentano di rendere l’informazione un servizio pubblico. Le diverse forme di crisi della democrazia – dal calo della partecipazione elettorale all’esplosione dei movimenti estremisti e antisistema, passando per la circolazione di informazioni distruttive – sono fenomeni compatibili con una concezione dei social network che si rivela particolarmente adatta ad essere sfruttata da potenze straniere che desiderano esercitare un’influenza sull’Unione europea.

È vero che finora l’Europa è riuscita ad andare avanti nonostante un ecosistema mediatico deteriorato. Ma una novità potrebbe accelerare il processo decisionale.

L’Unione ha scoperto che è necessario dotarsi di una difesa comune. Ciò non implica solo la necessità di investire in armamenti per un’ipotetica guerra fisica. Implica investire in soluzioni difensive per la guerra cognitiva già in corso.

Le diverse forme di crisi della democrazia sono fenomeni compatibili con una concezione dei social network che si rivela particolarmente adatta ad essere sfruttata da potenze straniere che desiderano esercitare un’influenza sull’Unione europea.

Luca de Biase

Secondo David Colon e Anne Applebaum 10 , le potenze straniere che la sviluppano sul «teatro digitale» europeo sono le autocrazie interessate a destabilizzare l’Unione e a conquistare nuovi spazi in Europa e in Africa. Hanno imparato il concetto stesso di guerra cognitiva dagli Stati Uniti, che lo hanno sviluppato nel corso del tempo in Europa: dall’epoca della strategia della tensione nei paesi che avevano importanti partiti comunisti fino al massiccio dispiegamento della sorveglianza digitale, uno dei cui esempi più noti e documentati è stato il caso dello spionaggio della cancelliera tedesca Angela Merkel, rivelato al pubblico dalle indagini sulle attività della NSA avviate a seguito delle rivelazioni di Edward Snowden.

Gli Stati Uniti hanno inventato la guerra cognitiva, una forma di conflitto che mette in atto una complessa serie di azioni di disinformazione, sorveglianza granulare, strategia della tensione, soft power, costruzione di piattaforme e controllo di Internet. È da Washington che russi e cinesi hanno imparato a rispondere con l’efficacia che le autocrazie possono dimostrare in questo campo.

Dall’inizio alla fine, l’Unione ha subito.

La strategia del caos russa e la sorveglianza americana, le ingerenze cinesi, iraniane e israeliane: siamo stati le prime vittime collaterali di questa guerra perché non avevamo alcun controllo sulle piattaforme. È forte di questa consapevolezza che forse possiamo riunirci attorno a una comunità di intenti: la nostra indipendenza passa innanzitutto attraverso la nostra indipendenza digitale.

Le soluzioni che proporremo dovranno essere profondamente legate alla difesa dei diritti umani e delle nostre libertà: la guerra cognitiva si vince con le tecnologie della comunicazione, ma anche e soprattutto con lo spirito e il rispetto delle regole e delle persone che le utilizzano.

*

Naturalmente, queste sono solo alcune idee — necessarie ma sicuramente non sufficienti — per lanciare la controffensiva digitale di cui l’Europa ha bisogno.

Ma oggi dobbiamo constatare che il principale ostacolo alla ripresa europea è sicuramente la convinzione che non ci sia nulla di concreto da fare contro il potere delle piattaforme americane.

Il loro potere non è però inevitabile: finché non ci opponiamo, lo accettiamo.

In Russia, Corea del Sud e Cina, le piattaforme più utilizzate sono locali.

In Giappone, Indonesia e Brasile esistono piattaforme locali sufficientemente forti da competere con quelle americane.

In India esiste una strategia forte e molto lungimirante per la costruzione di un’infrastruttura locale per l’identità digitale locale — che presenta tuttavia dei limiti sul piano giuridico.

In breve, l’Europa sembra essere l’unica grande regione che non ha ancora combattuto la sua guerra di indipendenza digitale.

È ora di combatterla: la vittoria è possibile.

Note
  1. EuroStack, rapporto diretto da Francesca Bria, 2025
  2. Shoshana Zuboff, The age of surveillance capitalism: the fight for the future at the new frontier of power, Faber and Faber, 2019.
  3. Marietje Schaake, The Tech Coup. How to Save Democracy from Silicon Valley, Princeton University Press, 2024.
  4. Anne Applebaum, Autocracy, Inc: The Dictators Who Want to Run the World, Allen Lane, 2024.
  5. Information integrity online and the European democracy shield, Parlamento europeo, dicembre 2024.
  6. L’Europa ha un’occasione unica per creare piattaforme di social media locali, per contrastare la nuova tecnopolitica statunitense, Social Data Science Alliance, 2025.
  7. Building a European infrastructure to support media and democracy in the AI Age, Reimagine Europa, 16 gennaio 2025.
  8. Barbara Moens, EU to launch age-check app as pressure builds on Big TechFinancial Times, 30 maggio 2025.
  9. Bernardo Huberman, The Laws of the Web: Patterns in the Ecology of Information, The MIT Press, 2001.
  10. Anne Applebaum, Autocracy, Inc: The Dictators Who Want to Run the World, Allen Lane, 2024; David Colon, La guerre de l’information. Les États à la conquête de nos esprits, Taillandier, 2023.