Filosofo scozzese prolifico, autore di una ventina di opere e oltre duecento articoli accademici, MacIntyre è scomparso mercoledì 21 maggio all’età di novantasei anni.
Ci lascia dopo una lunga esistenza trascorsa principalmente nelle università americane, ma ricca di vicissitudini intellettuali, molteplici conversioni e interventi filosofici a volte sconvolgenti. MacIntyre è così diventato una figura imprescindibile della filosofia contemporanea, suscitando tanto fascino nei suoi ammiratori quanto nei suoi critici, nei confronti dei quali non ha mai mancato di esprimere la sua gratitudine. La sua estrema agilità intellettuale, unita a uno spirito brillante e a una memoria fuori dal comune — si dice, tra coloro che lo hanno conosciuto, che non avrebbe mai dimenticato nessuna delle sue letture — hanno reso questo intellettuale esigente, che non rinunciava mai a un tocco di umorismo, un incontro marcante per generazioni di studenti e lettori. Una vita contemplativa che, pur essendosi in gran parte sottratta al tumulto degli affari del mondo, fu tuttavia ben lungi dall’essere un lungo fiume tranquillo.
Nel 1981, la pubblicazione di Dopo la virtù, generalmente considerato il suo capolavoro, ha avuto l’effetto di una bomba sulla filosofia morale anglosassone.
Con la sua vigorosa difesa e illustrazione contemporanea della tradizione delle virtù, ha contribuito a riportare Aristotele al centro del dibattito. Il libro ha avuto un’eco che è andata ben oltre i consueti circoli degli specialisti di filosofia morale e persino dell’università. Ma se Dopo la virtù è già un classico, è solo una tappa di un percorso filosofico, politico e spirituale movimentato che, nel suo ordine, è potuto sembrare al limite del rocambolesco. MacIntyre è stato un giovane intellettuale comunista appassionatamente cristiano all’inizio degli anni ’50, poi un partecipante critico ai dibattiti costitutivi della prima «nuova sinistra» britannica a metà dello stesso decennio, quindi un militante trotskista serenamente ateo all’alba degli anni ’60, prima di diventare un accademico sempre più lontano da ogni forma di impegno politico e religioso. Dopo la virtù, in poche pagine lapidarie, sferra un attacco frontale alla tradizione marxista. MacIntyre, sempre ateo, proclama allora la sua adesione all’aristotelismo non senza una certa enfasi polemica. Il viaggio prosegue con un approfondimento che porterà questo doppio rinnegato del marxismo e del cristianesimo, alla fine degli anni ’80, a riconoscersi intellettualmente nel tomismo e poi a rientrare nelle file della Chiesa cattolica romana.
A quel punto potrebbe sembrare che la partita sia chiusa: giovinezza rivoluzionaria, vecchiaia reazionaria. Eppure, a metà degli anni ’90, MacIntyre compie un sorprendente ritorno a Marx, coniando la formula di un tomismo «informato dalla lucidità del marxismo» 1 e rivendicando progressivamente per il suo aristotelismo l’aggettivo, controverso, di «rivoluzionario». Alllora, è oggettivamente più vicino all’anarchismo che all’orizzonte — per lui definitivamente tramontato — di una rivoluzione comunista.
La pubblicazione di Dopo la virtù, generalmente considerato il suo capolavoro, ha avuto l’effetto di una bomba sulla filosofia morale anglosassone.
Ostiane Lazrak
Se quest’ultima peripezia non potrà certo soddisfare alcun marxista, bisogna tuttavia riconoscere che le celebrazioni del pensiero di MacIntyre che già cominciano a levarsi dalle fila della destra non potrebbero che rattristare l’autore.
Durante la sua vita, infatti, non ha mai perso occasione per criticare aspramente il pensiero conservatore di Burke e tutti i suoi avatar contemporanei. Si è anche pubblicamente dissociato dalle interpretazioni distorte di ammiratori indesiderati come Rod Dreher, il cui «opzione benedettina» travisa sfortunatamente un’allusione — per quanto criptica — contenuta nelle ultime righe di Dopo la virtù. MacIntyre non era certo un sessantottino, ma non si trova in lui alcuna traccia di un «anti-wokismo» crociato. Fino alla fine della sua vita è rimasto molto discreto sui cosiddetti temi «sociali», discrezione particolarmente notevole da parte di un cattolico americano d’adozione. Egli pone l’ospitalità come virtù cardinale delle comunità che la sua filosofia promuove 2, rifiuta senza esitazione la «visione assurda» che Tommaso d’Aquino aveva delle capacità delle donne 3 e fa positivamente riferimento al movimento Black Lives Matter nella sua ultima opera, redatta in scrittura inclusiva 4. La sua filosofia trova una certa eco nei paesi del Sud del mondo e il suo concetto centrale di tradizione, solidale di una critica della razionalità illuminista, è oggetto di usi creativi e fecondi da parte di alcuni pensatori postcoloniali.
Per tutti questi motivi, tentare una retrospettiva di una vita di militanza e filosofia ricca di colori è un esercizio rischioso.
Gli albori di una critica radicale del liberalismo
Nato a Glasgow nel 1929 da due genitori medici, MacIntyre è cresciuto nell’East End londinese.
Ama ricordare essere stato cullato da bambino dalle poesie e dalle leggende gaeliche e di essersi confrontato con la contraddizione di questa cultura orale con la cultura borghese e moderna inglese, quella della pressione al rendimento scolastico, «una cultura di teorie piuttosto che di storie» 5. Da adolescente, fu stimolato da lunghe discussioni e profondi disaccordi con i domenicani amici della sua famiglia paterna irlandese. Fu così segnato dal primo contatto con il tomismo dei Blackfriars di Oxford, dove poco dopo incontrò per la prima volta il giovane Herbert McCabe, destinato a diventare uno dei suoi grandi amici. Questo domenicano atipico, energicamente marxista e rigorosamente ortodosso sul piano dottrinale, predicatore fuori dal comune e grande bevitore di whisky, arriverà fino a sostenere la compatibilità tra l’amore cristiano e l’impegno nella lotta di classe che non teme la violenza politica.
Controcorrente rispetto ai suoi compagni della New Left, MacIntyre si immerge di nuovo in Lenin all’alba degli anni ’60 e giunge alla convinzione della necessità di un impegno più deciso nella lotta di classe.
Ostiane Lazrak
A diciassette anni, impressionato dalla forza critica del tomismo, MacIntyre è allo stesso tempo certo di non voler «avere mai nulla a che fare» con il liberalismo e fermo nella sua consapevolezza dei pesanti presupposti filosofici e teologici di tale critica. L’incontro con un professore di greco al Queen Mary College, George Thomson, e con alcuni studenti marxisti, porta questo fervente cristiano ad aderire al partito comunista. Questa esperienza è di breve durata: meno di un anno. MacIntyre ne esce disgustato dall’inefficienza organizzativa del CPGB e già sospettoso nei confronti degli errori del marxismo sovietico. Il suo primo libro, Marxism: An Interpretation, scritto quando aveva solo ventitré anni, si presenta come un’interpretazione cristiana del marxismo e testimonia uno sforzo per articolare un impegno cristiano e rivoluzionario.
Una meteora nella New Left britannica
Il 1956 è un anno cruciale per la sinistra britannica, in cui MacIntyre emerge progressivamente come figura intellettuale di spicco della New Left.
La repressione dell’insurrezione ungherese e la rivelazione delle atrocità contenute nel rapporto Krusciov portano alla nascita di un movimento militante e intellettuale che non si accontenta né del dogmatismo del partito comunista asservito a Mosca, né del riformismo del partito laburista. MacIntyre diede un contributo notevole alle due principali riviste di questo movimento, The Reasoner (che diventerà The New Reasoner) e Universities and Left Review. In particolare, le sue Notes from the Moral Wilderness, scritto in risposta a Edward Thompson, diede un contributo importante e duraturo alla tradizione marxista, che ancora oggi suscita l’interesse dei ricercatori. Questo contributo è quello di un progetto di etica autenticamente marxista, che non si limita a denunciare i crimini commessi in URSS in termini di morale liberale, ma trova nella filosofia stessa di Marx le risorse per un’autocritica e un superamento.
Controcorrente rispetto ai suoi compagni della Nuova Sinistra, MacIntyre si immerge di nuovo in Lenin all’alba degli anni ’60 e giunge alla convinzione della necessità di un impegno più deciso nella lotta di classe. Questo lo porta ad aderire alla principale organizzazione trotskista della Socialist Labour League, poi, a seguito di divergenze interpersonali, al gruppo allora minuscolo di trotskisti eterodossi dell’International Socialism. Sempre più vicino allo spontaneismo di Castoriadis e Rosa Luxemburg, MacIntyre perde allo stesso tempo fiducia nel potenziale rivoluzionario concreto del proletariato inglese. Si allontanò quindi gradualmente dal militante, pur proseguendo una carriera prestigiosa a Leeds, Oxford ed Essex, dove continuò a difendere orientamenti filosofici marxisti.
MacIntyre mostra come l’eliminazione moderna della concezione del bene trasmessa dalla scolastica abbia portato allo smantellamento della coerenza nella strutturazione dell’etica, generando una profonda incoerenza nel linguaggio della morale moderna e contemporanea.
Ostiane Lazrak
Una rivoluzione intellettuale: la tradizione, cuore pulsante della razionalità scientifica e morale
Il periodo militante di MacIntyre è definitivamente alle sue spalle nel 1968. È già autore di un primo best-seller, una breve e stimolante storia dell’etica scritta sulla scia dello storicismo di R. G. Collingwood, oggi largamente eclissata da Dopo la virtù 6.
La sua partenza per gli Stati Uniti nel 1970, non senza difficoltà alla dogana a causa della sua passata affiliazione al CPGB, è un nuovo inizio per la sua carriera, che lo porterà a Brandeis, Boston, Vanderbilt, Duke e Notre Dame.
Ma soprattutto apre una nuova pagina del suo pensiero, che prende una svolta radicale in un articolo del 1977 7. In un’intervista inedita realizzata con lui nel 2019, MacIntyre insiste su questo punto: l’intuizione centrale della sua filosofia della maturità è contenuta nel concetto di tradizione, e questo concetto non ha subito sostanziali evoluzioni in seguito. L’affermazione è spiazzante da parte di un pensatore ampiamente considerato come una delle figure più importanti della filosofia cattolica dell’ inizio del XXI secolo: aderire alla tradizione tomista e poi riconoscere nella tradizione cattolica la trasmissione vivente della rivelazione non ha fondamentalmente alterato il suo concetto di tradizione. Sembra piuttosto che sia stata un’intuizione intellettuale, che, dando il meglio di sé e approfondendosi, abbia fatto evolvere le sue alleanze filosofiche e religiose. Secondo una dichiarazione di MacIntyre del 2010, la sua conversione al cattolicesimo, dopo i cinquant’anni, «risultò dal fatto che [egli] fu convinto dal tomismo nel tentativo di dissuadere i suoi studenti sulla sua autenticità» 8.
Su questa intuizione fondamentale bisogna qui sorvolare troppo rapidamente per dire che riguarda la natura storica della giustificazione razionale. Essa si rivela innanzitutto a MacIntyre nello studio della storia delle scienze. Il trionfo della fisica galileiana, sostiene MacIntyre nel 1977, risiede almeno tanto nella scoperta di una teoria dotata di un maggiore potere esplicativo quanto in un nuovo modo di scrivere la storia delle scienze alla luce di questa teoria, in grado di rendere conto della forza e dei limiti delle sue concorrenti storiche. MacIntyre trasferisce questa lezione alla storia dell’etica, che riscrive interamente da un punto di vista aristotelico, mostrando la potenza della narrazione storica che questo punto di vista consente. Egli mostra come l’eliminazione moderna della concezione del bene trasmessa dalla scolastica abbia portato allo smantellamento della coerenza nella strutturazione dell’etica, generando una profonda incoerenza nel linguaggio della morale moderna e contemporanea. MacIntyre trova infine nel tomismo la migliore spiegazione dei presupposti metafisici che scopre progressivamente indispensabili per questa teoria delle «tradizioni di indagine razionale». Interpretare le tradizioni di indagine in termini puramente sociologici e storici non è basta per rendere conto del tipo di razionalità che vi si dispiega, indissociabile da una forte pretesa di verità di cui il realismo tomista costituisce la migliore formulazione. Non si tratta di un voltafaccia, ma di un approfondimento che sposta l’indagine. MacIntyre offre così un tentativo originale di combinare un’attenzione minuziosa alla diversità dei contesti, ovvero uno storicismo della razionalità, con un antirelativismo della verità. Si tratta di dare alla relatività culturale non l’ultima, ma almeno la prima parola.
MacIntyre trova nel tomismo la migliore spiegazione dei presupposti metafisici che egli scopre progressivamente indispensabili per questa teoria delle «tradizioni di indagine razionale».
Ostiane Lazrak
Una vita di indagini
In Dopo la virtù, in pagine che segneranno Paul Ricoeur, MacIntyre descrive le vite umane che raggiungono una certa realizzazione come «quêtes narrative»: viaggi degni di essere raccontati, il cui significato o orientamento può essere scoperto nel corso della narrazione.
Il senso può rivelarsi non per un effetto di illusione retrospettiva o di costruzione libera e arbitraria, ma grazie a una scoperta progressiva che si affina, si approfondisce e si sposta. La ricerca è quel viaggio spesso caotico, confuso e oscuro, eppure ostinatamente orientato, risolutamente teso verso una fine che si intravede solo indistintamente e su cui si sbaglia in larga parte.
Nel romanzo di Chrétien de Troyes, la ricerca di Perceval è preceduta da un corteo enigmatico che gli presenta per la prima volta il Graal presso il Re pescatore.
Bisogna aver intravisto il Graal almeno una volta per sapere cosa si cerca, eppure si sbaglia quasi continuamente su ciò che si cerca esattamente: l’indagine ne diventa probabilmente ancora più accanita. Homo viator dell’università contemporanea per eccellenza, MacIntyre ha intitolato il suo testo autobiografico principale «sul fatto di non sapere dove si va» 9.
Inizialmente fugacemente abbagliato dalla potenza del tomismo da adolescente, intuendo al tempo stesso l’impossibilità di abbracciarne tutta l’ampiezza a quel punto, MacIntyre ha attraversato sette decadi di vita intellettuale avanzando contro ogni avversità verso una destinazione sconosciuta.
Questa si è infine rivelata sorprendentemente vicina al punto di partenza.
Ma sarebbe stata accessibile senza la deviazione del viaggio?
Note
- Ethics in the Conflicts of Modernity, Cambridge, Cambridge University Press, 2016.
- Dependent Rational Animals, Londres, Duckworth, 1999.
- «Aquinas’s Critique of Education: Against His Own Age, Against Ours», in Amelie Oksenberg-Rorty (dir.) Philosophers on Education: Historical Perspectives, Londra e New York, Routledge, 1998.
- Ethics in the Conflicts of Modernity, op. cit.
- «Nietzsche O Aristotele ?», Intervista con Giovanna Borradori, Conversazioni Americane, Editori Laterza, 1991, tradotto in inglese in The American Philosopher: Conversations with Quine, Davidson, Putnam, Nozick, Danto, Rorty, Cavell, MacIntyre, and Kuhn, Chicago, University of Chicago Press, 1994.
- A Short History of Ethics, Londres, Macmillan, 1966.
- «Epistemological Crises, Dramatic Narrative, and the Philosophy of Science», The Monist 60 (1977).
- «MacIntyre on Money», Intervista con John Cornwell, Prospect, n°176, 20 octobre 2010.
- «On Not Knowing Where You Are Going», Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association 84:2 (2010).