Da oltre quarant’anni in Italia si parla di riforme istituzionali. Se nei primi decenni della vita repubblicana le proposte di revisione dell’organizzazione costituzionale erano state spesso esorcizzate come reazionarie; dalla fine degli anni Settanta la materia entrò a pieno nel dibattito pubblico e nel confronto tra le forze politiche. 

Questo si è negli anni sviluppato – volendo semplificare – attorno a due filoni. 

Il primo, direttamente o indirettamente ispirato al modello francese, nel segno dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica (dalle proposte socialiste apparse su Mondoperaio nel 1977 ai disegni di legge costituzionale presentati sin dalla VII legislatura dagli esponenti del Movimento Sociale, al testo approvato dalla Commissione Bicamerale della XIII legislatura presieduta da D’Alema).

Da oltre quarant’anni in Italia si parla di riforme istituzionali

Leo Giunti

L’altro volto a rafforzare il ruolo del Governo, e in particolare del suo vertice, della sua capacità di direzione potenziandone anche la rappresentatività e la responsabilità verso il Parlamento. In questa direzione si muovono, con diversità di accenti e di strumenti, le proposte elaborate dalle Commissioni Bicamerali nella IX e XI legislatura (Commissione Bozzi e De Mita-Iotti).  

Fare emergere da una sola consultazione elettorale maggioranza parlamentare e scelta del Presidente del Consiglio è poi l’ambizione, espressa o inespressa, di tutta la stagione del maggioritario a partire dal referendum del 1993.

Il susseguirsi delle leggi elettorali (Mattarellum, Porcellum e Rosatellum) dagli anni ‘90 ad oggi ha prodotto, nei fatti, in più occasioni questo risultato: i Governi Prodi, Berlusconi e Meloni con maggioranze (più o meno) stabili uscite dalle urne, in entrambe le Camere. Ma si è anche dato il caso che i sistemi elettorali – anche quando definiti in modo eguale per le due Camere (è il caso della legge vigente: il cosiddetto Rosatellum) – abbiano prodotto risultati diversi nelle due Camere, tali da rimettere alle dinamiche politiche e alla maieutica del Presidente della Repubblica l’individuazione del Presidente del Consiglio capace di ottenere la fiducia in entrambe le Camere.

Come far uscire dalla consultazione elettorale anche una chiara indicazione del primo ministro è stato uno dei principali obiettivi perseguiti da organici progetti di revisione della Seconda Parte della Costituzione approvati dal Parlamento nella XIV e nella XVII legislatura ma bocciati dai referendum del 2006 e del 2016.  

A differenza di queste riforme (promosse dai Governi Berlusconi e Renzi), la revisione costituzionale proposta dal Governo Meloni riscrive due soli articoli della Costituzione (il 92 e il 94; integralmente solo il primo dei due), cui si aggiungono due modifiche puntuali agli articoli 59 e 88.  Una riforma che il comunicato stampa di Palazzo Chigi del 3 novembre qualifica come «minimale», ma che opera invece un cambiamento radicale dell’organizzazione costituzionale.

L’indicazione del Presidente del Consiglio non è incorporata nella scelta da parte dell’elettore della maggioranza parlamentare – come auspicato da chi in vario modo ha proposto forme di razionalizzazione della forma di Governo parlamentare, per dare piena attuazione al famoso ordine del giorno Perassi – ma è la elezione a suffragio universale del Presidente del Consiglio (per un mandato di 5 anni) a condizionare la composizione delle due assemblee, attraverso la scelta della maggioranza parlamentare.

Con la riforma è l’elezione del Presidente del Consiglio a suffragio universale a condizionare la composizione delle due assemblee, attraverso la scelta della maggioranza parlamentare

Leo Giunti

Per garantire lo stretto collegamento tra scelta del premier e scelta della maggioranza, la proposta dispone che il sistema elettorale debba prevedere «un premio assegnato su base nazionale che garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri». Se la legge elettorale può mantenere discipline diverse per le due Camere (la revisione infatti non tocca gli articoli 56 e 57 della Costituzione) il sistema elettorale per entrambe deve, secondo la riforma, prevedere un unico premio, assegnato su base nazionale. 

Questo disegno di legge costituzionale mira a rendere omogenea la composizione delle due Camere. Dalla consultazione elettorale infatti dovrebbero uscire due omogenee maggioranze nelle due Camere (pari al 55 per cento dei seggi) composte di deputati e senatori «collegati al Presidente del Consiglio». Resta certo la fiducia iniziale, che il Governo deve otenere dalle due Camere, ma se dopo un secondo tentativo il Presidente eletto dai cittadini non ottiene la fiducia delle Camere si procede allo scioglimento automatico, di entrambe (di Camera e Senato, sempre). Il disegno di legge costituzionale elimina infatti la possibilità per il Presidente della Repubblica, prevista dall’articolo 88 della Costituzione, di sciogliere una sola Camera, una modifica apparentemente marginale ma in fondo coerente con l’omogeneizzazione delle due Camere. 

Se la proposta parrebbe ipotizzare distinte votazioni («le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente»), non ne chiarisce le modalità di svolgimento. Secondo quanto si legge nella relazione illustrativa, le votazioni dovrebbero «rendere evidente l’unitarietà del procedimento elettorale, anche ai fini del collegamento tra liste e candidati Presidenti». La proposta prevede poi che «il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura». Si potrebbe dare il caso che i candidati alla Presidenza del Consiglio si presentino in Camere diverse. Occorre quindi costruire un sistema che eviti l’ipotesi che in una Camera possano ottenere la maggioranza e conseguire il premio le liste collegate a un candidato Presidente (ad esempio deputato) e nell’altra quelle collegate ad un altro candidato Presidente (ad esempio senatore). Si realizzerebbe infatti quella paralisi di cui parlò già Benjamin Franklin del carro trainato da due cavalli, uno avanti e l’altro dietro, che tirano in direzione opposta. 

Questo disegno di legge costituzionale mira a rendere omogenea la composizione delle due Camere

Leo Giunti

La riforma richiede dunque un sistema che garantisca un esito coerente, che permetta la chiara individuazione del Presidente del Consiglio da eleggere. Ad esempio, attraverso schede separate per ciascuna delle tre votazioni, facendo discendere da quella per il Presidente del Consiglio l’assegnazione del premio «in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati» a lui collegati; altrimenti ipotizzare – nel caso di due schede (una per la Camera e l’altra per il Senato) – che entrambe prevedano al loro interno un apposito riquadro che permetta all’elettore di votare per il candidato Presidente. Certo, in quest’ultimo caso si dovrebbe procedere a una fase preliminare di scrutinio congiunto delle schede di Camera e Senato per poter individuare il Presidente del Consiglio eletto. Una soluzione complessa che andrebbe resa coerente con quanto previsto dall’articolo 66 della Costituzione che affida a ciascuna Camera (l’una indipendentemente dall’altra) il giudizio sui titoli d’ammissione dei propri componenti. Ed è proprio quest’autonomia di ciascuna Camera nel giudizio sui titoli a rendere ancor più difficile la possibilità di utilizzare un’unica scheda, nella quale votare, anche in modo disgiunto, Presidente del Consiglio, deputati e senatori; per l’elezione delle due Camere; ipotesi coerente con lo spirito della riforma e che, anche per superare questo problema, era stata disciplinata espressamente in una prima bozza di revisione costituzionale circolata. 

Molte altre e cruciali questioni, relative al funzionamento del sistema, sono rinviate alla legge elettorale.

V’è innanzitutto la questione della soglia che anche esponenti del Governo ritengono necessario introdurre. 

La proposta di revisione costituzionale non ne parla con riferimento alla legge elettorale per le due Camere. La proposta di revisione costituzionale addirittura non fa un espresso rinvio alla legge per definire le modalità di elezione del Presidente del Consiglio. Il primo periodo del secondo comma del nuovo art. 92 seccamente recita: «il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». A un turno? A due turni con soglia? Di una «legge elettorale per l’elezione del Presidente del Consiglio dei Ministri» parla l’analisi tecnico-normativa che accompagna il disegno di legge costituzionale; la norma transitoria più genericamente fa riferimento alla «disciplina per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere» alla cui adozione è condizionata l’applicazione della revisione costituzionale. Questa disciplina potrebbe dunque prevedere una soglia. Si può ricordare che in Francia è la Costituzione (art. 7) a prevedere espressamente il ballottaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica nel caso nessun candidato abbia conseguito «la maggioranza assoluta dei voti espresse». 

Quanto all’elezione delle Camere, la proposta di revisione parrebbe prefigurare che il premio scatti comunque, senza il raggiungimento di alcuna soglia. Questo del resto è quanto avviene per l’elezione dei Presidenti e dei Consigli di quasi tutte le Regioni a statuto ordinario. Che prevedono anzi soglie – variamente disciplinate – per attribuire premi superiori al 55%. Solo la Toscana prevede una soglia (pari al 40%) per l’assegnazione del premio e l’elezione del Presidente che avviene altrimenti con un secondo turno di ballottaggio. 

Ma il testo della proposta, rinviando alla legge la «disciplina del sistema elettorale delle Camere», dunque lasciando una discrezionalità al legislatore (seppur minore dell’attuale), pare non escludere sia l’introduzione di un sistema a doppio turno per l’elezione di deputati e senatori sia sistemi a turno unico che prevedano una soglia per l’assegnazione del premio. 

E forse è il caso di ricordare quel che scrisse Einaudi a De Gasperi nell’agosto del 1952. «Pare difficile che una qualsiasi cifra inferiore al 50% più uno abbia carattere razionale e non offenda i diritti delle minoranze». Secondo Einaudi «il sistema del premio nazionale al gruppo che ha ottenuto il maggior numero relativo di voti validi fa correre un gravissimo rischio. Si gioca il diritto di governare il paese su un banco d’azzardo». La legge elettorale approvata nel 1953 prevedeva infatti che il premio scattasse, e per le elezioni della sola Camera, in favore della coalizione dei partiti che avesse ottenuto il 50% più uno dei voti validi. 

La proposta di revisione costituzionale impone che dalle elezioni esca un Presidente del Consiglio. Se si ritenesse possibile che il Presidente, come per le Regioni, possa essere eletto a un turno da una maggioranza relativa; non si potrebbe tuttavia escludere che una soglia per l’attribuzione del premio possa essere comunque prevista dalla legge elettorale delle due Camere. La stessa revisione costituzionale prevede che il sistema elettorale debba dalla legge essere disciplinato «secondo i principi di rappresentatività e governabilità»; il premio dunque non parrebbe necessariamente esser funzionale a fare di una minoranza la maggioranza, ma piuttosto diretto a garantire governabilità. 

La proposta di revisione costituzionale impone che dalle elezioni esca un Presidente del Consiglio

Leo Giunti

Si potrebbe dunque dare il caso, in questa ipotesi, di un Presidente eletto privo di una chiara maggioranza parlamentare, perché il premio non è scattato. Il Presidente del Consiglio eletto dovrebbe essere incaricato e chiedere la fiducia (per la quale non serve la maggioranza assoluta: la Costituzione non esclude infatti governi di minoranza), forte comunque della previsione che fa discendere dal fallimento del secondo tentativo l’automatico scioglimento delle Camere. Con una simile disciplina la Camera avrebbe negato la fiducia nel ‘53 al monocolore De Gasperi? Lo stesso De Gasperi (e solo lui) avrebbe dovuto comunque fare un secondo tentativo (magari guidando questa volta un governo di coalizione), fallito il quale non vi sarebbe stata alternativa allo scioglimento di entrambe le Camere. 

V’è poi la questione del coordinamento con la previsione, che non viene toccata, secondo la quale il Senato è eletto su base regionale. Una scelta del costituente declinata in maniera particolarmente stringente (anche perché condizionata da impegni internazionali) ad esempio dalla normativa sulla elezione dei parlamentari del Trentino-Alto Adige. Non pare semplice rendere compatibili le esigenze di quella particolare autonomia costituzionale con la nuova scelta di collegare all’elezione del Presidente del Consiglio la formazione della maggioranza parlamentare.

Per certi versi più complessa è la questione posta dalla disciplina del voto degli italiani residenti all’estero. L’articolo 48 rinvia alla legge le modalità per assicurarne «l’effettività» (che si svolge solo per questi cittadini utilizzando lo strumento del voto per corrispondenza). Ma istituisce anche una circoscrizione apposita alla quale sono assegnati un numero di deputati (8) e senatori (4) fissato in Costituzione. Un numero fisso, dunque, non proporzionale alla popolazione; mentre il numero dei seggi degli eletti in Italia è distribuito tra circoscrizioni e Regioni in proporzione alla popolazione (salvo il numero minimo di senatori assegnati a ciascuna Regione o Provincia autonoma). Questa disciplina non viene toccata dalla riforma che attribuisce a ciascun cittadino, anche residente all’estero, il diritto di concorrere pienamente all’elezione del Presidente del Consiglio. Elezione per la quale dunque i residenti all’estero potrebbero essere determinanti (un’ipotesi questa del resto che si produsse per l’assegnazione del premio alla Camera nelle elezioni politiche del 2006). 

Tornando al ruolo delle Camere, questo pare invece riespandersi con la disciplina della sfiducia. 

La revisione costituzionale infatti non tocca il quarto e il quinto comma del vigente articolo 94. Aggiunge però alla fine una originale previsione secondo la quale: «in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia». E aggiunge: «qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».

Se il Presidente del Consiglio eletto si dimettesse per ragioni personali, politiche, perché colpito dalla mozione di sfiducia o dal rigetto di una questione di fiducia, non si avrebbe (come invece nel caso della mancata fiducia iniziale) un automatico scioglimento delle Camere. La disciplina costituzionale non viene toccata. Nemmeno si prevede di attribuire formalmente un potere di proposta al Presidente del Consiglio. Si può ricordare invece come la riforma costituzionale approvata dal Parlamento nel 2006, ma bocciata dal referendum, prevedeva lo scioglimento delle Camere «su richiesta del Primo ministro, che ne assume la esclusiva responsabilità», nel caso di sue dimissioni, morte o impedimento permanente. 

 La riforma presentata dal Governo Meloni mantiene la disciplina attuale, con tutta la sua complessità che vede la dottrina divisa tra chi interpreta lo scioglimento come un potere esclusivamente attribuito al Presidente della Repubblica (sentiti i presidenti delle camere) e chi invece come un atto duumvirale, nel quale vi deve essere la convergente volontà del Presidente della Repubblica e del Governo in carica.

La disciplina costituzionale non viene toccata. Nemmeno si prevede di attribuire formalmente un potere di proposta al Presidente del Consiglio

Leo Giunti

Di fronte alle dimissioni del Presidente del Consiglio eletto, c’è poi da chiedersi in quale misura il Presidente della Repubblica recuperi il suo potere discrezionale di conferire l’incarico di formare il Governo. La sua scelta è limitata. In primo luogo deve cadere sul Presidente dimissionario o «su un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto»; non vi potranno più essere governi guidati da non parlamentari o da senatori a vita (un istituto peraltro che il disegno di legge sopprime). In secondo luogo, è da definire e valutare portata normativa ed effettiva cogenza della previsione secondo la quale il nuovo Presidente del Consiglio è incaricato «per attuare l’indirizzo politico e gli impegni programmatici» del precedente Governo (guidato dal «Presidente eletto a suffragio universale e diretto», che potrebbe non solo nel dibattito pubblico e parlamentare chiedere un giudizio sull’effettiva osservanza di questa disposizione). 

Il Presidente del Consiglio dovrà sempre essere un deputato o un senatore eletto, tra le fila della maggioranza che ha vinto le elezioni.

Alla durata del governo guidato dal «secondo» Presidente del Consiglio (che potrebbe essere anche lo stesso Presidente eletto incaricato di formare un governo bis) è legata la vita della legislatura e la sua fine anticipata. Lo scioglimento è un atto dovuto se il Presidente non ottenesse la fiducia e in ogni caso di «cessazione dalla carica»; una espressione questa che dovrà esser interpretata. Si può ritenere vi sia «cessazione» nella ipotesi di dimissioni del Presidente, a valle di una crisi extraparlamentare, seguite da un rinvio alle Camere che porti, ad esempio, anche a una diversa composizione politica della maggioranza?

Sono queste solo alcune delle questioni che un testo, nient’affatto «minimale», pone all’interprete e al legislatore, che questa riforma dovrà esaminare, ma anche, attuare sciogliendo nodi complessi. La norma transitoria prevede che questa revisione costituzionale si applichi dopo il «primo scioglimento delle Camere successivo alla data di entrata in vigore della disciplina del Presidente del Consiglio dei Ministri e delle Camere». Se la nuova legge elettorale non fosse approvata, la riforma costituzionale non entrerebbe in vigore; se si arrivasse alla fine naturale della legislatura si potrebbe dare il caso di dover continuare ad applicare la disciplina costituzionale vigente. Non si può escludere poi che la nuova legge elettorale, se approvata, possa essere oggetto anche di un giudizio della Corte costituzionale, prima ancora della sua applicazione (come avvenne per l’Italicum; la legge elettorale promossa dal Governo Renzi che avrebbe dovuto accompagnare la riforma costituzionale del 2016). Così potrebbe essere la Corte a dover sciogliere quei nodi che la revisione costituzionale ha rinviato alla legge elettorale.