In Guerra e pace, Tolstoj si chiede cosa muova la storia. È il prodotto delle decisioni di pochi individui in posizioni di potere o di un movimento irresistibile che travolge tutto ciò che trova nel suo passaggio? Nel corso del romanzo, Tolstoj sviluppa una visione fatalista del destino dell’umanità, in cui il libero arbitrio ha poco spazio e i protagonisti non sono che giocattoli di dinamiche modellate da un ineluttabile determinismo. Ancora oggi, i dibattiti accademici continuano a concentrarsi sulla stessa domanda, tra coloro che privilegiano un approccio individualista ai fenomeni sociali, politici e storici e coloro che preferiscono invece una lettura basata sulle grandi strutture.
La decisione di Vladimir Putin di invadere l’Ucraina ha cambiato il destino dell’Unione europea, sia che questa risulti dal gesto di un singolo uomo o da una logica radicata e di lungo periodo. Solo 18 mesi fa, la prospettiva dell’allargamento e delle riforme sembrava remota, una questione capace di interessare solo una manciata di leader politici. Oggi questi temi sono al vertice dell’agenda europea e la Presidenza spagnola del Consiglio dell’Unione europea ha intenzione di far progredire la discussione al vertice informale di Granada del 6 ottobre. Sebbene i leader nazionali mostrino diversi gradi di entusiasmo alla prospettiva di accogliere nuovi Stati membri e abbiano opinioni contrastanti sulla necessità o sui mezzi per riformare l’Unione, la discussione è ora aperta.
[Per approfondire: il rapporto del «Gruppo dei Dodici» è disponibile in francese e in inglese]
Un contesto geopolitico stravolto
Con la guerra di aggressione della Russia in Ucraina, in Europa si ripropongono questioni fondamentali: l’Unione sta ripensando la sua geografia, le sue istituzioni, le sue competenze e il suo finanziamento. L’aumento delle tensioni regionali e transregionali e l’indebolimento delle strutture dell’ordine internazionale hanno infranto le certezze su cui era stata concepita l’integrazione europea. Il dibattito sulla capacità di azione dell’UE e sulla sua sovranità si è intensificato. L’Ucraina e la Moldavia si sono recentemente aggiunte al gruppo di Paesi candidati all’adesione all’Unione (Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Turchia – le ultime due con negoziati sospesi), a cui potrebbero aggiungersi Georgia e Kosovo.
Tuttavia, l’UE non è pronta ad accogliere nuovi membri. Le sue istituzioni e i suoi meccanismi decisionali non sono stati concepiti per un numero così elevato di Paesi. Inoltre, alcuni Stati membri mettono apertamente in discussione lo Stato di diritto, il primato del diritto europeo e i valori comuni sanciti dai Trattati e un contagio non è da escludere. In questo contesto, il 23 gennaio 2023 il governo francese e quello tedesco hanno nominato 12 esperti indipendenti 1 per formare un gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali dell’UE. Il nostro mandato era quello di esaminare le modalità per mantenere la capacità d’azione dell’Unione, proteggere i suoi valori fondamentali, rafforzare la sua resilienza e renderla più vicina ai cittadini, nella prospettiva di un allargamento e nel solco della Conferenza sul futuro dell’Europa.
Si sta per aprire un confronto decisivo e Il Grand Continent vi partecipa attivamente, invitandovi a seguirlo. Il 4 ottobre, a margine del Summit della Comunità politica europea, organizziamo infatti un evento eccezionale all’Università di Granada, nel Palazzo della Madraza: riuniremo Olga Stefanishyna, Vice primo ministro dell’Ucraina con delega all’allargamento, gli scrittori Anna Bosch, Javier Cercas e Lea Ypi e il ministro spagnolo degli Esteri José Manuel Albares
Nel corso di sette mesi, il «Gruppo dei Dodici» – come ci chiamiamo – ha lavorato a un rapporto. Consegnato a metà settembre 2023 ai Segretari di Stato francese e tedesco per gli Affari europei, Laurence Boone e Anna Lührmann, è stato presentato dagli autori di questo articolo al Consiglio Affari generali del 19 settembre e ampiamente diffuso in tutta Europa. Questo lavoro, svolto in totale indipendenza, è stato arricchito da scambi a porte chiuse con numerosi esperti, professionisti e leader politici di tutti i Paesi dell’Unione e dei Paesi candidati.
L’obiettivo primario del Gruppo non era quello di essere originale: la maggior parte delle domande che hanno guidato il nostro lavoro sono vecchie e molte delle soluzioni che abbiamo proposto sono già state discusse altrove. La nostra ambizione, tuttavia, era quella di riconsiderare tali questioni e soluzioni alla luce della nuova situazione creatasi con l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Il nostro rapporto ha cercato di trovare un equilibrio tra lo scetticismo degli editorialisti – pronti a sottolineare le divisioni nazionali e istituzionali e ad affermare l’impossibilità di un accordo – e l’utopismo di alcuni federalisti –promotori di idee che non possono essere realisticamente prese in considerazione dagli organi competenti. La nostra riflessione, che vuole essere concreta nel breve e medio periodo, nasce dall’idea che sia assolutamente urgente dare il via al processo di allargamento e di riforma dell’Unione.
La situazione politica attuale è complessa e il compito non sarà facile. Bisogna tuttavia ricordare che, dall’inizio degli anni Novanta, l’integrazione europea ha compiuto dei progressi attraverso quattro grandi riforme dei trattati (Maastricht, Amsterdam, Nizza e Lisbona) e quattro ondate di adesione, per un totale di 15 nuovi Stati membri. Questi sviluppi non sono stati facili, ma sono stati resi possibili da accordi globali che hanno conciliato i diversi interessi politici e nazionali coinvolti. Oggi la situazione è senza dubbio più delicata ancora, ma riteniamo che un accordo sia ancora possibile. Ciò richiede un processo di riforma e di allargamento flessibile, in modo che nessuno Stato sia costretto ad appartenere a un’Unione che non gli è vantaggiosa, o ha smesso di esserlo, e che gli Stati più disposti a cooperare non si trovino bloccati dalla riluttanza degli altri.
I principi della riforma dell’UE
Durante le numerose crisi degli anni 2000, l’UE ha dimostrato che il suo quadro giuridico e istituzionale consente di prendere le decisioni necessarie per salvaguardare gli interessi dei cittadini europei e degli Stati membri. Il rapporto del Gruppo dei Dodici non si propone quindi di ripensare in extenso l’integrazione europea, ma piuttosto di proporre adeguamenti della struttura esistente in linea con le nuove realtà, sia in termini di approfondimento che di flessibilità. Si basa inoltre sul principio che le riforme istituzionali devono essere coerenti con ciò che l’Unione è oggi. Se dei chiarimenti sarebbero benvenuti, bisogna oggi prendere atto della natura «ibrida» di questo sistema politico. Esso si basa sul ruolo centrale della Commissione europea e sul «metodo comunitario» (per la gestione delle politiche più integrate), temperato da una logica intergovernativa da un lato (per le decisioni fondamentali e la conduzione delle politiche più sensibili), e da una logica parlamentare dall’altro (per i dibattiti sociali e i grandi orientamenti politici). Questo equilibrio è alla base dell’efficacia dell’Unione e della sua capacità di creare consenso e non deve essere messo in discussione.
Riteniamo che l’UE debba raggiungere tre obiettivi. In primo luogo, rafforzare la sua capacità di prendere e attuare decisioni nelle sue aree di competenza. In secondo luogo, aumentare la sua legittimità democratica e proteggere meglio lo Stato di diritto e i valori fondamentali. Infine, preparare le sue istituzioni all’allargamento. Pensiamo che questi tre obiettivi debbano essere perseguiti contemporaneamente e che solo un approccio coordinato possa soddisfare le varie parti di questa negoziazione. Il rapporto del Gruppo dei Dodici contiene una cinquantina di raccomandazioni su un’ampia gamma di temi: Stato di diritto, riforma istituzionale, processo decisionale, risorse di bilancio, modalità di riforma dei Trattati, gestione dell’allargamento… Ci concentreremo qui su tre aspetti fondamentali: la protezione dello Stato di diritto, il superamento dell’unanimità e la formalizzazione dell’integrazione a più velocità.
Proteggere lo Stato di diritto, un prerequisito per qualsiasi allargamento
Lo Stato di diritto non è solo uno dei valori fondamentali dell’UE. È un principio costituzionale non negoziabile, essenziale per il suo funzionamento, per diverse ragioni: la maggior parte delle politiche europee si basa sul principio dell’indipendenza dei tribunali nazionali; l’utilizzo dei fondi europei presuppone che le amministrazioni nazionali non siano corrotte; il rispetto dello Stato di diritto è una conditio sine qua non per il corretto funzionamento democratico dell’UE. L’integrazione europea può essere principalmente economica, ma è un progetto fondamentalmente politico basato soprattutto sullo Stato di diritto. L’applicazione dei principi dello Stato di diritto è quindi un requisito per gli Stati membri dell’UE e una condizione non negoziabile per i Paesi che desiderano aderire.
Gli strumenti esistenti non hanno tuttavia impedito un arretramento dello Stato di diritto in diversi Stati membri. L’articolo 7 del TUE, che consente di sospendere alcuni diritti derivanti dall’applicazione dei trattati in caso di violazione grave e persistente dei valori dell’Unione da parte di uno Stato membro, è stato redatto in un momento in cui era impensabile che venisse applicato. Usarlo è infatti molto difficile. Gli altri strumenti a disposizione dell’UE, come il meccanismo di protezione dello Stato di diritto della Commissione europea, hanno avuto scarsi effetti pratici. Infine, i Trattati non prevedono la possibilità di escludere uno Stato membro, e quindi di esercitare pressioni in questo modo.
Negli ultimi anni, l’uso della condizionalità di bilancio si è dimostrato più efficace. Inoltre, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha permesso agli Stati membri di proteggersi dalle violazioni di cui sono colpevoli gli altri Stati membri. Bisogna però riconoscere che, una volta che un Paese è diventato membro dell’UE, non è più possibile imporgli di rispettare i criteri applicati ai Paesi candidati. Questo pone un problema di credibilità sia nei confronti degli Stati membri che dei Paesi candidati, ed erode la capacità dell’Unione di presentarsi ai suoi cittadini e al resto del mondo come un campione del rispetto dei diritti. La situazione geopolitica può giustificare un rapido allargamento, ma l’UE deve riuscire a far rispettare lo Stato di diritto ai suoi membri attuali e futuri.
Per raggiungere questo obiettivo, il primo passo è rafforzare il regolamento per un sistema generale di condizionalità di bilancio, rendendolo uno strumento per sanzionare le violazioni dello Stato di diritto e dei valori europei. Eliminare la necessità di dimostrare un legame diretto con la somma stanziata ne moltiplicherebbe l’impatto. Se questa riforma non fosse possibile, per mancanza di unanimità, il campo di applicazione della condizionalità di bilancio dovrebbe almeno essere esteso ad altri comportamenti dannosi per la sana gestione finanziaria del bilancio europeo, come il riciclaggio di denaro. Raccomandiamo inoltre che tutti i fondi dell’UE, che rientrino o meno nel quadro finanziario pluriennale, siano d’ora in poi soggetti al regime di condizionalità.
In secondo luogo, l’articolo 7 del TUE deve essere riformato. La sua inefficacia è dovuta alla soglia inutilmente alta richiesta per applicarlo (unanimità meno un voto) e al fatto che il Consiglio non è obbligato a deliberare, anche se la procedura è avviata dal Parlamento europeo o dalla Commissione. Riteniamo necessario sostituire il voto all’unanimità meno uno con un voto a maggioranza dei quattro quinti. Dovrebbe essere rafforzato anche il principio della risposta automatica in caso di violazione grave e persistente, o di rischio di violazione, dei valori dell’UE da parte di uno Stato membro: il Consiglio dell’UE e il Consiglio europeo dovrebbero essere tenuti a prendere posizione entro sei mesi. Infine, l’articolo 7 del TUE dovrebbe prevedere sanzioni automatiche cinque anni dopo la proposta di attivazione della procedura se le violazioni persistono e il Consiglio non agisce.
Superare la regola dell’unanimità
La Commissione e il Parlamento europeo sono governati da un sistema maggioritario che facilita il processo decisionale, ma il Consiglio rimane in una situazione ibrida. Anche se di solito vota a maggioranza qualificata, in particolare quando il Parlamento europeo è coinvolto nel processo legislativo, richiede comunque l’unanimità in settori ritenuti sensibili: l’allargamento, lo Stato di diritto, la politica estera e di difesa, la politica di bilancio e fiscale, ecc. Con ogni nuovo allargamento, l’unanimità diventa più difficile da raggiungere. Tuttavia, il ricorso alla maggioranza qualificata ha dimostrato la sua efficacia, non perché gli Stati membri siano costantemente in minoranza, ma perché questo metodo decisionale crea una dinamica negoziale favorevole al raggiungimento di compromessi. Oltre l’80% delle decisioni prese dal Consiglio a maggioranza qualificata sono prese per consenso, senza voto e quindi senza un perdente.
Il Gruppo dei Dodici raccomanda che tutte le aree decisionali ancora soggette all’unanimità passino al voto a maggioranza qualificata prima del prossimo allargamento. Inoltre, ad eccezione della Politica estera e di sicurezza comune, questo processo dovrebbe essere accompagnato da una piena codecisione con il Parlamento europeo. Solo le decisioni di natura costituzionale – come la modifica dei Trattati, l’accettazione di nuovi membri o l’adeguamento delle istituzioni dell’UE – dovrebbero continuare a richiedere l’unanimità. L’estensione del voto a maggioranza qualificata potrebbe essere subordinata all’attivazione delle clausole passerella previste dai Trattati. Se non è possibile una transizione completa, raccomandiamo di creare tre «pacchetti» separati, che coprano diverse serie di politiche (allargamento e Stato di diritto; politica estera e difesa; politica di bilancio e fiscale), al fine di trovare un equilibrio tra le concessioni che i diversi Stati membri sono disposti a fare.
Tuttavia, il passaggio a maggioranza qualificata è uno strumento che dovrebbe essere usato con parsimonia, in particolare per la Politica estera e di sicurezza comune. Occorre anche considerare il desiderio degli Stati membri di salvaguardare alcuni interessi nazionali ritenuti cruciali. Ad esempio, se il voto a maggioranza qualificata viene esteso a nuove aree di intervento, si dovrebbe introdurre una «rete di sicurezza della sovranità». Ciò consentirebbe a uno Stato membro di dichiarare ufficialmente di ritenere a rischio i propri interessi nazionali e di chiedere il rinvio della questione al Consiglio europeo per un accordo politico. La decisione di rinvio verrebbe presa a maggioranza qualificata dal Consiglio. In questo modo si raggiungerebbe un equilibrio tra la possibilità per uno Stato di far valere i propri interessi nazionali vitali e la necessità di aumentare la capacità d’azione dell’UE.
Sebbene la riforma faccia parte di una più ampia modifica dei Trattati, anche la distribuzione dei diritti di voto a maggioranza qualificata deve essere rivista. Gli Stati membri di piccole e medie dimensioni temono di essere dominati da quelli più grandi, che sono in grado di organizzare meglio le minoranze di blocco. L’attuale sistema del 55% degli Stati membri che rappresentano il 65% della popolazione dell’UE potrebbe, ad esempio, essere modificato nel 60% degli Stati membri che rappresentano il 60% della popolazione. Per le decisioni sulle questioni più vitali per la sovranità, si potrebbe introdurre una «super-maggioranza», come l’unanimità meno un voto. Solo le decisioni di natura costituzionale rimarrebbero disciplinate dall’attuale regola dell’unanimità.
Infine, gli Stati membri dovrebbero poter beneficiare di un’esenzione nei settori recentemente soggetti al voto a maggioranza qualificata. Ciò sarebbe possibile solo attraverso una revisione del Trattato e non utilizzando la clausola passerella. Inoltre, queste nuove esenzioni dovrebbero riguardare un’intera politica e non singole misure.
Istituzionalizzare e organizzare l’integrazione differenziata
In un’UE con più di 30 Stati membri, gli strumenti che consentono un certo grado di flessibilità saranno essenziali per mantenere e aumentare la capacità d’azione. L’integrazione differenziata è già una realtà che va formalizzata e chiarita per evitare una «Europa à la carte» fatta di un ammasso di esenzioni ad hoc, situazioni specifiche e iniziative isolate. D’altra parte, la differenziazione non può essere utilizzata per risolvere le divergenze sul primato del diritto comunitario o sulle questioni relative allo Stato di diritto: qualsiasi Paese che voglia diventare membro dell’UE deve rispettare i principi e i valori sanciti dall’articolo 2 del TUE.
L’integrazione differenziata presenta due dimensioni, una interna e una esterna. Sul piano interno, una serie di strumenti consente già agli Stati membri che ne hanno la volontà di realizzare progetti comuni, nel rispetto dei principi e dei valori fondamentali dell’UE, dell’acquis comunitario e delle istituzioni. All’esterno, la differenziazione ha permesso ai Paesi terzi di partecipare a varie politiche – ricerca, istruzione, libera circolazione delle persone, euro, mercato interno, ecc.
Per quanto riguarda la differenziazione interna, gli Stati membri dovrebbero poter utilizzare più facilmente gli strumenti di flessibilità esistenti per superare i blocchi che un ulteriore allargamento dell’Unione necessariamente comporterà. Tuttavia, ciò richiederebbe il rispetto di cinque principi: il rispetto dell’acquis comunitario e dell’integrità delle politiche e delle azioni dell’UE; l’uso delle istituzioni europee; l’apertura a tutti gli Stati membri di aspetti avanzati dell’integrazione europea; la condivisione dei poteri decisionali, dei costi e dei benefici solo tra i Paesi coinvolti; la possibilità di sospendere uno Stato membro da un gruppo avanzato se non è più d’accordo con i suoi obiettivi.
La differenziazione esterna potrebbe essere una risorsa nella strategia di allargamento e nella politica di vicinato dell’UE se alcuni Stati membri bloccano la riforma dei trattati. Potrebbero allora negoziare nuove disposizioni di deroga o addirittura preferire uno status meno avanzato in termini di integrazione europea. In questo caso, sarebbe possibile prevedere uno speciale status di associazione con l’UE, o anche la semplice partecipazione alla Comunità politica europea (CPE).
La riforma dei Trattati richiederà probabilmente anche una differenziazione: agli Stati che non cooperano o agli Stati che non desiderano partecipare a un nuovo Trattato potrebbero essere offerte alcune deroghe. Tuttavia, queste dovrebbero essere offerte solo quando la revisione rafforza l’integrazione, creando nuove competenze o estendendo il voto a maggioranza qualificata. E, ancora una volta, non si tratta di creare deroghe all’acquis comunitario esistente o ai valori fondamentali dell’UE in questo modo.
In breve, prevediamo che non tutti gli Stati europei saranno disposti o in grado di aderire all’UE nel prossimo futuro e che alcuni Stati membri attuali potrebbero preferire forme di integrazione meno avanzate. Raccomandiamo quindi di considerare il futuro dell’integrazione europea in quattro cerchi concentrici, ciascuno con un proprio equilibrio di diritti e doveri:
- Il cerchio interno: gli accordi già esistenti tra Stati cooperativi (Schengen, Euro, cooperazione rafforzata, cooperazione strutturata permanente in campo militare, ecc.) potrebbero essere estesi a più settori (clima, energia, fiscalità, ecc.) e dotati di un proprio bilancio.
- L’Unione Europea: questo dovrebbe essere il cerchio di riferimento. Tutti gli Stati membri sono vincolati dagli stessi obiettivi politici, devono rispettare le disposizioni dell’articolo 2 del TUE e beneficiare dei fondi di coesione e delle politiche di ridistribuzione.
- Membri associati: un primo cerchio al di fuori dell’Unione permetterebbe di razionalizzare le varie forme di associazione esistenti con i Paesi dello Spazio economico europeo, la Svizzera, alcuni micro-Stati e persino il Regno Unito. I membri associati non sarebbero vincolati dal principio di «unione sempre più stretta» e sarebbero integrati principalmente nel mercato interno. Dovrebbero comunque rispettare i principi e i valori comuni dell’UE e la giurisdizione della CGUE. Non sarebbero rappresentati né nel Parlamento né nella Commissione, ma avrebbero voce in capitolo nel Consiglio.
- La CPE: un secondo cerchio esterno non comporterebbe alcuna forma di integrazione e non offrirebbe accesso al mercato unico. Si concentrerebbe sulla convergenza geopolitica e sulla cooperazione politica in settori quali l’energia e l’ambiente. Le basi istituzionali della CPE, create di recente, potrebbero essere migliorate per garantire una cooperazione più strutturata.
Sebbene accessibili a qualsiasi Paese europeo, compresi i candidati all’adesione, i due cerchi esterni sarebbero distinti dalla procedura di adesione. Gli Stati potrebbero aderire volontariamente a uno di questi cerchi perché si stanno ritirando dall’UE, non intendono aderirvi o desiderano stabilire legami con essa in attesa di diventare membri.
L’urgenza di un’azione per preparare la prossima ondata di allargamento
Quando si parla di allargamento, approfondimento o riforma istituzionale, l’integrazione europea non è un processo autonomo, che dipende dall’azione di istituzioni sovranazionali o gode di una dinamica irresistibile. Tutte queste decisioni richiedono negoziati complessi e sono soggette alla regola dell’unanimità degli Stati membri. Anche quando esiste un consenso sulla vocazione dell’Unione ad allargarsi o a riformare i suoi trattati, questo processo richiede la mobilitazione di potenti imprenditori politici, capaci di avanzare proposte e convincere i cittadini, per generare lo slancio necessario al cambiamento.
Il rapporto del Gruppo dei Dodici è un contributo, tra i molti, al dibattito sulle modalità concrete del processo di allargamento e di riforma dell’UE che si sta avviando. Non propone un progetto coerente, ma piuttosto alcune piste di riflessione e un metodo. Siamo tuttavia convinti che i rappresentanti dei 27 Stati membri debbano agire senza ulteriori indugi se vogliono essere all’altezza delle sfide che l’Unione deve affrontare oggi. L’UE deve dotarsi dei mezzi per accogliere un primo gruppo di Paesi candidati già nel 2030. Se da un lato è importante che l’adesione sia basata sul merito dei candidati e sul rigoroso rispetto dei criteri di Copenaghen, dall’altro l’UE deve dotarsi dei mezzi per essere pronta entro tale data, al fine di incoraggiare i Paesi candidati a esserlo a loro volta. A tal fine, alcune riforme possono essere avviate già da domani ed entrare in vigore prima delle elezioni europee del giugno 2024. Le altre, in particolare quelle che richiedono modifiche ai Trattati, dovranno essere intraprese durante il prossimo ciclo istituzionale (2024-2029). Una nuova serie di riforme e iniziative sarà senza dubbio necessaria dopo il primo allargamento.
Il Trattato di Lisbona è stato concepito per resistere agli allargamenti, ma senza riforme l’UE non sarà all’altezza della sfida. Se non riuscirà a trasformarsi e ad allargarsi, l’intero continente europeo correrà gravi pericoli. In assenza di un leader europeo in grado di prendere unilateralmente in mano il destino dell’Europa, come ha fatto Vladimir Putin lo scorso anno, dobbiamo mobilitare i leader dell’UE, degli Stati membri e dei Paesi candidati e sollecitare l’opinione pubblica e le forze politiche e sociali, nonché la società civile, con l’obiettivo di dar vita a un movimento capace di realizzare questi cambiamenti.
Note
- Il «Gruppo dei dodici» è composto da: Pervenche Berès, membro del Consiglio di amministrazione della Fondation Jean Jaurès, Parigi; Olivier Costa (relatore), direttore di ricerca presso il CNRS, Centre de recherches politiques de Sciences Po Paris (CEVIPOF), e direttore del Dipartimento di studi politici europei e di governance, Collège d’Europe, Bruges; Gilles Gressani, presidente del Groupe d’études géopolitiques, direttore della rivista Le Grand Continent, Parigi; Gaëlle Marti, docente di diritto pubblico all’Università Lyon 3, direttrice del Centre d’études européennes, Chaire Jean Monnet; Franz Mayer, docente di diritto pubblico, diritto europeo, diritto pubblico internazionale, diritto comparato e politica giuridica, Università di Bielefeld; Thu Nguyen, senior researcher per le istituzioni europee e la democrazia, Jacques Delors Centre, Hertie School, Berlino; Nicolai von Ondarza, direttore di ricerca UE/Europa, Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza (SWP), Berlino; Sophia Russack, ricercatrice, Centro per gli studi di politica europea (CEPS), Bruxelles; Daniela Schwarzer (relatrice), membro del Consiglio di amministrazione della Fondazione Bertelsmann, Berlino, e professore onorario della Libera Università di Berlino; Funda Tekin, direttore dell’Istituto per la politica europea (IEP) e professore emerito dell’Università di Tubinga; Shahin Vallée, ricercatore del Centro per la geopolitica, la geoeconomia e la tecnologia della Società tedesca di politica estera (DGAP), Berlino; Christine Verger, vicepresidente dell’Istituto Jacques Delors, Parigi. Il loro lavoro è volontario.