Paralisi, uscita o integrazione: Mario Draghi e l’Europa del futuro
L’incomparabile vantaggio di essere uno statista senza uno Stato da gestire è che si può dire la verità più liberamente a chi deve governare. Ragionando sugli insegnamenti che ci consegna la storia dell’euro, Mario Draghi si schiera a favore di una nuova Unione che dovrà realizzare una «transizione geopolitica» ispirata e imposta dalle nuove sfide.
Traduciamo e commentiamo questo discorso chiave e programmatico
- Autore
- Shahin Vallée •
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- © AGF/SIPA
Mario Draghi è rimasto molto silenzioso da quando ha lasciato il suo incarico, pronunciando solo qualche discorso politico di rilievo. Il suo discorso al National Bureau of Economic Research (NBER) è un coraggioso invito all’azione per i leader europei, basato su un’analisi sobria e cupa dell’attuale situazione dell’Europa. Egli sostiene con forza la necessità di un nuovo patto fiscale che fornisca all’Unione maggiori risorse, riformi le sue regole di bilancio e le dia i mezzi per espandersi verso la periferia, approfondendo al contempo l’integrazione del nucleo centrale.
Signore e signori,
È un grande onore tenere la conferenza Martin Feldstein di quest’anno. Sono molto grato a Jim Poterba e all’NBER per l’invito. L’NBER è una pietra miliare del pensiero economico mondiale. Avete guidato il lavoro dei politici e contribuito a rendere il mondo un posto migliore. Personalmente vi sono molto grato per la ricerca che avete prodotto durante il mio periodo di lavoro al governo e nelle banche centrali. Vorrei anche rendere omaggio al compianto Marty Feldstein. È stata una figura di spicco per tutta la mia carriera – ed è stato proprio grazie a un suo invito che ho partecipato al primo Summer Institute nel 1978. Il suo lavoro sulla politica fiscale, l’economia pubblica e il comportamento del risparmio ha trasformato il modo in cui pensiamo intere aree di ricerca. La ricerca di Marty ha sempre unito idee brillanti, solide prove empiriche e importanza delle politiche. In qualità di presidente del Consiglio dei consulenti economici del presidente Ronald Reagan, ha guidato un cambiamento di paradigma nel rapporto tra governi e mercati, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. E ha fatto tutto questo continuando a occuparsi di studenti universitari e laureati, facendo da mentore a molte generazioni di economisti. La mia conferenza di oggi si concentrerà su un argomento che stava molto a cuore a Marty: la creazione dell’Unione Monetaria Europea e il suo futuro, su cui Marty era estremamente scettico.
È un po’ ironico che in un momento di vigorosa critica dell’ordine neoliberale e di celebrazione di profondi cambiamenti nel consenso economico negli Stati Uniti e in Europa, Mario Draghi ricordi a tutti noi le sue profonde radici nel consenso neoliberale sviluppatosi negli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta.
La sfida macroeconomica fondamentale della formazione di un’unione monetaria fu delineata da Robert Mundell nel 1961 e si incentrava sulla gestione degli shock asimmetrici. Poiché la politica monetaria e la politica dei tassi di cambio erano all’epoca destinate alla gestione degli shock comuni, sarebbero stati necessari altri meccanismi di aggiustamento per affrontare gli shock asimmetrici ed evitare che innescassero crolli regionali prolungati. Mundell identificò tali meccanismi di aggiustamento nei trasferimenti fiscali e la mobilità del lavoro e del capitale, che potevano stabilizzare la domanda ex post nelle regioni depresse. Nella letteratura successiva è stato riconosciuto anche il ruolo cruciale della condivisione del rischio attraverso l’integrazione dei mercati dei capitali, che limiterebbe ex ante l’entità degli shock locali. La moneta unica, tuttavia, è andata avanti con poche di queste condizioni. I trasferimenti fiscali tra gli Stati membri sotto forma di assunzione di debiti reciproci sono stati vietati dal trattato di Maastricht – riflettendo una filosofia secondo cui i Paesi dovrebbero “tenere in ordine la propria casa” e non fare affidamento sulla generosità degli altri L’aggiustamento regionale attraverso la mobilità della manodopera era poco sviluppato: gli studi dell’epoca hanno rilevato che la maggior parte degli shock occupazionali veniva assorbita attraverso variazioni del tasso di partecipazione piuttosto che attraverso la migrazione. E non c’era alcun serio tentativo di integrare i mercati finanziari europei, al di là di un morbido allineamento normativo. Allora perché lo hanno fatto? Viste da questa parte dell’Atlantico, le ragioni erano spesso incomprensibili. Molti economisti hanno avvertito che l’unione monetaria europea era destinata a fallire, che le élite avevano imbrogliato i loro popoli e – come ha avvertito Marty Feldstein in un famoso articolo del 1997 per Foreign Affairs – che le conseguenze sarebbero state drammatiche, condannando l’UE sia come progetto economico che politico.
In effetti, Feldstein è stato uno dei più fervidi critici dell’euro, sia per ragioni economiche sia perché lo vedeva chiaramente come un progetto politico destinato a sfidare il dominio degli Stati Uniti e del dollaro. Si trattava di un vero e proprio scetticismo economico alimentato da un duro realismo politico internazionale: «Per la maggior parte degli americani, l’unione economica e monetaria europea sembra essere un’oscura impresa finanziaria di nessun interesse per gli Stati Uniti. Questa percezione è tutt’altro che corretta. Se l’UEM andrà avanti, come sembra sempre più probabile, essa cambierà il carattere politico dell’Europa in un modo che potrebbe portare al conflitto in Europa e al confronto con gli Stati Uniti»1
Ma c’era sempre un’altra prospettiva: l’euro era la conseguenza di decenni di integrazione passata – in particolare l’evoluzione del mercato unico europeo – e rappresentava solo un ulteriore passo lungo un percorso molto più lungo verso l’unione politica.
Da questo punto di vista, la questione chiave non era se l’area fosse un’area valutaria ottimale fin dall’inizio – evidentemente non lo era – ma se i Paesi europei fossero disposti a farla diventare tale nel tempo.
Molti economisti europei condividevano alcuni di questi dubbi, ma svilupparono un’argomentazione completamente nuova, lontana da quella di Mundell e incentrata sulla politica della concorrenza e sul mercato unico. In questo discorso, Draghi riconosce implicitamente che l’euro effettivamente non era e non sarebbe stato per lungo tempo un’area valutaria ottimale, ma il funzionamento del mercato unico richiedeva una moneta comune e la fine delle potenziali svalutazioni competitive. Questo, a sua volta, avrebbe incoraggiato la convergenza endogena. L’esercizio intellettuale era un po’ complicato, soprattutto per una moneta comune che non avrebbe coperto l’intero mercato comune, ma funzionava2.
Le conseguenze immediate della creazione dell’euro, tuttavia, hanno aumentato i dubbi degli scettici. Ed è facile capire perché molti non abbiano ritenuto credibile questa narrazione politica, soprattutto dopo il lancio dell’euro e l’inizio delle successive fasi dell’unione politica. Quando gli europei hanno avuto la possibilità di dimostrare il loro impegno verso l’unione politica sotto forma di una costituzione europea, l’hanno rifiutata. E l’UE ha poi scelto di allargarsi all’Europa dell’Est a metà degli anni Duemila senza riformare le sue regole decisionali – probabilmente indebolendo piuttosto che rafforzando la sua natura politica. Ma avendo partecipato ai negoziati per l’unione monetaria come capo del Tesoro italiano all’inizio degli anni Novanta, posso testimoniare che questa motivazione politica era reale.
È sorprendente che Draghi ammetta che il fallimento del Trattato costituzionale e la maggiore integrazione dell’Europa combinata con l’allargamento abbiano contribuito all’indebolimento dell’Unione.
L’obiettivo di costruire un’Unione Europea sempre più stretta era profondo, nato dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, tramandato da generazioni di leader politici e concepito soprattutto per evitare conflitti in Europa. La moneta unica era vista come un passo fondamentale per questo obiettivo e per preservare le conquiste del mercato unico. La priorità era quindi quella di cogliere il momento storico e non di aspettare che tutte le condizioni necessarie fossero soddisfatte. E c’era la genuina convinzione che l’impegno fondamentale per l’unità europea avrebbe creato la volontà politica di affrontare qualsiasi difetto di progettazione che fosse emerso lungo il percorso.
Così, siamo andati avanti, evitando le nostre contraddizioni ma nella ferma convinzione che sarebbero state risolte nel tempo. Nel frattempo, il successo dipende dal rispetto di tre condizioni.Prima, gli stabilizzatori fiscali nazionali dovrebbero essere in grado di operare liberamente e, date le dimensioni dei bilanci nazionali in Europa, in condizioni normali potrebbero fornire una sostanziale stabilizzazione degli shock locali. Le stime dell’epoca indicavano che i bilanci nazionali potevano fornire una stabilizzazione degli shock asimmetrici pari a quella del bilancio federale degli Stati Uniti. Seconda, l’impegno politico nei confronti dell’euro dovrebbe creare trasferimenti impliciti al posto di quelli espliciti – tramite i Paesi fiscalmente più deboli che “prendono in prestito” la credibilità di quelli fiscalmente più forti e godono di costi di finanziamento inferiori. Ciò consentirebbe ai governi di attuare politiche di stabilizzazione senza minacciare il loro accesso al mercato. Terza, le regole di bilancio dovrebbero essere concepite e applicate in modo da consolidare la fiducia nella solidità a medio termine delle finanze pubbliche, in modo che le espansioni anticicliche non generino questioni fondamentali di solvibilità. In questo modo, le promesse alla base di questi trasferimenti impliciti non dovrebbero mai essere messe alla prova.
È importante riconoscere che l’UE, e in particolare la zona euro, si basa su trasferimenti nascosti e/o impliciti. Ciò solleva la questione fondamentale della sostenibilità economica del progetto senza questi trasferimenti, su cui Draghi è molto esplicito, ma solleva anche la questione della sostenibilità politica di questi trasferimenti.
Per il primo decennio dell’euro, le prime due condizioni sono state ampiamente rispettate. I mercati consideravano gli emittenti sovrani dell’area euro come sostanzialmente intercambiabili, con gli spread dei titoli italiani che convergevano verso pochi punti base di quelli tedeschi. Inoltre, gli stabilizzatori di bilancio nazionali sono stati in grado di operare con relativa libertà di fronte a shock economici moderati, come il post 11 settembre e il fallimento delle dotcom. Ma la terza condizione è venuta meno. Le regole fiscali europee sono state costruite intorno a limiti di deficit – con un tetto del 3% del PIL – che hanno creato una prociclicità intrinseca. Ogni volta che un Paese cresceva rapidamente, si vedeva aumentare le entrate che facevano apparire il tetto del deficit allentato, portando a sua volta a un aumento degli impegni di spesa e a un aumento dei deficit strutturali. Ma se il ciclo si inverte bruscamente, quelle entrate evaporano mentre gli impegni strutturali rimangono, riducendo rapidamente lo spazio fiscale. Di conseguenza, di fronte a uno shock molto forte con il crollo di Lehman, i deficit sono aumentati. E temendo un default diffuso, i creditori privati sono stati salvati anche dai governi, spingendo il debito pubblico a livelli che non potevano essere sostenuti dai soli trasferimenti impliciti.
L’ambiguità costruttiva dell’impegno comune nei confronti dell’euro doveva essere colmata da piani dettagliati per ciò che sarebbe accaduto in extremis. I governi hanno inizialmente risposto ampliando il quadro politico dell’area euro per consentire trasferimenti limitati sotto forma di assistenza finanziaria di tipo FMI. E lo hanno fatto con successo, lanciando il primo salvataggio della Grecia e un meccanismo di finanziamento comune europeo. Ma alla fine del 2010 i leader dell’UE hanno annunciato che i futuri salvataggi sarebbero stati soggetti alla ristrutturazione del debito sovrano: il cosiddetto “accordo di Deauville”. In un attimo, questo ha interrotto i trasferimenti impliciti e ha iniettato il rischio di credito in tutte le obbligazioni sovrane europee. Questo ci ha posti di fronte a due scelte nette. La prima era quella di accettare fallimenti sovrani diffusi per “resettare” l’unione a livelli di debito più bassi, preservando così il principio secondo cui gli Stati fiscalmente più forti non dovrebbero pagare per quelli più deboli. Ma proprio perché i livelli di debito iniziali erano così elevati e la proprietà di titoli sovrani era concentrata all’interno del sistema bancario dell’area euro, i default non potevano rimanere eventi contenuti se non in casi molto limitati.
Il riferimento alla crisi del debito dell’euro è abbastanza sincero, ma oscura il ruolo che Draghi stesso ha svolto in questa dinamica. Spesso lo si dimentica, ma il governatore Draghi, alla guida della Banca d’Italia, ha firmato insieme al presidente Trichet una lettera al presidente del Consiglio Berlusconi in cui le istituzioni europee chiedevano degli sforzi per migliorare i conti pubblici italiani. Ma forse l’ex presidente della BCE avrebbe potuto tenere un’analisi più franca del ruolo svolto dalla politica monetaria nell’espansione dei dubbi fiscali sui mercati finanziari. Soprattutto perché questa non era limitata all’Italia, ma era il cuore dell’accordo concluso dallo stesso Draghi all’inizio del suo mandato alla guida della BCE nell’autunno 2011, quando l’economista italiano propose un nuovo patto fiscale (che alla fine ha preso la forma del TSCG) in cambio di un ciclo di espansione della politica monetaria sotto forma di operazioni di rifinanziamento a lungo termine. Mario Draghi può lamentarsi del ruolo della politica fiscale nell’esacerbare la crisi dell’euro, ma avrebbe potuto riconoscere alcuni errori politici personali e istituzionali commessi nello stesso periodo.
Temendo perdite di capitale e, nel peggiore dei casi, la ridenominazione in valute di valore inferiore, gli investitori hanno svenduto il debito pubblico di qualsiasi Paese percepito come vulnerabile, innescando un circolo vizioso di peggioramento dei bilanci bancari, inasprimento delle condizioni di credito e caduta della crescita, in fondo una profonda frammentazione finanziaria. Nel 2012, lo spread rispetto ai titoli di Stato decennali tedeschi ha raggiunto i 500 punti base in Italia e i 600 punti base in Spagna, con spread ancora più ampi in Grecia, Portogallo e Irlanda. Poiché queste economie rappresentavano un terzo del PIL dell’area euro, era impensabile che il resto dell’Unione non sarebbe stato trascinato nella caduta senza un deciso cambiamento di rotta. La seconda opzione era quindi quella di rendere più espliciti i trasferimenti, cosa che alla fine l’Europa ha fatto, anche se in modo tutt’altro che perfetto. Ha inoltre ampliato il suo meccanismo di finanziamento comune, che ha aumentato la condivisione del rischio attraverso i prestiti transfrontalieri all’interno dell’Unione.
L’accordo sul passaggio dai trasferimenti fiscali impliciti a quelli espliciti è stato un elemento importante degli sforzi condotti dal FMI e dal MES. In realtà, questi trasferimenti si sono rivelati insufficienti fino a quando non sono stati compensati da trasferimenti ancora più impliciti sotto forma di operazioni monetarie su titoli (MTS) della BCE e, infine, di quantitative easing. I trasferimenti impliciti non sono mai stati abbandonati e di fatto rimangono la forma dominante di trasferimenti fiscali. Riconoscere la natura fiscale delle azioni di politica monetaria sarebbe stato un utile contributo al dibattito.
La letteratura indica che, prima della crisi del debito sovrano, solo il 40% circa degli shock nazionali nell’area euro veniva assorbito, come mostrato dallo scarto tra consumo e produzione. Una volta che l’assistenza ufficiale è stata attivata, circa il 60% degli shock è stato attenuato. Questi prestiti hanno a loro volta facilitato una forma di trasferimento fiscale, in quanto i creditori pubblici hanno esteso i loro prestiti per decenni nel futuro a tassi di interesse fissi molto bassi, il che porterà nel frattempo ad ampi trasferimenti ai Paesi che hanno ricevuto assistenza finanziaria. Questa risposta ha reso l’area euro più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ma i trasferimenti erano ancora lontani dal modello immaginato da Mundell. Il problema principale è che il loro effetto stabilizzante nei Paesi che li hanno ricevuti è stato compromesso dai rigidi termini dei programmi di aggiustamento che li accompagnavano. Allo stesso tempo, le regole fiscali procicliche dell’Europa hanno aggravato la debolezza della domanda, trasformando una contrazione fiscale aggregata in uno shock recessivo.
Riconoscere le difficoltà incontrate da alcuni aspetti della politica fiscale durante la crisi è, tuttavia, un passo importante nella giusta direzione. L’aver trascurato la nozione di fiscal stance complessiva e il modo in cui la politica fiscale ha spinto l’eurozona in recessione nel 2011 sono utili promemoria di quanto è accaduto. Ma sarebbe utile ricordare anche il contributo della politica monetaria e il ruolo della retorica della BCE in quel periodo.
Mentre i Paesi si sforzavano di rimanere al di sotto dei limiti di deficit, il fiscal stance dell’area euro si è ristretto di circa 4 punti percentuali del PIL potenziale tra il 2011 e il 2013, anche nei Paesi che disponevano di un ampio spazio fiscale e non subivano pressioni di mercato, riducendo così la domanda di esportazioni da parte dei Paesi privi di spazio fiscale. Inoltre, circa due terzi del risanamento fiscale complessivo è avvenuto attraverso aumenti delle imposte piuttosto che tagli alla spesa, riducendo così ulteriormente il reddito disponibile e i consumi. La difficile strada verso la costruzione di un’unione monetaria ottimale è stata illustrata dalle risposte divergenti in Europa a questi sviluppi. In Grecia e in altri Paesi, anni di austerità hanno alimentato un populismo crescente. Ma anche in Germania è aumentato l’euroscetticismo, con la comparsa di nuovi partiti che si oppongono ai bailout e all’idea di tenere a bordo i Paesi più deboli. A fronte di tutti questi problemi, tuttavia, l’euro è sopravvissuto.
Nel 2012 la Banca centrale europea ha annunciato che avrebbe fatto «whatever it takes» per salvare l’euro, una decisione validata dalla Corte di giustizia europea tre anni dopo. Gli investitori hanno smesso di scommettere contro la dissoluzione della moneta comune, poiché sapevano che i dirigenti europei non l’avrebbero mai permesso. E i governi di tutti i colori e di tutti i Paesi hanno continuato a sostenere il progetto, preferendo aiutare anche gli Stati membri più deboli a rimanere nell’Unione. Nell’area euro non esiste ancora un accordo su un bilancio centrale a fini di stabilizzazione o sui trasferimenti fiscali transfrontalieri. E questo porta a chiedersi se l’area valutaria potrà mai essere veramente stabile senza un’ulteriore integrazione in questo ambito.
Il vero contributo di Mario Draghi al dibattito europeo, al di là del famoso «whatever it takes», è stato quello di posizionare chiaramente la BCE a favore dell’integrazione e dei trasferimenti fiscali espliciti. La necessità di centralizzazione e la creazione di un’autentica capacità fiscale, sostenute dal rapporto dei Quattro Presidenti nel 2012, sono state infine approvate da Draghi contro la resistenza del personale della BCE e rimarranno una delle sue eredità intellettuali più importanti.
Non c’è dubbio che sarebbe un obiettivo finale auspicabile avere una capacità fiscale centrale a fini di stabilizzazione, poiché le diverse regioni saranno sempre esposte a shock asimmetrici. Tuttavia, tre fattori suggeriscono che potrebbe non essere più una condizione sine qua non. Primo, nel corso del tempo, l’area euro si è gradualmente avvicinate alle altre condizioni ideali indicate da Mundell, attenuando in qualche modo la necessità di trasferimenti fiscali. 25 anni di unione economica e monetaria hanno portato a catene di approvvigionamento più integrate e a cicli economici più sincronizzati, e l’euro può spiegare almeno la metà di questo complessivo incremento. Allo stesso tempo, mentre la mobilità del lavoro nell’area euro rimane lontana dai livelli degli statunitensi, gli studi hanno riscontrato una graduale convergenza, che riflette sia il calo della migrazione interstatale negli Stati Uniti sia l’aumento del peso della migrazione in Europa. I processi di condivisione del rischio sono ulteriormente migliorati. Ad esempio, in un contesto di integrazione del settore bancario – la cosiddetta unione bancaria – e di abbondante assistenza pubblica, i prestiti transfrontalieri sono stati notevolmente più robusti durante la pandemia rispetto a quanto si era visto in occasione di grandi shock precedenti.
Quanto più l’Europa riuscirà ad avanzare su questa strada – soprattutto in termini di integrazione dei mercati dei capitali – tanto minore sarà la necessità di trasferimenti fiscali permanenti. In secondo luogo, la capacità delle politiche fiscali nazionali di stabilizzare il ciclo è stata rafforzata dal cambiamento della funzione di reazione della Banca centrale.
Tuttavia, persiste la convinzione che i mercati dei capitali e l’integrazione fiscale possano sostituirsi l’un l’altro perché entrambi permetterebbero la stabilizzazione e i trasferimenti. Si tratta di una convinzione comune ed errata nei circoli europei, basata sull’illusione che la condivisione dei rischi sui mercati dei capitali avvenga ex nihilo. Non è così, e la prova è che il motivo per cui l’unione bancaria e l’unione dei mercati dei capitali si sono arenate nell’ultimo decennio è proprio perché, in assenza di integrazione fiscale e in particolare in mancanza di una chiara rete di sicurezza fiscale, non può esistere una vera unione bancaria. L’unione fiscale e l’unione bancaria non sono quindi sostitutive ma complementari. Una ha la precedenza sull’altra.
Dal 2012, la BCE ha individuato negli aumenti ingiustificati degli spread sovrani un ostacolo fondamentale alla regolare trasmissione della politica monetaria, e ha costantemente sviluppato una serie di politiche per affrontare tali minacce. Questa funzione di reazione ha posto una base efficace ai mercati delle obbligazioni sovrane nei casi in cui gli spread non siano effettivamente guidati dai fondamentali, una base che si è dimostrata efficace anche quando l’orientamento della politica monetaria e fiscale non è stato allineato. Ad esempio, i governi dell’area euro sono stati in grado di adottare un consistente stimolo fiscale per compensare gli effetti della crisi energetica dello scorso inverno, anche quando i tassi di interesse erano in forte aumento e l’economia in fase di stallo, con l’area euro che trasferiva più di 200 miliardi di euro al resto del mondo sotto forma di tassa sugli scambi. Questo sarebbe stato probabilmente impossibile dieci anni prima, quando anche piccoli aumenti dei tassi si rivelavano destabilizzanti. Ciò suggerisce che qualcosa è cambiato radicalmente nel modo in cui gli investitori considerano l’area euro e il margine di manovra che sono disposti a concedere.
Terzo, la natura degli shock che dobbiamo affrontare sta cambiando. Con la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina, ci troviamo sempre più spesso ad affrontare shock comuni ed esogeni, piuttosto che shock asimmetrici ed interni. Questo sposta il problema dal sostenere gli Stati in difficoltà nell’affrontare le sfide condivise, creando così un diverso assetto di preferenze politiche. Come illustrato dall’episodio descritto in precedenza, la condivisione del rischio ciclico è difficile da attuare in Europa perché le preferenze politiche sono fortemente disallineate. Ma per obiettivi condivisi come la salute, la difesa e la transizione climatica, le preferenze politiche si sovrappongono e la necessità di maggiori impegni di spesa è incontrovertibile.
Questo è un altro importante cambiamento nelle motivazioni economiche alla base dei trasferimenti e della capacità fiscale comune. Sebbene siano stati a lungo considerati un requisito per la condivisione del rischio di fronte a shock macroeconomici asimmetrici, la realtà è che è stato molto più facile mobilitare la volontà politica per creare risposte fiscali comuni a shock simmetrici (la crisi COVID) o per affrontare sfide e beni pubblici comuni. Si tratta di un cambiamento importante che potrebbe minare strutturalmente la tesi che presenta l’integrazione fiscale come inestricabilmente legata all’euro piuttosto che all’UE. In un certo senso, l’argomento dei beni pubblici indebolisce le argomentazioni sulla capacità fiscale della zona euro e rafforza la tesi dell’estensione e dell’ampliamento del bilancio dell’UE.
La risposta europea alla pandemia ha riconosciuto questa nuova realtà. Ha costretto l’Europa a centralizzare importanti settori della politica sanitaria, in quanto la Commissione ha dimostrato di poter acquistare vaccini più efficacemente di quanto potessero fare i singoli Stati. Le restrizioni necessarie a rallentare la diffusione del virus hanno portato anche alla creazione di un fondo comune per sostenere i mercati del lavoro nell’area euro (SURE). Infine, l’Europa ha concordato la creazione di un fondo da 750 miliardi di euro (Next Generation EU) per sostenere i Paesi nell’affrontare le transizione verde e quella digitale, che richiedono entrambe investimenti molto maggiori di quelli che i singoli Paesi possono permettersi individualmente. Quindi, se il grado di convergenza all’interno dell’area euro è più elevato, la frequenza degli shock asimmetrici è minore e il finanziamento comune degli obiettivi condivisi aumenta, più rari saranno i casi in cui sarà davvero necessaria una capacità fiscale.
La tesi secondo cui è più probabile che l’integrazione fiscale si realizzi attraverso i beni pubblici piuttosto che attraverso la stabilizzazione non deve tuttavia portare alla conclusione che quest’ultima non sia necessaria. La stabilizzazione è necessaria per soddisfare le esigenze di stabilizzazione piuttosto che quelle di allocazione anche in aree economiche fortemente integrate. Le politiche di stabilizzazione vengono spesso nascoste perché quelle di allocazione di risorse possono essere più convenienti dal punto di vista politico, ma ciò non deve distogliere l’attenzione dall’argomentazione economica secondo cui questi strumenti sono necessari.
La domanda chiave ora è se l’Europa può aprire una strada diversa verso l’unione fiscale. La storia ci dice che raramente i bilanci comuni sono stati creati come complemento dell’integrazione monetaria, ma piuttosto con lo scopo di raggiungere specifici obiettivi nell’interesse pubblico. Negli Stati Uniti, è stata la Guerra d’indipendenza che ha portato al «momento hamiltoniano» dell’assunzione del debito da parte del governo federale. In Canada e in Germania, le prime imposte federali dirette – esclusi i dazi doganali – furono create per generare nuove entrare volte a finanziare la Prima guerra mondiale. È stata la necessità di superare la Grande depressione a portare all’espansione del bilancio federale statunitense negli anni Trenta. Allo stesso modo, l’Europa – fino ad oggi – non ha mai affrontato così tanti obiettivi sovranazionali condivisi, ovvero obiettivi che non possono essere gestiti dai singoli Paesi. Stiamo attraversando una serie di grandi transizioni che richiederanno grandi investimenti comuni. Secondo la Commissione europea, il fabbisogno di investimenti per la transizione verde ammonta a oltre 600 miliardi di euro all’anno fino al 2030 – e una somma tra un quarto e un quinto del totale dovrà essere finanziata dal settore pubblico.
Stiamo anche affrontando una transizione geopolitica, guidata dal disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina, in cui non possiamo più fare affidamento su Paesi non amici per le forniture critiche. Ciò richiederà un sostanziale riorientamento degli investimenti verso la costruzione di capacità produttiva in patria o con i partner. E mai nella storia dell’UE i suoi valori fondanti di pace, democrazia e libertà sono stati messi in discussione quanto lo sono adesso dalla guerra in Ucraina. Una conseguenza immediata è che dobbiamo passare a una difesa comune europea molto più forte se vogliamo, come minimo, raggiungere l’obiettivo di spesa militare della NATO del 2% del PIL.
Forse il passaggio più audace del discorso di Draghi è la sua posizione favorevole ad aumentare il bilancio dell’UE, vista la necessità di finanziare la lotta al cambiamento climatico, le esigenze di spesa per la difesa e l’adattamento a un mondo segnato dagli interessi geoeconomici concorrenti di Stati Uniti e Cina, nonché la sua convinzione sulla necessità di allargare l’Europa. La somma di queste sfide promette di rendere i prossimi negoziati sul bilancio dell’UE potenzialmente i più difficili da generazioni, ed è utile stabilire il giusto livello di ambizione per queste discussioni fin dall’inizio.
Tuttavia, allo stato attuale, la struttura istituzionale dell’Europa non è adatta a realizzare queste transizioni, come rivela il confronto con gli Stati Uniti. Qui assistiamo adesso ad una nuova attenzione per la cosiddetta statecraft, in cui la spesa federale, le modifiche normative e gli incentivi fiscali si allineano per perseguire gli obiettivi strategici degli Stati Uniti. L’Inflation Reduction Act, ad esempio, accelererà contemporaneamente la spesa verde, attirerà investimenti esteri e ristrutturerà le catene di approvvigionamento a favore dell’America. Ma in Europa manca una strategia equivalente per integrare la spesa a livello europeo, le norme sugli aiuti di Stato e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio del cambiamento climatico. Una volta scaduto il programma Next Generation EU, non c’è alcuna proposta per uno strumento federale che lo sostituisca nel sostenere le necessarie spese legate alla transizione ecologica. Le norme UE sugli aiuti di Stato limitano la capacità delle autorità nazionali di perseguire attivamente una politica industriale verde. Inoltre, le nostre norme fiscali non prevedono alcuna eccezione per consentire sufficienti investimenti a lungo termine. Senza un intervento, c’è il serio rischio di non essere all’altezza dei nostri obiettivi climatici, e probabilmente di perdere la nostra base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli.
La richiesta di un bilancio europeo ambizioso è anche coerente con i rischi che Draghi intravede nella configurazione attuale, dove l’allentamento delle norme sugli aiuti di Stato con regole di bilancio relativamente rigide a livello nazionale porterebbe solo a una frammentazione interna dell’Unione e a dei conflitti tra i suoi membri. A questo si può porre rimedio solo rendendo più flessibili le regole di bilancio o europeizzando maggiormente la politica economica dell’Unione. Questo è un punto chiave non sufficientemente sottolineato nel breve dibattito sulla risposta dell’UE all’IRA e che si ritorcerà contro l’Unione al punto da far deragliare gli attuali negoziati sulle regole fiscali dell’UE, forse a ragione. È sorprendente che Draghi sia solo leggermente favorevole all’attuale proposta di riforma delle regole fiscali.
Tutto questo ci lascia con due opzioni. Primo, possiamo alleggerire le norme sugli aiuti di Stato e allentare le regole fiscali, consentendo agli Stati membri di assumersi interamente l’onere della spesa per investimenti. Ma in questo modo creeremo una frammentazione perché, anche con il maggiore margine di manovra che i mercati concedono oggi all’area euro, i Paesi con maggiore spazio fiscale avranno molto più spazio di manovra di spesa rispetto agli altri. Come abbiamo imparato dall’accordo di Deauville, la frammentazione non ha senso quando c’è un obiettivo sovranazionale che i Paesi non possono raggiungere da soli. Così come l’euro non può essere stabile se ampie parti dell’unione monetaria sono in crisi, il cambiamento climatico non può essere risolto riducendo le emissioni di carbonio di alcuni Paesi più velocemente di altri. Ciò significa che l’unica opzione che ci permette di raggiungere i nostri obiettivi è la seconda: cogliere l’occasione per ridefinire l’UE, il suo quadro fiscale e – con l’ulteriore allargamento in programma – il suo processo decisionale, e renderli commisurati alle sfide che dobbiamo affrontare.
E sembra proprio che le regole fiscali siano al momento pronte ad essere discusse. La sfida principale per l’area euro è che ci affidiamo a regole di bilancio alla scala nazionale per raggiungere molteplici obiettivi differenti. Dato il ruolo cruciale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regole che consentano alla politica anticiclica di rispondere agli shock locali. Abbiamo anche bisogno di regole che facilitino i massicci investimenti di cui abbiamo bisogno. E dobbiamo garantire la credibilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto di livelli di debito molto elevati a seguito della pandemia. Ma c’è un compromesso intrinseco tra questi obiettivi. Per garantire la credibilità fiscale è necessario che le regole siano più automatiche e meno discrezionali. Ma poiché nessuna regola può essere adattata a tutte le contingenze future, una maggiore automaticità limiterà sempre la capacità dei governi di reagire a shock imprevisti.
Allo stesso modo, regole credibili richiedono aggiustamenti su orizzonti temporali non troppo lunghi. Ma il tipo di investimenti di cui abbiamo bisogno oggi implica impegni di spesa a lungo termine, molti dei quali andranno oltre la vita dei governi che li stanno promettendo. La Commissione europea ha cercato di risolvere questo compromesso proponendo di concentrarsi su una disciplina di spesa legata alla traiettoria del debito a medio termine di un Paese. Questo sarebbe certamente un miglioramento rispetto al precedente tetto del deficit, in quanto le regole di spesa sarebbero indipendenti dalle entrate straordinarie durante le fasi di ripresa, consentendo così il ruolo anticiclico e stabilizzante della politica fiscale quando il ciclo si inverte. Il percorso di spesa può anche essere adattato per i Paesi che intraprendono investimenti, allungando il periodo in cui la traiettoria del debito deve iniziare a diminuire. Ma tutto ciò avverrà inevitabilmente al prezzo dell’automaticità e, forse, dell’applicabilità. Quindi, se guardiamo al futuro, dobbiamo riconoscere che le regole fiscali veramente credibili non possono funzionare senza un equivalente ripensamento dei poteri fiscali. Poiché le regole automatiche rappresentano una devoluzione di poteri al centro, possono funzionare solo se sono accompagnate da un maggior grado di spesa da parte del centro.
Draghi stabilisce un legame effettivo tra le regole di bilancio dell’Unione e la necessità di aumentare la spesa. Le regole automatiche rappresentano una devoluzione della politica fiscale che può essere accettata solo in cambio di un aumento della spesa fiscale a livello centrale, che l’attuale proposta di riforma delle regole di bilancio non offre. Il sostegno di Draghi a questo accordo esplicito spingerà i negoziati sul bilancio dell’UE verso un accordo globale più ampio che comprenda le regole di bilancio, il budget dell’UE, i NGEU2 e le risorse proprie. Questo dovrebbe essere al centro del prossimo programma di lavoro della Commissione europea.
Questo è in linea di massima ciò che vediamo negli Stati Uniti, dove il trasferimento di poteri al governo federale rende piuttosto rigide le regole fiscali per i singoli stati. I bilanci in pareggio a livello statale sono credibili proprio grazie ai trasferimenti fiscali e alla spesa federale per progetti comuni, che possono affrontare shock imprevisti e finanziare obiettivi condivisi. L’area euro probabilmente non replicherà mai completamente questa struttura, data la dimensione molto maggiore dei bilanci nazionali rispetto a quelli dei singoli Stati statunitensi. Ma ci sono buone ragioni per cui importare alcuni elementi avrebbe una sua logica. In primo luogo, se dovessimo ritagliare e federalizzare alcune spese di investimento necessarie ad obiettivi condivisi, utilizzeremmo il nostro spazio fiscale in modo più efficiente.
Lo spazio fiscale asimmetrico dell’Europa – con alcuni Paesi che possono spendere molto più di altri – è fondamentalmente uno spreco quando sono in gioco obiettivi condivisi come il clima e la difesa. Se alcuni Paesi possono spendere liberamente per questi obiettivi, mentre altri non possono, l’impatto di tutte le spese è inferiore, poiché nessuno è in grado di raggiungere la sicurezza climatica o militare. In secondo luogo, l’emissione di più debito comune per finanziare questi investimenti potrebbe ampliare lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione. I costi di prestito dell’UE sono inferiori alla media ponderata dei costi di prestito dei suoi Stati membri e sono quasi identici a quelli del meccanismo di finanziamento istituito durante la crisi, il MES, nonostante quest’ultimo disponga di così tanto capitale versato da poter riacquistare il 70% delle sue obbligazioni al valore nominale.
Ciò indica che gli investitori ripongono una notevole fiducia nella capacità dell’UE di ricavare da ciascun Paese aderente il futuro gettito di entrate necessarie a servire il debito sottostante. Questo, a sua volta, implica l’esistenza di un potenziale non sfruttato da parte dell’UE di intermediazione del debito e riduzione dei costi di indebitamento aggregati nell’Unione.
Uno degli argomenti addotti negli ultimi mesi contro l’emissione di debito comune è stato l’aumento del costo del prestito per il debito dell’Unione. In questo caso, Draghi affronta timidamente questa tesi, dimostrando che gli attuali tassi sono essenzialmente inferiori alla media ponderata del costo del prestito dei vari Stati membri. Ma non va oltre, sostenendo che il costo del debito potrebbe convergere verso il basso se all’Unione fossero concessi poteri fiscali più chiari e un mercato del debito più liquido e profondo.
Ma la promozione di un maggior numero di funzioni alla scala federale richiederebbe la fiducia tra i diversi Stati membri nella capacità e correttezza di utilizzo dei fondi comuni da parte delle autorità nazionali, dato che la maggior parte dell’attuazione avverrebbe ancora a livello nazionale. Richiederebbe anche un cambiamento commisurato delle nostre regole fiscali in direzione di una minore flessibilità. L’emissione di più debito UE ridurrebbe, a parità di condizioni, la capacità fiscale di servire il debito nazionale. Ciò significa che, come minimo, dovremmo garantire che gli Stati membri con un debito elevato utilizzino lo spazio fiscale creato dalla spesa comune per migliorare le loro prospettive fiscali – una parte delle quali dovrebbe derivare da effetti positivi sulla crescita.
Per ora, ci sono dei limiti a quanto possiamo spingerci in questa direzione, non da ultimo perché il costo del prestito dell’Unione è ancora superiore a quello dei suoi membri più forti – il che significa che un prestito maggiormente condiviso potrebbe essere visto come una forma di trasferimento fiscale non autorizzato. Pertanto, una possibilità è quella di procedere – come abbiamo fatto finora – con un’integrazione tecnocratica, apportando cambiamenti apparentemente tecnici e sperando che quelli politici seguano. Questo approccio è riuscito alla fine con l’euro e ha reso l’UE più forte. Ma i costi sono stati elevati e i progressi lenti.
L’altra possibilità è quella di procedere con un vero e proprio processo politico, in cui l’obiettivo finale sia esplicito fin dall’inizio e approvato dagli elettori sotto forma di modifica dei Trattati UE. Questa strada è fallita a metà degli anni Duemila e da allora i politici l’hanno evitata, ma credo che ora ci siano più speranze di movimento. Con l’ulteriore allargamento dell’Unione ai Balcani e all’Ucraina, sarà essenziale riaprire i Trattati per garantire che non si ripetano gli errori del passato, espandendo la periferia senza rafforzare il centro. Questo dovrebbe produrre un allineamento naturale tra i nostri obiettivi condivisi, il processo decisionale collettivo e le nostre regole fiscali.
Infine, Draghi mette in guardia dal pericolo di continuare con l’integrazione tecnocratica in sordina e suggerisce che l’economia politica della riforma dei trattati sia cambiata. Adesso, uno stallo comporta rischi sufficienti da incoraggiare ad agire anche i meno inclini a farlo. Si tratta di un appello coraggioso in un momento in cui la maggior parte dei leader europei sembra meno propensa a grandi passi in avanti dopo un periodo segnato da discorsi molto ambiziosi. Forse il grande vantaggio di essere uno statista senza Stato è quello di poter dire più liberamente la verità al potere.
Il punto di partenza di ogni futura modifica dei Trattati deve essere il riconoscimento del numero crescente di obiettivi condivisi e della necessità di finanziarli congiuntamente; ciò richiede a sua volta una diversa forma di rappresentanza e di processo decisionale centralizzato. A quel punto, il passaggio a regole più automatiche diventerebbe più realistico. Credo che gli europei siano più pronti di vent’anni fa a percorrere questa strada, perché oggi hanno solo tre opzioni: paralisi, uscita o integrazione. I sondaggi indicano chiaramente che i cittadini avvertono un crescente senso di minaccia esterna, non da ultimo dopo l’invasione russa, che rende la paralisi sempre più inaccettabile. Le strategie che hanno assicurato la nostra prosperità e sicurezza in passato – la dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza, dalla Cina per le esportazioni e dalla Russia per l’energia – oggi sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili.
Il trilemma in cui si trova l’Europa è dunque il seguente: paralisi, uscita o integrazione sono le tre scelte che gli europei devono affrontare, e Draghi ha probabilmente ragione a dire che i pericoli delle prime due potrebbero rendere l’ultima più attraente e possibile oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni.
Le sfide del cambiamento climatico e della migrazione non fanno che accrescere il senso di urgenza nel rafforzare la capacità di azione dell’Europa. Non saremo in grado di costruire questa capacità senza rivedere il quadro fiscale europeo, e ho cercato di delineare le direzioni che questo cambiamento potrebbe prendere. In ultima analisi, la guerra in Ucraina ha ridefinito la nostra Unione in modo più profondo – non solo per quanto riguarda i suoi membri e i suoi obiettivi condivisi, ma anche per la consapevolezza che il nostro futuro è interamente nelle nostre mani, e nella nostra unità.
Note
- Martin Feldstein, « EMU and International Conflict », Foreign Affairs, november-december 1997.
- Commission of the European Communities, European Economy, n° 44, octobre 1990