La governance economica globale è in continuo mutamento. Dal 2016, quando l’amministrazione Trump è andata al potere, gli Stati Uniti hanno minato il normale funzionamento dell’Organizzazione mondiale del commercio bloccando la nomina di nuovi giudici nel suo organo di appello. Dazi doganali sono stati introdotti per motivi di sicurezza nazionale, una politica che ha una certa continuità viste le norme sui Paesi d’origine incluse nell’Inflation Reduction Act. Anche le istituzioni finanziarie globali hanno i loro problemi. La crescita dei BRICS ha permesso loro di accumulare ingenti riserve esterne che hanno aumentato la loro libertà d’azione nei confronti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e di creare nuove istituzioni concorrenti, come la Nuova Banca di Sviluppo.
Inoltre, il paradigma che ha plasmato gli ultimi quarant’anni di politica economica, sia a livello nazionale che internazionale, il neoliberismo, è in ritirata. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan, in un discorso pronunciato il 27 aprile, ha delineato la visione dell’amministrazione per una trasformazione dell’ordine commerciale e finanziario globale verso una crescita più verde e inclusiva.
Per comprendere meglio la situazione attuale, è necessario approfondire la storia dell’ordine finanziario e commerciale che è stato progressivamente costruito dalla fine della Seconda guerra mondiale. Storici e politologi hanno riempito le biblioteche di ottimi libri sulle istituzioni di Bretton Woods, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Credo che un nuovo libro di spessore sia giustificato perché il commercio, la moneta, il capitale e lo sviluppo sono solitamente trattati separatamente, senza prestare attenzione alle loro interrelazioni e alle implicazioni per la politica internazionale e nazionale. L’ambizione di The Economic Government of the World è quella di fornire una panoramica che si concentri sui punti di svolta critici.
Rendere il mondo adatto allo sviluppo economico e sociale (o fare un New Deal globale)
Il primo punto di svolta è stata la risposta alla Grande Depressione e alla Seconda Guerra Mondiale. Il risultato è stato un multilateralismo poco strutturato che ha creato un equilibrio nelle nazioni capitaliste democratiche tra l’economia internazionale e il benessere interno. Il processo è iniziato con l’accordo tripartito del 1936 per stabilizzare la sterlina, il dollaro e il franco, che ha dimostrato come le democrazie capitaliste liberali potessero cooperare contro il totalitarismo. Secondo Henry Morgenthau, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, l’intesa sarebbe potuto «essere il punto di svolta per riprendere il pensiero razionale in Europa». Esso pose le basi per l’accordo di Bretton Woods che, analogamente, aveva intenzioni geopolitiche piuttosto che strettamente monetarie. I piani furono elaborati dagli inglesi e dagli americani, che conciliarono le loro divergenze senza un vero e proprio controllo, in un momento in cui i mercati finanziari mondiali erano in fibrillazione. Molte voci contrarie furono messe a tacere dalle circostanze della guerra e dalla sottomissione da parte dell’imperialismo.
A Bretton Woods, Morgenthau mirava a cacciare «gli usurai prestatori di denaro dal tempio della finanza internazionale». Secondo Morgenthau, la City di Londra e Wall Street erano ostili al New Deal ed era fondamentale trasferire il potere finanziario a Washington, dove il dollaro poteva essere usato per un beneficio più ampio del guadagno personale dei banchieri. Harry Dexter White e John Maynard Keynes, i due principali architetti dell’accordo di Bretton Woods, erano d’accordo sul fatto che i flussi internazionali di capitale compromettessero la stabilità dei tassi di cambio e provocassero protezionismo. Keynes si rese conto che la capacità di utilizzare i tassi di interesse per gestire l’economia interna e mantenere stabili i tassi di cambio sarebbe stata possibile solo con il controllo dei capitali, senza il quale una variazione dei tassi di interesse avrebbe provocato flussi di capitale che avrebbero minacciato il tasso di cambio.
Durante l’epoca del gold standard, i tassi di cambio erano fissi e i capitali potevano circolare liberamente. Era quindi difficile utilizzare i tassi di interesse per gestire l’economia interna: una loro riduzione per stimolare l’occupazione avrebbe indotto gli investitori a cercare un rendimento più elevato all’estero, mettendo sotto pressione il tasso di cambio. L’accordo di Bretton Woods fu un compromesso tra benessere interno e internazionalismo. Il dollaro fu fissato a 35 dollari l’oncia e le altre valute agganciate al dollaro con la possibilità di variare il tasso di cambio in caso di «squilibrio fondamentale», evitando così la necessità di deflazionare per mantenere il tasso. I controlli sui capitali eliminarono quindi la potenziale pressione sul tasso di cambio e permisero l’uso dei tassi di interesse per la gestione interna. Come osservò Keynes, l’accordo di Bretton Woods «accorda a ogni governo membro il diritto esplicito di controllare tutti i movimenti di capitale. Ciò che prima era un’eresia ora è approvato come ortodosso». L’obiettivo generale era quello di ripristinare il commercio multilaterale senza rinunciare al benessere interno.
I piani americani per il sistema monetario del dopoguerra inizialmente davano maggior peso allo sviluppo economico, basandosi sulla politica del buon vicinato in America Latina, considerata vittima della finanza di Wall Street. Sebbene a Bretton Woods l’ambizione di estendere il New Deal al mondo fosse stata ridimensionata per ragioni pragmatiche, essa non scomparve. Alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, Lauchlin Currie sperava di incoraggiare lo sviluppo economico attraverso un «attacco generalizzato» al «circolo vizioso della povertà, dell’ignoranza, della malattia e della bassa produttività». Il suo approccio si scontrava con quello di banchieri come Robert Garner della BIRS, che privilegiavano i «prestiti direttamente produttivi» che avrebbero «prodotto il maggiore e più rapido aumento della produzione e della produttività, piuttosto che gli investimenti nella sanità o nell’istruzione pubblica». Nel 1951, Garner esplose: «Dannazione Lauch, non possiamo scherzare con l’istruzione e la sanità. Siamo una banca!».
Nonostante l’emarginazione a Bretton Woods, i produttori primari e le economie meno sviluppate ebbero una certa voce in capitolo. Negli anni Trenta, la Società delle Nazioni chiese una «sicurezza positiva» che si rifaceva al lavoro sulla malnutrizione svolto dagli istituti di ricerca imperiali e al pensiero di Frank McDougall, un australiano che ebbe un ruolo centrale nella Lega. McDougall riteneva necessario produrre gli «alimenti protettivi» come verdura, frutta e latticini in Paesi vicini al mercato europeo, che avrebbe eliminato le tariffe sugli «alimenti energetici» come il grano trasportato dall’Australia. Di conseguenza, tutti sarebbero stati più sani, i consumi sarebbero aumentati e l’occupazione si sarebbe ripresa. La «sicurezza positiva» avrebbe insomma eliminato i problemi economici che portano alle tensioni politiche e «dimostrando che i Paesi democratici possono raggiungere per i loro cittadini un comfort e un benessere maggiori rispetto agli Stati fascisti e comunisti». Questo pensiero integrava il «granaio sempre pieno» di Henry Wallace, segretario all’Agricoltura e vicepresidente degli Stati Uniti.
Queste idee influenzarono due conferenze. La prima fu convocata dal Presidente Roosevelt sull’alimentazione e l’agricoltura a Hot Springs nel maggio-giugno 1943 e portò alla creazione di un’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura nel 1945, con l’obiettivo radicale di un Consiglio alimentare mondiale per accumulare prodotti di base quando si trovano a buon mercato al fine di stabilizzare i prezzi e distribuire le eccedenze ai Paesi poveri. La proposta fu bloccata e la FAO si dedicò a programmi meno ambiziosi di assistenza tecnica e di intelligence statistica. La seconda è stata la riunione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro a Filadelfia nell’aprile-maggio 1944, dove gli australiani sostennero, con successo, che la conferenza postbellica sul commercio proposta dagli Stati Uniti avrebbe dovuto occuparsi anche dell’occupazione. L’accordo di Bretton Woods avrebbe poi limitato la capacità dei produttori primari di svalutare in risposta alla depressione e il commercio multilaterale li avrebbe resi più dipendenti dall’instabilità dei mercati globali. Gli australiani ritenevano che il multilateralismo dovesse essere combinato con la piena occupazione delle risorse mondiali e con l’impegno degli americani a stabilizzare la loro economia altamente ciclica. Quando la conferenza si riunì a Ginevra e all’Avana nel 1947-48, le richieste americane di un’Organizzazione internazionale del commercio che sostenesse i mercati aperti furono accolte dalle controdeduzioni dell’India e dell’America Latina, che chiedevano un cambiamento nell’equilibrio del potere economico tra economie sviluppate e meno sviluppate. Gli inglesi e gli americani non potevano più controllare le discussioni come a Bretton Woods. I negoziatori americani fecero delle concessioni per garantire l’adesione all’ITO da parte dei Paesi meno sviluppati, a costo di perdere il sostegno di Capitol Hill. La Carta dell’OIL non fu mai ratificata e tutto ciò che sopravvisse fu l’Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio ad interim.
I primi dubbi
Quando la conferenza dell’Avana si concluse, la politica americana cominciò a muoversi in una direzione diversa. In patria, le politiche radicali del New Deal stavano cedendo il passo a un approccio aziendale di produttività ed efficienza. Oltreoceano, la ricostruzione dell’Europa stava richiedendo più tempo di quanto previsto a Bretton Woods, dove gli americani avevano ipotizzato un breve periodo di transizione. Nel maggio 1947, Will Clayton, il principale sostenitore dell’ITO presso il Dipartimento di Stato, si rese conto che la situazione dell’Europa richiedeva il piano Marshall e un’unione doganale per creare una «forte Europa integrata» al posto di «una serie di economie nazionalistiche e autarchiche fortemente divise». Egli respinse le lamentele sul fatto che un’unione doganale europea fosse incoerente con la sua opposizione alla preferenza imperiale britannica e con il suo sostegno all’ITO. Senza un’unione doganale, l’Europa sarebbe precipitata nel caos; senza l’ITO, ci sarebbe stato un ritorno al nazionalismo economico.
Anche l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Sovietica cambiò. A Bretton Woods, l’amministrazione statunitense era desiderosa di includere i sovietici e di utilizzare l’alleanza bellica per garantire la stabilità geopolitica grazie ai “quattro gendarmi”: Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Cina. Questa ambizione non divenne mai realtà a causa della scelta sovietica di non firmare l’accordo di Bretton Woods e non partecipare alla conferenza commerciale. Il ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin, sempre più scettico sulle intenzioni sovietiche, incoraggiò gli americani a dividere la Germania ed escludere i sovietici dal Piano Marshall. Inizialmente, la Germania e poi l’Europa furono divise in blocchi comunisti e capitalisti. Il GATT divenne un club per le economie di mercato capitaliste democratiche contro il comunismo, che ignorava ampiamente il Sud. Alla fine degli anni Cinquanta, il Segretario del GATT sostenne che l’ammissione di alcuni Stati comunisti avrebbe potuto rispondere alle critiche sulla natura di accordo esclusivo tra Stati ricchi capitalisti e allontanare i membri del blocco sovietico da Mosca. I governi di Regno Unito e Stati Uniti non furono tuttavia persuasi. Nel frattempo, i Paesi del Sud avanzarono le loro richieste alla Conferenza di Bandung del 1955 e alla creazione della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo del 1964, che permise anche all’Unione Sovietica di formare alleanze contro l’Occidente.
La fine di Bretton Woods
Nelle economie capitalistiche democratiche, il sostegno interno al sistema internazionale si basava su un contratto sociale tra lavoro, capitale e Stato. I lavoratori si limitavano a richieste salariali modeste, il capitale otteneva un profitto decente che poteva investire in una maggiore produttività e lo Stato forniva scuole, assistenza sanitaria e welfare migliori. Questo contratto sociale era sostenuto dalla produzione di massa fordista, che offriva posti di lavoro sicuri ai lavoratori senza qualifiche, con una disuguaglianza storicamente bassa e un’inflazione modesta.
Negli anni ’60 questo regime economico fu messo alla prova. La ripresa economica in Europa e l’indebolimento della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti a causa della concorrenza e delle spese per la difesa misero a nudo i gravi difetti del sistema di Bretton Woods. Il dollaro era legato all’oro e difficilmente svalutabile, e i Paesi in surplus, soprattutto la Germania, non erano obbligati a rivalutare le loro valute.
Il risultato furono incomprensioni reciproche, le minacce di Washington di tagliare le spese per la difesa in Europa e le sfide delle capitali europee all’irresponsabilità americana. Costringere la Germania a rivalutare la propria moneta minacciando di ritirare le proprie truppe era contrario al proseguimento della Guerra Fredda. La liquidità dell’economia mondiale dipendeva dal deficit degli Stati Uniti, che avrebbero fornito più dollari, ma il deficit minava la fiducia nella capacità di tenuta dei tassi.
Di conseguenza, si verificarono deflussi speculativi di dollari verso la Germania, nella speranza che a un certo punto il marco tedesco si rivalutasse. La pressione inflazionistica in Germania causata da questo afflusso portò a tensioni interne sul miglior modo di affrontare la situazione. I risparmiatori insistevano sulla necessità di adottare misure per frenare l’inflazione, ma permettere al marco tedesco di fluttuare a un nuovo livello avrebbe colpito le esportazioni industriali; inoltre, imporre controlli sui cambi sarebbe sembrato un ritorno alle politiche degli anni Trenta.
Nel frattempo, il Fondo Monetario Internazionale aveva fatto solo dei timidi tentativi di riforma, a cui la Francia si era opposta, e gli Stati Uniti non erano riusciti a indicare una chiara via da seguire. Richard Nixon temeva che sgonfiare l’economia per sostenere il dollaro avrebbe danneggiato le sue possibilità di rielezione. La sua soluzione fu adottare la politica del «benign neglect»: lasciare che si sviluppasse una crisi e poi costringere gli altri Paesi a rivalutare le monete nazionali. Nell’agosto 1971 il presidente sospese la convertibilità del dollaro in oro e impose una sovrattassa sulle importazioni. Questa tattica intimidatoria portò a nuovi tassi di cambio in dicembre, ma Nixon non era disposto a mantenere il valore del dollaro. A Washington cresceva il sostegno al mercato piuttosto che alla fissazione dei tassi da parte del governo e la mancanza di fiducia nelle intenzioni degli Stati Uniti incoraggiò l’Europa a creare una zona di stabilità monetaria.
Questo spostamento verso un’area valutaria europea confermò i timori di Washington che il Mercato Comune fosse minacciato. Nel 1947, Clayton aveva sperato che un’unione doganale europea fosse compatibile con il multilateralismo; ora Washington temeva che la CEE fosse un rivale, soprattutto sotto l’influenza del nazionalismo di De Gaulle. I negoziati commerciali del Kennedy Round furono quindi segnati da un dilemma geopolitico. Dal punto di vista economico, era essenziale migliorare l’accesso ai mercati europei e impedire l’emergere di un blocco autonomo e isolazionista che avrebbe indebolito il partenariato atlantico e la leadership americana nel mondo libero. L’obiettivo di Kennedy era un’Alleanza Atlantica con una zona a basse tariffe tra Europa e Stati Uniti, con una solidarietà politica nella difesa del mondo libero a cui l’Europa avrebbe dato un contributo maggiore.
Questo obiettivo fu accettato meglio negli Stati Uniti che in Europa, soprattutto in Francia. Perché condividere l’onere della difesa, ammettere i prodotti americani, accettare la leadership americana e i valori del capitalismo di mercato? Nel 1973, Nixon temeva che la fluttuazione della moneta comune europea minacciasse gli interessi americani, con i leader dei governi di sinistra più inclini a confrontarsi con gli Stati Uniti che ad allearsi contro i sovietici. «Le considerazioni politiche», insistette, «devono avere la precedenza assoluta su quelle economiche nei negoziati monetari e commerciali». Henry Kissinger era d’accordo: non era possibile porre fine al sistema dei cambi comuni senza «una feroce lotta politica», ma si poteva sperare di creare le condizioni per il suo fallimento.
I flussi di capitale globali iniziarono a tornare prima della fine del regime di Bretton Woods, in particolare con l’emergere del mercato degli eurodollari alla fine degli anni ’50 e ’60. Quando le amministrazioni Kennedy e Johnson tentarono di controllare i deflussi di capitale in risposta all’indebolimento della bilancia dei pagamenti, le imprese statunitensi risposero mantenendo i loro profitti all’estero.
Allo stesso tempo, l’Unione Sovietica collocò i suoi guadagni in dollari a Londra piuttosto che a New York, per evitare il rischio che venissero bloccati. Di conseguenza, la City di Londra tornò ad essere un importante centro finanziario, resistendo alle pressioni dei banchieri centrali europei per regolamentare il mercato, e portando a pressioni per eliminare le restrizioni a Wall Street in modo che potesse competere. L’impennata dei petrodollari dopo l’aumento dei prezzi OPEC nel 1973 permise alla City e a Wall Street di prestare grandi quantità di denaro, soprattutto all’America Latina. Il FMI fu emarginato e i banchieri commerciali iniziarono a svolgere un ruolo cruciale nel riciclaggio dei petrodollari, segnando uno spostamento dell’equilibrio di potere tra Stato e finanza che era stato raggiunto a Bretton Woods.
Il successo dell’OPEC nell’aumentare i prezzi del petrolio nel 1973 fu seguito nel 1974 dalla richiesta di un nuovo ordine economico internazionale. La decolonizzazione e il successo dei produttori di petrolio diedero ai Paesi meno sviluppati più voce e fiducia per chiedere una ristrutturazione dell’economia mondiale.
Kissinger reagì evitando di assumere una «posizione teologica» con un attacco frontale. Cercò invece di «confondere le acque» mostrando segni di sostegno ad alcuni e colpendo altri con politiche specifiche. Al contrario, la Francia cercò di andare d’accordo con i Paesi meno sviluppati.
Nel 1981, la finestra di opportunità si era chiusa. La solidarietà meridionale non poteva essere sostenuta a causa dell’aumento dei costi per gli importatori di petrolio e delle preoccupazioni geopolitiche legate al rovesciamento dello Scià in Iran, all’invasione sovietica dell’Afghanistan e alla ripresa della Guerra Fredda, nonché alla scarsa simpatia di Ronald Reagan e Margaret Thatcher per il dialogo Nord-Sud.
Un disordine neoliberale
Allo stesso tempo, il contratto sociale nazionale tra capitale, lavoro e Stato si ruppe. All’inizio degli anni ’70, la crescita della produttività era diminuita ed era meno facile combinare una bassa inflazione con aumenti salariali e profitti ragionevoli. Nel Regno Unito, il tasso di rendimento lordo del settore manifatturiero era sceso dal 16,4% del 1960 al 9,5% del 1973 e al 5,5% del 1982. Il calo dei profitti portò a un calo degli investimenti, che a sua volta diminuirono la crescita della produttività.
Inoltre, la fine della disciplina dei tassi di cambio fissi eliminò la necessità di limitare gli aumenti salariali e l’offerta di moneta. Il risultato fu la stagflazione, cui fu risposto con un ritorno alla disciplina monetaria, lo “shock Volcker” del 1979, ovvero la decisione del presidente della Federal Reserve di aumentare i tassi di interesse e di restringere l’offerta di moneta per abbattere le aspettative inflazionistiche. Questa decisione indicava il desiderio di persistere nella disciplina e non, come in passato, di stimolare l’economia ed evitare la recessione. I pericoli politici interni preoccupavano il presidente Jimmy Carter, ma l’elezione di Reagan cambiò tutto. Reagan, come la Thatcher, riuscì a vendere il mercato come soluzione ai fallimenti percepiti dell’ordine postbellico. La crescita e la prosperità, sosteneva, sarebbero state assicurate dall’«ottimismo populista del mercato».
Anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sono registrate pressioni politiche per limitare il potere dei sindacati. La legislazione è stata rafforzata dall’impatto della deindustrializzazione e dal declino della produzione fordista con posti di lavoro stabili e salari decenti per le persone senza qualifiche formali. La percentuale di lavoratori nell’industria nel Regno Unito è scesa dal 48% della forza lavoro nel 1957 al 15% nel 2016, e c’è stata una crescita parallela dell’occupazione nei servizi, spesso precaria: ad esempio, tra il 1979 e il 1999, l’occupazione degli assistenti di cura è aumentata del 420%. Il risultato è stato un recupero della quota di profitto che non si è tradotto in investimenti e produttività – i costi si sono ridotti a causa del basso potere contrattuale della forza lavoro e dell’outsourcing.
I movimenti di capitale avevano indebolito il regime di tassi di cambio stabili di Bretton Woods, la cui caduta nel 1973 aveva eliminato la necessità di limitare i flussi di capitale internazionali. Il FMI passò così dallo scetticismo all’incoraggiamento dei flussi di capitale, con un profondo disaccordo tra i gradualisti che volevano aspettare l’eliminazione delle distorsioni del mercato e coloro che erano favorevoli a una rapida liberalizzazione.
Nel 1997, il direttore generale del FMI sostenne, senza tenere conto della storia, che la modifica dello Statuto per rendere la liberalizzazione del conto capitale un obiettivo specifico del Fondo avrebbe completato il lavoro di Bretton Woods. Jacques Polak, un funzionario di lunga data del FMI, osservò che «la promozione dei flussi globali di capitale non è uno degli obiettivi del Fondo»; questo cambiamento di atteggiamento rifletté un cambio generazionale all’interno del FMI: i keynesiani stavano andando in pensione per essere sostituiti da economisti neoclassici formati principalmente nelle scuole di specializzazione statunitensi, escludendo qualsiasi altro punto di vista.
Il FMI è diventato il garante delle banche commerciali quando i mutuatari si sono trovati nei guai. I critici hanno sostenuto che il suo coinvolgimento nel salvataggio del Messico nel 1982 ha creato un rischio morale, incoraggiando la concessione di prestiti in Asia orientale nella speranza che i mutuatari venissero salvati.
Quando la crisi arrivò in Corea del Sud nel 1997, il FMI intraprese un programma di riforme di mercato volte ad avvicinare il Paese agli Stati Uniti, liberalizzando i mercati e ponendo fine allo stretto rapporto tra banche, imprese e Stato, descritto come capitalismo clientelare. L’economista Martin Feldstein sottolineò che «Il disperato bisogno di assistenza finanziaria a breve termine di una nazione non dà al FMI il diritto morale di sostituire i suoi giudizi tecnici ai risultati del processo politico della nazione» – un principio fondamentale di Bretton Woods.
Il FMI non è stato l’unica causa di problemi. Nonostante i suoi dubbi sul rispetto delle condizioni del prestito da parte della Russia, l’istituzione internazionale fu spinta dall’amministrazione statunitense a continuare a concedere prestiti per aggirare il Congresso, che si opponeva agli aiuti diretti. La situazione è stata diversa in Cina, che ha attinto da una serie di punti di vista elaborati da economisti del libero mercato e dalla Banca Mondiale su quanto accaduto nel blocco sovietico per evitare gli stessi errori: il Partito Comunista è rimasto in controllo del processo, a differenza dell’Unione Sovietica; le diverse esperienze della caduta del muro di Berlino e di Piazza Tienanmen nel 1989 segnano quindi una rottura fondamentale.
La mancata opportunità offerta dalla crisi
Quando nel 2008 è esplosa la crisi finanziaria globale, ci sono stati segnali che indicavano che il neoliberismo poteva essere superato con un ritorno a Keynes. Il risultato è stato il mantenimento dello status quo. Alla riunione del G20 del 2009, la politica di stimolo fiscale di Gordon Brown incontrò una certa opposizione: in patria, Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, sostenne che le misure fiscali a breve termine dovevano risolvere un problema immediato di riduzione del debito, di aumento degli investimenti e do spostamento dei consumi interni verso le esportazioni.
Angela Merkel vedeva la soluzione nel controllo dei mercati finanziari globali e dei paradisi fiscali – una critica implicita al sostegno di Brown alla City di Londra; la cancelliera tedesca era certamente influenzata dalle preoccupazioni elettorali interne sul costo della ricostruzione della Germania dell’Est dalla riluttanza del suo elettorato a salvare l’Europa meridionale, e temeva che l’invecchiamento della popolazione avrebbe ridotto la competitività in futuro, quindi l’esportazione e l’accumulo di surplus erano vitali.
Nel 2010, il G20 ha adottato un consolidamento fiscale «favorevole alla crescita». La sconfitta dello stimolo fiscale in Gran Bretagna e negli Stati Uniti riflette la morsa delle élite finanziarie sullo Stato britannico e americano, sostenuta dall’“effetto ricchezza”: sempre più persone sono state attratte dal settore finanziario attraverso pensioni, mutui e investimenti.
I politici di destra hanno inoltre creato una narrazione che incolpava la spesa statale per i problemi economici piuttosto che il debito privato e la finanziarizzazione dell’economia, chiedendo una riduzione dei deficit di bilancio, uno Stato più piccolo e tasse più basse. Il risultato è stato l’uso del quantitative easing, che ha evitato un’altra Grande Depressione, al costo di un aumento dei prezzi degli asset che ha avvantaggiato i ricchi, mentre l’austerità ha danneggiato i poveri.
Persino il Fondo Monetario Internazionale si è allarmato perché il governo britannico stava «giocando con il fuoco» ignorando l’impatto dell’austerità sulla disuguaglianza e sulla crescita. La Cina ha adottato misure di stimolo fiscale cruciali. La motivazione era quella di garantire una crescita economica continua che sostenesse la legittimità del Partito comunista. Ha contribuito a far uscire il mondo dalla crisi, a costo di distorcere gli investimenti in progetti infrastrutturali inutili e in un debito insostenibile.
Verso un governo economico del mondo più progressista
Il crollo finanziario globale non ha segnato un grande cambiamento nella governance dell’economia mondiale. Il Covid ha colpito economie che soffrivano di servizi pubblici indeboliti e di precarietà. Se l’impatto del Covid potrà portare a un nuovo ordine rimane una questione aperta e dipende dalla capacità degli oppositori del neoliberismo di costruire un modello alternativo che possa superare i difetti dell’ordine esistente. Il crollo del 2008 non ha portato a una rivoluzione in economia, come negli anni Trenta e Settanta – un compito reso ancora più difficile dal fatto che un piccolo numero di riviste privilegia oggi approcci altamente matematici -, per cui Mervyn King si è lamentato del fatto che «l’economia ha incoraggiato modi di pensare che hanno reso le crisi più probabili» e ha chiesto una rivoluzione intellettuale.
Ci sono certamente segnali di cambiamento, ma è necessaria più di una rivoluzione teorica. Un discorso economico che enfatizza l’austerità e una visione limitata della crescita dovrebbe essere sostituito da uno che critica il capitalismo di rendita, dà priorità alla ridistribuzione e ridefinisce lo scopo dell’economia.
Da ciò deriva una serie di politiche. Durante il New Deal, il potere delle imprese era visto come una minaccia per la democrazia americana e per il dinamismo economico. Negli anni Settanta, l’opinione prevalente era che le grandi imprese portassero benefici ai consumatori grazie alla riduzione dei prezzi e che il successo aziendale fosse meglio misurato dal valore per gli azionisti.
Questo approccio deve essere messo in discussione. Il potere monopolistico porta a un «surrogato di capitalismo», con il dominio di pochi attori oligopolistici, derivante sia dal declino della regolamentazione antitrust sia dalla crescita del «capitale immateriale», che non ha gli stessi limiti alle economie di scala del capitale materiale e fisico. Uno dei risultati è l’aumento del divario tra i rendimenti del capitale e del lavoro, con una crescita del reddito reale delle famiglie molto inferiore rispetto al passato.
Queste tendenze sono peggiorate negli Stati Uniti e devono essere invertite riformando le imprese per passare dal valore per gli azionisti al valore per tutti gli attori che interagiscono con le imprese, adattando i mercati del lavoro per ridurre la precarietà, creando comunità più resilienti e modificando i sistemi fiscali per equiparare la tassazione del capitale a quella sul reddito e per impedire il trasferimento dei profitti verso sistemi a bassa tassazione. I comportamenti di ricerca di rendita dovrebbero essere scoraggiati de-finanziarizzando l’economia e garantendo che i rischi finanziari non riemergano per minarla. Inoltre, i flussi di capitale dovrebbero essere monitorati più attentamente per evitare il rischio di una nuova crisi del debito nei mercati emergenti. La crescita non è il risultato di maggiori incentivi per i redditi elevati; l’indebolimento del potere dei lavoratori riduce solo la necessità di investire in una maggiore produttività. La crescita deve essere ridefinita convertento l’ossessione per il PIL – una misura dei flussi – in una misura che tenga conto della preoccupazione per l’esaurimento delle risorse mondiali.
L’ascesa della Cina come seconda economia mondiale ha creato gravi tensioni geopolitiche: guerre commerciali, dibattiti sul futuro delle valute internazionali, richieste di disaccoppiamento delle catene di approvvigionamento, preoccupazioni per i prestiti opachi ai mercati emergenti e il rischio di blocchi economici concorrenti. A differenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti e la Cina sono geopoliticamente antagonisti ed economicamente interdipendenti. Un problema importante è che questa interdipendenza è essa stessa problematica, in quanto si basa su squilibri tra le due economie e al loro interno: negli Stati Uniti, la stagnazione dei redditi di molte famiglie porta al ricorso al credito per mantenere i consumi e al “privilegio esorbitante” del dollaro per pagare le importazioni; d’altro canto, la Cina ha un livello di risparmio straordinariamente alto per compensare un sistema di sicurezza sociale carente. Il risultato è un basso consumo interno, investimenti improduttivi e dipendenza dalle esportazioni.
È necessaria una ridistribuzione all’interno delle due economie per porre fine alla dipendenza degli Stati Uniti dai consumi alimentati dal debito e per incoraggiare i consumi cinesi migliorando il sistema di previdenza sociale e aumentando il potere contrattuale dei lavoratori. Il risultato sarebbe uno squilibrio nell’economia globale che attenuerebbe (ma non eliminerebbe) le tensioni geopolitiche. Nessun cambiamento nelle economie nazionali sarà facile, data la disfunzione del sistema politico statunitense e gli interessi radicati in Cina.
Nell’era del neoliberismo e dell’iperglobalizzazione, le istituzioni internazionali hanno promosso i flussi di capitale globale e il libero scambio senza prestare sufficiente attenzione alle conseguenze distributive. Ci sono stati dei vincitori, con una classe media in crescita in Asia, ma anche dei perdenti nel Nord, che hanno portato a una reazione populista anti-globalizzazione. Dobbiamo abbandonare la ricerca di «accordi che rafforzino la globalizzazione» e tornare all’equilibrio di Bretton Woods, quello che Dani Rodrik definisce un «equilibrio sano e ragionevole tra governance»; piuttosto che insistere su nuovi accordi commerciali e sulla liberalizzazione finanziaria, il FMI e l’OMC dovrebbero concentrarsi sul monitoraggio delle relazioni tra i blocchi commerciali e sulla garanzia della stabilità del sistema finanziario globale. Ci sono già segnali che indicano che stanno esaminando la tassazione internazionale e il ruolo del cambiamento climatico, ma dobbiamo andare oltre.
La FAO e l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state emarginate dopo la guerra, ma le loro missioni sono ora cruciali per affrontare l’insicurezza alimentare, le malattie zoonotiche e il degrado ambientale. Abbiamo bisogno di un “multilateralismo disordinato” di reti flessibili che riconoscano la sovranità degli Stati e che possano stipulare accordi tra partner volenterosi. Nel 2018, Tharman Shanmugaratam, vice primo ministro di Singapore e presidente del Gruppo di governance finanziaria globale del G20, ha sostenuto che è necessario un «nuovo ordine internazionale cooperativo» per un mondo «più multipolare, più decentrato nel processo decisionale e tuttavia più interconnesso». È necessario collaborare in diversi settori in risposta a problemi specifici, a partire dalle politiche nazionali per gestire il divario tra vincitori e vinti. Elinor Ostrom, la principale teorica dell’azione collettiva, è consapevole che un approccio policentrico ha maggiori probabilità di successo rispetto al tipo di accordo internazionale raggiunto a Bretton Woods.
Nel 1933, Keynes rifletteva sulla crisi della Grande Depressione, nata dal capitalismo individualista: «Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso – e non funziona come ci si aspettava… Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi». Le istituzioni internazionali che egli ha contribuito a creare sono nate in un contesto geopolitico molto diverso, che rende implausibile l’idea di una nuova Bretton Woods. Ciò che rimane costante è la nostra perplessità su come affrontare i fallimenti del capitalismo individualista. La crisi finanziaria globale del 2008 non ha fornito una risposta: è essenziale non ripetere questo errore.