La prima domanda è necessaria per inquadrare bene il tema di cui ci occupiamo, che è il Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, principale programma finanziato a livello europeo con i fondi del Next Generation Eu, circa 191 miliardi di euro. Come nasce e quali sono le motivazioni che portano l’Italia a diventare il primo paese per fondi stanziati?

Andrea Capussela

Il piano europeo è importante soprattutto per contrasto rispetto alla risposta dell’Unione e degli Stati membri alla crisi finanziaria globale, alla recessione e alla crisi del debito sovrano del 2008. In quel caso la risposta fu tarda, timida, di natura tale da rompere la solidarietà tra paesi debitori e paesi creditori, secondo le categorie che si utilizzavano all’epoca. Alla pandemia è stata data invece una risposta di natura qualitativamente diversa: la solidarietà europea è stata forte e si è deciso di ricorrere al debito comune per finanziare gli investimenti dei Paesi membri. Certo, non c’è stato un percorso verso beni pubblici europei come alcuni auspicavano, probabilmente anche per una questione di tempo necessario a calibrare un progetto del genere, ma possiamo definire certamente un passo avanti il finanziamento e il trasferimento di risorse dall’Unione agli Stati sorretto da debito comune.

La direzione del piano è quella ovvia: transizione verde, transizione digitale, inclusione e coesione. E ciò che è importante, indirettamente, è che chiude un capitolo del dibattito sugli eurobond che va avanti da circa quindici anni: oggi abbiamo dei titoli europei che sostengono un programma di investimenti. Alcuni potrebbero vederci una qualche forma di unione fiscale, di tipo però temporaneo. È possibile interpretarla anche in altri modi, ma sicuramente questa iniziativa avrà un impatto sul futuro di questo dibattito: se avrà successo, sarà un argomento a favore di chi in futuro spingerà verso una maggiore unione fiscale, naturalmente appoggiata a una più forte unione politica; se sarà un insuccesso, darà sostanza ad argomenti contrari a questa prospettiva. La situazione italiana è cruciale perché il successo si misurerà soprattutto in Italia, essendo da un lato il principale destinatario dei fondi mobilitati da Next generation Eu, dall’altro il vero malato d’Europa da più di un decennio.

La situazione italiana è cruciale perché il successo si misurerà soprattutto in Italia, essendo da un lato il principale destinatario dei fondi mobilitati da Next generation Eu, dall’altro il vero malato d’Europa da più di un decennio

Andrea capussela

Carlo Alberto Carnevale Maffè

È interessante questo potenziale momento hamiltoniano per l’Europa di cui parlava Andrea Capussela. Prima ancora che per l’unione fiscale, direi che Next Generation Eu rappresenta la premessa per un piano di creazione di beni pubblici europei, a sua volta logicamente, filosoficamente, se volete anche politicamente, premessa dello strumento finanziario. Esiste la possibilità di creare beni pubblici europei? Per me sì, e questo è cominciato con le politiche di acquisto comune del vaccino: ero parte della task force italiana sul Covid e ho partecipato a livello europeo alle discussioni per l’istituzione di un green pass europeo, esattamente una tipologia di public good continentale, perché ha rappresentato uno strumento molto più efficiente a livello europeo rispetto a ventisette formati diversi. Parlo di momento Hamilton, perché al di là del merito, cioè i soldi, c’è un metodo comune, ovvero l’impact investing: l’idea che i finanziamenti siano vincolati e funzionali a un obiettivo e vengano erogati sulla base del suo raggiungimento. Qui cambia il ruolo dell’Unione europea, che non è soltanto un emettitore di debito, ma più propriamente un erogatore di finanziamenti a fronte di progetti condivisi e governati bilateralmente dallo Stato beneficiario e dalla Commissione. Questo principio è già hamiltoniano, introduce un metodo del tutto nuovo. 

Bisogna dunque giudicare il PNRR italiano alla luce di due punti. 

Il primo è naturalmente quello finanziario, la questione di quanti soldi l’Italia riuscirà a spendere non è secondaria. Si possono avere opinione diverse sul tema, ma per me i soldi saranno in ogni caso spesi male perché sono allocati male. La scelta del governo Conte II, che ha negoziato il piano originale nel 2020, fu una scelta di bulimia finanziaria: richiese circa 200 miliardi di euro senza avere al contempo buone idee su come spenderli con moltiplicatore positivo. Il PNRR ammette con candore disarmante che l’Italia spenderà duecento miliardi con un moltiplicatore medio inferiore all’uno. Ammettiamo dunque che il rapporto costi benefici non è razionale, e già questo mi sembra un enorme limite. 

È un momento Hamilton, perché c’è un metodo comune, ovvero l’impact investing: l’idea che i finanziamenti siano vincolati e funzionali a un obiettivo e vengano erogati sulla base del suo raggiungimento. Qui cambia il ruolo dell’Unione europea, che non è soltanto un emettitore di debito, ma più propriamente un erogatore di finanziamenti a fronte di progetti condivisi e governati bilateralmente dallo Stato beneficiario e dalla Commissione.

carlo alberto carnevale maffè

Il secondo è quello del metodo, che invece mi sembra molto positivo. Ciò che rimane del PNRR è l’impianto di un programma di spesa composto da target, milestone, governance condivisa ed erogazione dei fondi a fronte di ottenimento dei risultati, a cui si aggiunge la premessa di portare a termine delle riforme e non semplicemente dei progetti di realizzazione. Questo guadagno istituzionale è indubbio, al di là delle dimensioni effettive del piano a livello continentale, perché qualche centinaio di miliardi nell’economia europea è una goccia nel mare. Il metodo rimane molto interessante ed è un gradino importante, istituzionale, che l’Europa ha salito e speriamo che non ridiscenda. Questo è già un successo, è già una strada che secondo me non avrà ritorno.

Il giudizio nel merito dei risultati ottenuti dall’Italia è ancora aperto. Sia sulla capacità effettiva di spesa sia sulle riforme, perché il piano non prevede soltanto una dimensione monetaria, ma la prevede in funzione delle riforme: i soldi servono per dare loro corpo e sostanza. È il disegno generale che dobbiamo guardare, non la lista della spesa.

Andrea Capussela

La dimensione totale degli investimenti, i famosi 191 miliardi, sono un punto su cui effettivamente si può discutere, e sul quale, almeno finora, non abbiamo assistito a un grande dibattito, né durante il governo Conte né durante il governo Draghi che avrebbe potuto rivedere questa scelta. Sarebbe stato invece importante interrogarsi sul quantitativo di fondi che adesso bisognerà spendere, anche perché oltre alle risorse europee sono stati stanziati circa 40 miliardi di fondo complementare italiano. Stiamo mettendo tutte le uova in un paniere ed è una scelta rischiosa, non sono in grado di dire se è stata giusta o sbagliata, ma rischiosa senz’altro. Allo stesso tempo vorrei sottolineare un fatto: le analisi analisi della Banca d’Italia ci dicono che l’economia italiana, subito prima della fine della pandemia e adesso nella ripresa postpandemica, sta vivendo una fase di grande vitalità. Ciò avviene soprattutto nel settore manifatturiero, naturalmente, dove le esportazioni sono in crescita e in salute. 

Le due tremende crisi degli ultimi anni, quella del debito sovrano e quella pandemica, hanno paradossalmente portato una scossa su un malato che ristagnava da due decenni, un cambiamento che ha generato una riallocazione di risorse. Capitale e lavoro hanno iniziato finalmente a spostarsi verso i settori più promettenti e verso le imprese che hanno le spalle per affrontare le sfide dell’attuale paradigma tecnologico. L’Italia produce metà del valore aggiunto grazie a 25mila imprese con più di cinquanta addetti, la cui produttività media è su livelli tedeschi. Questo segmento industriale impiega circa sei milioni di addetti. L’altra metà del valore aggiunto è composto da 4,3 o 4,4 milioni di micro imprese che impiegano il doppio degli addetti: contano dunque metà della produttività delle prime. Perché non sono produttive? Perché nell’attuale paradigma tecnologico essere una microimpresa tipicamente ti mette indietro rispetto agli altri.

L’Italia produce metà del valore aggiunto grazie a 25mila imprese con più di cinquanta addetti, la cui produttività media è su livelli tedeschi

andrea capussela

La vitalità che vediamo deriva proprio dal fatto che stiamo vedendo riallocazione verso le imprese più forti, ed è un ottimo segno. Sappiamo che la riallocazione non è un processo indolore, e funziona meglio in un’economia che sta crescendo, quindi l’idea di fare un big push ha senso, pur consapevoli che per via della nostra debole capacità di assorbimento gran parte dei fondi del PNRR sarà spesa in modo inefficiente. Però ha un senso l’idea di un grande investimento che stimoli la risposta positiva dell’economia.

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Concordo, assistiamo all’effetto del “grande vecchio dell’inverno” al contrario. Tutti vedono che il grande vecchio del villaggio taglia la legna durante l’autunno, dunque si aspettano un inverno brutto, e lo imitano. In questo caso l’imitazione è positiva: se tutti i miei concorrenti si accorgono che io sto investendo, sono portati a compiere scelte simili, e si innesca il meccanismo virtuoso di cui l’economia italiana aveva bisogno. 

Ne parlava Corrado Passera da ministro delle Sviluppo economico ormai dieci anni fa: lui sosteneva che l’Italia avesse bisogno di una un’iniezione di “adrenalina finanziaria”, non tanto preoccupato dal merito di eventuali investimenti, quanto proprio per il segnale di rinascita che questi avrebbero comportato. Ciò che sottolinea Capussela è giusto, basta guardare i grafici della crescita degli investimenti, che non sono in doppia cifra, ma a tassi che non si vedevano da tantissimo tempo. Il grafico dello studio di Banca d’Italia è molto chiaro in questo senso: il tasso degli investimenti medi previsto nel 2022, 2023, 2024 è nettamente superiore alla media storica degli ultimi vent’anni. 

basta guardare i grafici della crescita degli investimenti, che non sono in doppia cifra, ma a tassi che non si vedevano da tantissimo tempo

carlo alberto carnevale maffè

Nella stesura di un piano di più di 200 miliardi di spesa finanziata da fondi pubblici in soli 6 anni, che si affiancano al normale bilancio dello Stato, si presuppone una capacità strategica molto fine da parte del governo. Come valutate le scelte strategiche compiute dal governo Conte II e poi leggermente modificate dal governo Draghi? 

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Purtroppo le valuto in modo negativo. La prima cosa che consigliai al governo Draghi proprio nei suoi primi giorni, quando Palazzo Chigi riscrisse in parte il piano ereditato da Conte, che non lo aveva ancora terminato e discusso con la Commissione, era di stravolgere il suo impianto. Sono sempre stato convinto che la strada giusta non era conferire la gestione e la spesa di tutte le risorse alla pubblica amministrazione, ma creare delle forme di collaborazione tra pubblico e privato, con dei partenariati (PPP) o con dei crediti d’imposta, in modo da rendere tutto più rapido e razionale. A un euro pubblico doveva corrispondere un euro privato, un approccio che avrebbe avuto da un lato una moltiplicazione importante, dall’altro tempi certi. La pubblica amministrazione non ha le risorse umane per spendere questi soldi, è inutile illuderci, ed è un limite di cui eravamo ben coscienti, non è una sorpresa. Bisognava usare quei soldi come spesa pubblica di trascinamento di spesa privata, invece così purtroppo non è stato per gran parte del piano.

Andrea Capussela

Io ho un po’ una perplessità, come dire, di fondo, teorica, su questo approccio. In un certo senso è dagli anni Trenta che noi stiamo bypassando la pubblica amministrazione nella gestione degli investimenti. È una storia antica, intendiamoci: Benito Mussolini crea l’IRI, l’istituto della ricostruzione industriale, proprio perché non si fida dei ministeri, e l’IRI per carità ha fatto molto bene fino agli anni sessanta. Tuttavia questa ricorrente inclinazione a ritenere inefficiente e inadeguata la pubblica amministrazione la rende strutturalmente tale: è impossibile che cambi se non le viene data la possibilità di farlo. Forse è il caso di bruciarsi i ponti dietro le spalle, affidare il piano alla pubblica amministrazione e nel frattempo provare a sistemarla.

È impossibile che la pubblica amministrazione cambi se non le viene data la possibilità di farlo. Forse è il caso di bruciarsi i ponti dietro le spalle, affidare il piano alla pubblica amministrazione e nel frattempo provare a sistemarla

andrea capussela

Ed è qui un punto nel quale si vede la complementarietà tra i programmi di investimento e le riforme. Perché il piano è molto chiaro in questo senso: gran parte della crescita potenziale viene dalle riforme e in particolare dalla riforma della pubblica amministrazione. Ora, negli ultimi trent’anni l’Italia ha avuto quattro grandi riforme della pubblica amministrazione: Cassese, Bassanini, Brunetta, Madia. Nessuna di queste ha risolto veramente i problemi, eppure mi risulta difficile sostenere che fossero visibilmente inadeguate. Cosa non ha funzionato allora? Probabilmente non c’era una vera visione politica sostenuta da una coalizione di cambiamento forte abbastanza da cambiare le aspettative di milioni di imprese, di cittadini e di lavoratori che entrano in contatto con la pubblica amministrazione, senza parlare di chi ci lavora.

La domanda da porsi oggi, dunque, è la seguente: dietro la nuova riforma c’è questa visione? Forse no.

Carlo Alberto Carnevale Maffè

L’idea di «quemar las naves» come Fernando Cortés, che arriva in America e invita i suoi uomini a bruciare le navi per mettere in chiaro che non si può tornare indietro, è giustissima dal punto di vista della teoria della leadership, ma si scontra forse con lo stato attuale della pubblica amministrazione e il pochissimo tempo che abbiamo a disposizione per spendere tutte le risorse. Non c’era tecnicamente il tempo del ciclo di accumulo del capitale umano necessario alla realizzazione del piano, anche perché le risorse umane in grado di affrontare dossier molto specifici come il digitale e la transizione ecologica sono quasi inesistenti. Non abbiamo le professionalità, non è questione di riforma. 

Tra l’altro per recuperare il gap il pubblico è entrato in concorrenza con il privato in un momento di grande scarsità di profili di questo tipo, dimostrando poca lungimiranza. Era chiaro che il riorientamento sulla digitalizzazione e sulla transizione ecologica imposto dall’Unione europea avrebbe costretto le imprese, già in carenza di manodopera qualificata, a dotarsi di competenze digitali e green. E lo Stato, invece di rafforzare quella domanda privata di persone dando crediti d’imposta e partnership pubblico-privato, si è affacciato sullo stesso segmento di mercato del lavoro generando un danno alle imprese. Peraltro senza essere davvero competitivo, perché i salari che offre sono più bassi e soprattutto i contratti sono a tempo determinato.

Non c’era tecnicamente il tempo del ciclo di accumulo del capitale umano necessario alla realizzazione del piano, anche perché le risorse umane in grado di affrontare dossier molto specifici come il digitale e la transizione ecologica sono quasi inesistenti

carlo alberto carnevale maffè

Andrea Capussela

I limiti sono evidenti, malgrado quello che dicevo prima, e cioè che forse un rischio era necessario assumerlo nel provare a migliorare la situazione della pubblica amministrazione. A questo aggiungerei un argomento ulteriore: la tensione tra questo piano e l’incapacità della pubblica amministrazione di gestirlo porta poi il governo a compiere decisioni contraddittorie e tendenzialmente dannose. Hai paura di essere in ritardo? Vedi che la pubblica amministrazione non risponde come volevi? Allora modifichi le regole degli appalti elevando i limiti della trattativa privata, decuplicandoli,  per cui a questo punto si faranno gare soltanto per progetti dal valore superiore ai 5,5 milioni di euro. Questo è un enorme problema in un paese dove la corruzione non è ignota, dove la rule of law è deboli su livelli quasi balcanici, questo è problematico.

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Il punto è anche il prisma con il quale la politica guarda i progetti pubblici. Cito un caso che è la campagna vaccinale, che ho visto da vicino perché facevo parte della task force del governo. In quel periodo noi avevamo proposto di fare come in Inghilterra o in Germania, cioè utilizzare tutte le risorse pubbliche e private a disposizione per portare a termine la campagna vaccinale nel minor tempo possibile. Invece Domenico Arcuri (commissario straordinario del governo Conte incaricato di gestire l’emergenza pandemica, nda) decise di assumere 30mila infermieri specificamente per la campagna vaccinale, da condurre in delle strutture apposite costruite nelle piazze delle città italiane, le cosiddette “primule”. 

Nel suo approccio c’era prima la spesa pubblica dedicata al progetto della campagna vaccinale in sé, insomma aveva invertito le priorità. Per fortuna il cambio di governo e la sostituzione di Arcuri con il generale Figliuolo ha cambiato l’approccio, e la vaccinazione è stata fatta ovunque: farmacie, palasport, asl, ospedali, permettendo a  chiunque fosse capace di tenere in mano una siringa di vaccinare. Se avessimo lasciato tutto in mano alla pubblica amministrazione per metterla alla prova avremmo guadagnato in efficienza? Non credo proprio.

Il PNRR non è soltanto costituito dai programmi di spesa, ma anche da riforme: come giudicate l’avanzamento di questo capitolo, in particolare in materia di concorrenza e di giustizia? L’Italia ha fatto passi in avanti su questi dossier?

Andrea Capussela: secondo me è il maggior punto dolente. Una delle ragioni per le quali c’è poca riallocazione in Italia, dove una miriade di imprese inefficienti non escono dal mercato, è che nel settore dei servizi internazionalmente non commerciabili noi abbiamo un livello di concorrenza che comparato ai nostri pari è molto basso. Lo si vede dal mark up, i margini di profitto sui costi. Da noi è di circa il 60%, nei medesimi settori nel resto dell’area euro è il 35%, per non parlare poi dei settori invece esposti alla concorrenza, dove il margine è molto più basso, 15 o 17%. È una situazione molto negativa per l’economia italiana, perché la bassa concorrenza tende a elevare i prezzi, a ridurre la produttività e dunque l’occupazione. Secondo la Banca d’Italia, se raggiungessimo i livelli di intensità di concorrenza dell’area euro l’effetto sarebbe notevole, la stima è un aumento permanente di Pil dell’11% su cinque anni. Per questo il tema della concorrenza è cruciale: nel lungo periodo rende l’economia più dinamica, e la crescita potenziale aumenta. 

Il tema della concorrenza è cruciale: nel lungo periodo rende l’economia più dinamica, e la crescita potenziale aumenta

Andrea capussela

Tutta questa premessa per dire che quando si discute della riforma della concorrenza forse abbiamo una percezione un po’ fuorviante. I media parlano spesso dei balneari e degli ambulanti, ed è giusto mettere alla berlina il governo perché difende queste rendite inaccettabili1. Tuttavia, un governo che fa delle battaglie per difendere settori marginali, sarà evidentemente ancora più restio ad aprire alla concorrenza altri settori che hanno capacità di persuasione e di lobbying molto superiore. 

Le riforme sono complementari agli investimenti del piano, anche guardandolo dalla prospettiva di big push di cui parlavamo prima: se l’iniezione di capitale è utile per la riallocazione, ciò che la stabilizza è in realtà soprattutto la concorrenza e l’eliminazione degli incentivi che spingono le imprese a rimanere micro. Invece il governo fa l’occhiolino all’evasione fiscale, toglie i limiti dagli appalti estendendo la trattativa privata ed è evidentemente ostile a un’idea di apertura alla concorrenza. Il punto è problematico perché le aspettative degli imprenditori, che devono decidere se procedere a fusioni o acquisizioni, o riallocare risorse, si basano anche sul modo di agire del decisore pubblico. I segnali non sono positivi

Se è vero quello che abbiamo detto all’inizio su quanto è importante il piano per l’Italia, per l’Europa, il governo secondo me se la sta cavando un po’ troppo con questi ritardi e soprattutto con queste incertezze sulle riforme. Dovrebbe essere incalzato dall’opinione pubblica e anche dall’opposizione. 

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Il dibattito sui balneari è paradigmatico: tuteliamo l’iperframmentazione mentre dovremmo prendere spunto dalla Spagna, che ha la metà delle nostre coste utilizzabili, ma una capacità di attrarre traffico internazionale che è il doppio della nostra. Perché lì c’è stata una saldatura fra servizi costieri, infrastrutture urbane e investimenti da parte di multinazionali, che ha comportato un effetto trascinamento, dove il piccolo stabilimento balneare beneficia della vicinanza del grande pool gestito professionalmente. Il dibattito in Italia al contrario tende in primis a tutelare rendite e posizioni iper frammentate.

Il dibattito sui balneari è paradigmatico: tuteliamo l’iperframmentazione

carlo alberto carnevale maffè

In questo contesto è interessante spiegare il ruolo delle partecipate di Stato: quanto conterà la capacità di queste grandi aziende, delle quali il governo ha appena scelto la governance per i prossimi anni, di aiutare l’esecutivo nella gestione del PNRR?

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Vorrei fare in primo luogo una precisazione lessicale: non ci troviamo di fronte a nomine governative per il management apicale, ma a delle candidature che saranno poi confermate dal voto dell’assemblea, che è sovrana. Il fatto che il governo parli di nomine e l’opinione pubblica lo accetti è rivelatore: la cultura della governance è inesistente in Italia. Detto ciò, la qualità del management delle aziende controllate dal pubblico è nettamente migliorata rispetto a dieci o quindici anni fa, quando invece il criterio della competenza e capacità appariva meno importante rispetto a quello dell’appartenenza politica. 

Tuttavia, anche qui vorrei sottolineare un’occasione persa: sarebbe stato molto meglio utilizzare il veicolo delle grandi aziende per aprire l’economia agli investimenti internazionali, favorendo un loro allargamento e sprovincializzazione anche facendole partecipare a gare internazionali, a progetti che andassero oltre il contesto italiano. Invece abbiamo deciso di puntare su un modello di spesa domestica, utilizzando queste imprese in chiave esclusivamente nazionale. Bisogna dire che l’Unione europea non ha incentivato questo processo, ma ha spinto gli Stati a spendere sul proprio territorio più o meno ispirati alle linee guida della Commissione. Gli attori delle grandi imprese italiane, e parlo anche di quelle europee, si sono concentrati sui fondi nazionali da spendere invece di cogliere l’occasione di abbattere le barriere e costruire campioni europei, come era invece possibile grazie alle risorse reperite sul mercato. 

Gran parte dei fondi italiani non è gestita dall’amministrazione centrale, ma dagli enti locali, che stanno incontrando notevoli difficoltà nell’implementazione. È stato un errore affidarsi a questo livello di decentramento amministrativo?

Andrea Capussela

L’idea di utilizzare in larga parte bandi per allocare le risorse, e di guardare soprattutto ai comuni piuttosto che alle regioni, può essere criticata, perché in questo modo il governo non si prende la responsabilità di decidere dove andranno i fondi sulla base della visione che ha del futuro del Paese, ma semplicemente mette a disposizione i soldi e gli enti locali con le idee migliori e la capacità di realizzarle vincono i bandi. Si crea certo concorrenza tra diversi organismi politici locali, ma dubito che questo abbia conseguenze positive, perché il risultato è di confermare divergenze già esistenti. Guardiamo cos’è successo con gli asili nido, che peraltro sono legati a un tema gravissimo che è quello della bassa occupazione femminile, uno dei tanti freni al potenziale di crescita del Paese. 

L’idea di utilizzare in larga parte bandi per allocare le risorse, e di guardare soprattutto ai comuni piuttosto che alle regioni, può essere criticata, perché in questo modo il governo non si prende la responsabilità di decidere dove andranno i fondi sulla base della visione che ha del futuro del Paese

andrea capussela

Pochissimi comuni hanno risposto ai bandi per costruire queste strutture, e molti di quelli che lo hanno fatto avevano già una buona copertura. Abbiamo dunque dato fondi a chi aveva meno bisogno, mentre chi era indietro magari ha perso le gare perché non aveva le competenze per parteciparvi, o semplicemente non ha fatto richiesta. Qualcuno sostiene che molti comuni non hanno partecipato ai bandi perché non avevano domanda di nuovi asili, ma anche questa è una visione distorta: la mancanza di domanda è una questione endogena, può essere risolta rendendo disponibile il servizio.

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Su questo dossier l’effetto regressivo è stato evidente, perché con questo sistema hai dato i soldi a chi li sa spendere. Guarda Milano: è comprensibile che il sindaco Sala chieda più fondi perché ha le capacità per spenderli, mentre i comuni più piccoli, magari tagliati fuori dalle grandi agglomerazioni, non hanno semplicemente la competenza per partecipare ai bandi, o per utilizzare i fondi. Dunque, l’effetto regressivo è evidente, perché i fondi sono andati ai comuni ricchi, allargando il divario invece che ridurlo. Io avrei preferito piccole allocazioni comunali molto mirate e standardizzate mentre avrei concentrato le risorse, come hanno fatto Germania e Francia, in tre o quattro filiere industriali, tecnologiche o logistiche affidandomi alle regioni. Il comune ha un raggio d’azione che non è compatibile con un progetto europeo, i soldi europei servono a saldare l’Italia con l’Europa non per mettere l’asilo nido in un minuscolo comune periferico. Per quello bastano i fondi nazionali! 

l ministro degli Affari europei e del PNRR, Raffaele Fitto, a fine aprile ha detto chiaramente in Parlamento che alcuni progetti non saranno completati entro la scadenza del 2026. Voi dicevate che ancora non è possibile definire il piano un successo o un insuccesso, però questa ammissione di incapacità non sembra molto promettente…

Andrea Capussela

Questo governo sta gestendo il dossier con un troppa leggerezza, le mosse sulle riforme cruciali non sono particolarmente rassicuranti, l’opinione pubblica e l’opposizione dovrebbero esercitare una pressione maggiore sull’esecutivo affinché questo rispetti le scadenze. Anche sulla rinegoziazione ho qualche critica: si poteva cambiare il piano entro la fine di aprile, come hanno fatto Germania, Finlandia, e Lussemburgo, mentre l’Italia non è stata in grado di formulare una proposta. I tre paesi che invece hanno rinegoziato alcuni aspetti lo hanno fatto in modo trasparente, hanno spiegato alla Commissione che l’inflazione, la guerra e la congiuntura economica hanno cambiato le carte in tavola e si sono comportati di conseguenza. Perché invece il governo ha detto di voler rinegoziare il piano, ma poi non ha inviato la sua nuova proposta? In questo ambito esiste una mancanza di trasparenza preoccupante.

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Aggiungerei che la trasparenza non è un appello morale, è un prerequisito del dibattito pubblico, che vive di dati, di scadenze, di rendicontazione. Non dovrebbe neanche essere in discussione che ogni progetto e il suo stato di avanzamento siano consultabili su un portale apposito: parliamo sempre e comunque di  debito che l’Italia dovrà restituire, non di un regalo.

Oggi, in Italia, non abbiamo un’informazione completa sullo stato avanzamento del più grande impianto di spesa pubblica del dopoguerra. È effettivamente preoccupante

Carlo alberto carnevale maffè

Il controllo all’azione di governo si fa coi numeri, altrimenti viviamo soltanto di polemiche e di guerre di religione. Oggi, in Italia, non abbiamo un’informazione completa sullo stato avanzamento del più grande impianto di spesa pubblica del dopoguerra. È effettivamente preoccupante.

Note
  1. Dal 2006, anno di entrata in vigore della Direttiva europea Bolkestein sulla concorrenza, l’Italia dovrebbe bandire gare per le concessioni di suolo pubblico «trasparenti e non discriminatorie» per la loro assegnazione. Nessun governo lo ha mai fatto, prorogandole ogni anno: questa norma si applica in particolare alle concessioni degli stabilimenti balneari, che occupano suolo pubblico senza dover sottostare a gare competitive, e pagano allo Stato un canone molto basso. Nel 2020 l’Italia ha ottenuto 92 milioni di euro per 12.166 concessioni. Il governo Meloni aveva prorogato le attuali concessioni fino alla fine del 2024, ma lo scorso marzo il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo il provvedimento del governo, seguito da una decisione simile della Corte di Giustizia dell’Unione Europea lo scorso aprile. L’esecutivo non ha tuttavia ancora detto in che modo e quando pubblicherà i bandi per rispettare le sentenze del tribunale italiano e di quello europeo