«J’ai toujours pensé que l’Europe se ferait dans les crises, et qu’elle serait la somme des solutions qu’on apporterait à ces crises»

«Ho sempre pensato che l’Europa si farà nelle crisi e che sarà la somma delle soluzioni che si daranno a queste crisi»

Jean Monnet, Mémoires, Parigi, Fayard, 1976, p. 488

«Quand vous êtes dans l’orage, il faut le traverser, et surtout ne pas changer de direction – c’est le seul moyen d’en sortir bien»

«Quando ci si trova in una tempesta, bisogna attraversarla, e soprattutto non si deve cambiare direzione – è il solo modo per uscirne bene»

Jean Monnet, nota manoscritta non datata, Losanna, Fondation Jean Monnet pour l’Europe, Archivi di Jean Monnet  

L’opinione che le crisi siano un fattore propulsivo per l’integrazione europea è molto diffusa e ripetuta, spesso con riferimento alla celebre predizione di Jean Monnet che «l’Europa si farà nelle crisi» e sarà la «somma delle soluzioni» a queste crisi. Certamente questi ultimi anni ci stanno offrendo ampie opportunità di mettere alla prova tale teoria. Con la pandemia di COVID-19, il mondo intero è stato sottoposto a una delle più grandi emergenze sanitarie dei tempi moderni. E mentre ancora non si erano spente le conseguenze umane ed economiche della pandemia, l’intensificarsi della guerra in Ucraina in seguito all’aggressione russa del febbraio 2022 ha creato una nuova gravissima crisi geopolitica e umanitaria nel cuore dell’Europa. Come hanno risposto le istituzioni europee a queste crisi? 

Benché sia ancora presto per valutare l’efficacia delle risposte europee alla pandemia e alla guerra nel lungo termine, va riconosciuto che, nel complesso, l’Unione europea e i suoi Stati membri hanno reagito in modo più deciso e unitario di quanto si aspettassero molti osservatori del progetto europeo1. Per ricostruire l’Europa dopo la pandemia, i governi europei hanno approvato in tempi rapidi NextGenerationEU, uno strumento temporaneo che prevede circa 800 miliardi di euro in nuovi investimenti, concepito per stimolare la ripresa economica ma anche per trasformare le società europee nel più lungo periodo. Secondo la Commissione europea, tali fondi, uniti al bilancio a lungo termine dell’Unione europea per il 2021-2027, ammontano a oltre 2000 miliardi di euro e costituiscono «il più ingente pacchetto di misure di stimolo mai finanziato in Europa»2. Tra le maggiori novità è il fatto che, per ottenere i fondi necessari, la Commissione europea sia stata autorizzata a indebitarsi direttamente sui mercati finanziari per conto dell’Unione europea. Inoltre, circa metà dei fondi di NextGenerationEU non sono distribuiti ai paesi membri come prestiti ma come sovvenzioni. Insomma, si può dire che si siano fatti passi sostanziali verso un’unione fiscale, come da tempo auspicato dai sostenitori del progetto europeo.

Sono stati fatti passi sostanziali verso un’unione fiscale, come da tempo auspicato dai sostenitori del progetto europeo

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Anche la risposta iniziale dell’Unione europea all’invasione russa dell’Ucraina è stata più univoca e solidale di quanto molti – compreso probabilmente lo stesso Putin – si aspettassero, data una lunga storia di approcci spesso contraddittori dei diversi governi europei nei confronti del regime russo. Con poche eccezioni, gli Stati membri hanno concordato su sanzioni alla Russia e aiuti militari all’Ucraina e accolto milioni di profughi ucraini. Ed è notevole che gli aiuti militari all’Ucraina siano stati erogati non solo dagli Stati membri ma anche tramite meccanismi europei come lo “Strumento europeo per la pace”.

Questi sviluppi sono stati visti da molti come conferma della predizione di Monnet. Secondo questa interpretazione ottimistica, l’Europa starebbe reagendo alle tempeste della pandemia e della guerra come Monnet avrebbe voluto: andando dritta verso la strada della solidarietà e dell’integrazione non solo economica ma anche politica e strategica. Se ciò fosse vero, i governi europei avrebbero infine appreso la lezione della maggiore crisi prima della pandemia e della guerra, la cosiddetta “crisi del debito sovrano europeo”, che si era trascinata per gran parte della seconda decade di questo secolo senza che i governi e le istituzioni europee adottassero da subito misure rapide ed efficaci. 

Secondo un’interpretazione ottimistica, l’Europa starebbe reagendo alle tempeste della pandemia e della guerra come Monnet avrebbe voluto: andando dritta verso la strada della solidarietà e dell’integrazione non solo economica ma anche politica e strategica

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Nel mezzo di quella tempesta finanziaria ed economica, si erano levate voci contrastanti riguardo alle sue cause e ai suoi rimedi. Da un lato, i critici del progetto di integrazione europea avevano interpretato i problemi della zona euro come conferma che formare un’unione monetaria ed economica tra paesi così eterogenei economicamente e culturalmente fosse stato un errore e che la migliore soluzione sarebbe stata un ritorno a stati nazionali completamente sovrani. Dall’altro lato, i sostenitori dell’euro e dell’integrazione europea pensavano che il vero problema scaturisse dall’incompletezza delle istituzioni europee, spesso descritte come una «casa costruita solo a metà»3. La soluzione sarebbe venuta da più integrazione sovranazionale: un’unione bancaria, un’unione fiscale e, infine, una vera unione politica.

Ma perché le istituzioni europee sono “incomplete”? Perché la casa è stata costruita solo in parte? Ed è ragionevole aspettarsi che crisi come la pandemia e la guerra inducano gli europei a procedere più speditamente verso la costruzione del resto della casa?

La soluzione più efficace prevede una maggiore integrazione sovranazionale: un’unione bancaria, un’unione fiscale e, infine, una vera unione politica

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In effetti, l’intero progetto europeo è fondato su una strategia di integrazione parziale di funzioni e istituzioni in alcune aree – carbone e acciaio agli inizi, poi commercio, più recentemente la moneta – senza che vengano integrate, allo stesso tempo, altre aree essenziali e complementari. Questo è stato spesso fatto non per miopia o errore di calcolo, ma proprio nell’aspettativa che l’integrazione parziale avrebbe creato successivamente le condizioni per ulteriore integrazione4. Da questo punto di vista, le crisi stesse, talvolta rese più severe proprio dalla mancanza di istituzioni “complete” a livello sovranazionale, avrebbero una funzione catalizzatrice e indurrebbero gli europei a creare soluzioni comuni tramite maggior integrazione. Riprendendo la metafora della casa costruita solo a metà, l’arrivo di tempeste avrebbe indotto gli europei a terminare la costruzione del tetto per non bagnarsi.

Membri dei loro staff fotografano i capi di Stato che sbarcano da una nave durante il vertice sul Mare del Nord a Ostenda, in Belgio, lunedì 24 aprile 2023. Nove leader dell’Europa occidentale si sono incontrati lunedì nella speranza di aumentare la produzione di energia pulita dalle turbine eoliche nel Mare del Nord per raggiungere gli obiettivi climatici e ridurre la loro dipendenza energetica dalla Russia. © AP Photo/Virginia Mayo

Ma non sarebbe stato molto meglio costruire la casa per intero, tetto compreso, prima che cominciasse a piovere? Jean Monnet e i suoi seguaci avrebbero certo preferito tale soluzione: la costruzione da subito di una federazione europea forte e unitaria, con competenze non solo in materie economiche ma anche politiche, comprese difesa e politica estera. L’iniziale creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), di cui Jean Monnet fu il primo presidente, era stata concepita come “prima tappa della Federazione europea”, secondo la dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950 (data che si celebra ogni anno come Giornata dell’Europa).  Il passo successivo avrebbe dovuto essere la creazione di un esercito europeo e di una politica estera comune nell’ambito di una Comunità europea di difesa (CED) e di una Comunità politica europea (CPE), con istituzioni esecutive e legislative di fatto federali. Ma il trattato sulla CED, ratificato da Germania Occidentale, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, fu rigettato dall’Assemblea Nazionale francese nel 1954 e abbandonato. 

Di fronte all’impossibilità politica di creare una federazione direttamente, Monnet e gli altri sostenitori del progetto europeo optarono per una strategia di integrazione parziale e graduale, in aree prevalentemente tecniche e specialistiche, ma con l’aspettativa che la stessa incompletezza e inadeguatezza delle istituzioni esistenti creassero poi gli incentivi per ulteriore integrazione. Come scrisse George Ball, che aveva collaborato con Monnet: «C’era un metodo ben concepito in questa apparente pazzia … Monnet riconosceva che l’irrazionalità stessa di questo schema [integrazione solo in alcune aree] avrebbe potuto fornire la pressione per ottenere quello che desiderava – l’inizio di una reazione a catena»5.

Di fronte all’impossibilità politica di creare una federazione direttamente, Monnet e gli altri sostenitori del progetto europeo optarono per una strategia di integrazione parziale e graduale, in aree prevalentemente tecniche e specialistiche

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In questo contesto ha origine la visione di Monnet delle crisi come volano dell’integrazione europea. La scommessa era che, di fronte a sfide che avrebbero richiesto una risposta unitaria a livello europeo, i costi di non avere istituzioni più complete sarebbero stati palesi e avrebbero indotto a superare i vincoli politici alla creazione di tali istituzioni. E in effetti, in oltre settant’anni di storia europea, questa strategia della “reazione a catena” ha prodotto crescente integrazione in aree sempre più vaste, in parte confermando le intuizioni di Monnet. Allo stesso tempo, però, l’incompletezza delle istituzioni europee ha creato costi che hanno spesso ridotto la fiducia e il sostegno per l’integrazione europea in larga parte della popolazione. I limiti della strategia di integrazione parziale sono apparsi in tutta evidenza durante la crisi economica e finanziaria, oppure, per fare un altro esempio importante, di fronte alle continue crisi umanitarie e politiche connesse ai flussi migratori, cui è finora mancata una risposta europea unitaria ed efficace.

Un problema della strategia di integrazione parziale è che può indurre a sottovalutare le ragioni di fondo che ostacolano l’integrazione: gli alti costi politici dovuti alla necessità di conciliare preferenze, interessi e identità eterogenee. È proprio tale eterogeneità politica che ha impedito la formazione di una federazione europea nel passato. Fin dall’inizio, l’integrazione europea ha avuto successo soprattutto in aree economiche (integrazione commerciale, formazione di un mercato unico), dove i costi dovuti a eterogeneità sono molto minori e compensati dai vantaggi associati alla diversità. Quando si scambiano merci, servizi e idee, la diversità di gusti, tecnologie e culture è generalmente benefica. Ma la situazione cambia quando si entri in aree più “politiche”, dove, per definizione, ci si deve mettere tutti d’accordo sugli stessi beni pubblici e le stesse politiche comuni. In questo caso, avere opinioni e preferenze diverse rende l’integrazione più difficile. L’analisi economica delle unioni politiche ha sottolineato l’importanza del “trade-off” (scambio) tra economie di scala nella provvisione di beni pubblici e costi di eterogeneità politica6. Questo trade-off è al cuore del dilemma europeo e non può essere superato con l’integrazione parziale, perché alla fine bisogna decidere dove risiedano effettivamente il potere decisionale e il monopolio della forza legittima quando si tratta di beni pubblici che definiscono la sovranità, quali la politica fiscale, la difesa e la sicurezza.

Un problema della strategia di integrazione parziale è che può indurre a sottovalutare le ragioni di fondo che ostacolano l’integrazione: gli alti costi politici dovuti alla necessità di conciliare preferenze, interessi e identità eterogenee

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Da questa prospettiva, le risposte europee alla pandemia e alla guerra non hanno veramente cambiato la natura e i limiti delle istituzioni europee. La casa comune europea rimane ancora in gran parte da costruire e il bicchiere europeo è ben lungi dall’essere pieno. Da un lato, sarebbe ingeneroso non riconoscere la novità di sviluppi quali l’approvazione di NextGenerationEU o gli sforzi comuni dell’Unione europea a sostegno dell’Ucraina contro l’aggressione russa. Dall’altro lato, sia nella risposta alla pandemia che alla guerra, l’Europa ha rivelato limiti connessi all’incompletezza e inadeguatezza delle proprie istituzioni.

© Il primo ministro belga Alexander De Croo, a sinistra, saluta il primo ministro lussemburghese Xavier Bettel durante gli arrivi al vertice sul Mare del Nord a Ostenda, in Belgio, lunedì 24 aprile 2023. Foto AP/Virginia Mayo ©

Questi limiti hanno radici antiche, come ci ricorda il fallimento della Comunità europea di difesa e della Comunità politica europea. Durante la guerra fredda e oltre, l’assenza di istituzioni comuni europee nel campo della difesa e della sicurezza è stata in parte compensata dall’alleanza politica e militare con gli Stati Uniti. Anche adesso, in una situazione geopolitica molto diversa, la risposta europea alle crisi recenti è dipesa in modo significativo dagli Stati Uniti. Per esempio, le istituzioni americane, nonostante i problemi e le contraddizioni dovuti a una situazione politica interna molto polarizzata, hanno avuto un ruolo cruciale sia nello sviluppo dei vaccini contro il COVID-19 sia nel sostegno all’Ucraina.

L’esperienza europea sui vaccini è istruttiva perché esemplifica sia la forza che la debolezza delle istituzioni europee di fronte a crisi per le quali non sono state originariamente disegnate. Storicamente, le politiche sanitarie in Europa sono state di competenza nazionale. Data la dimensione e l’urgenza della sfida sanitaria dovuta al COVID-19, i governi e le istituzioni europei saggiamente decisero che sarebbe stata necessaria una risposta unitaria. Nel giugno 2020 la Commissione europea presentò una “Strategia dell’UE sui vaccini” per accelerarne sviluppo, produzione e distribuzione. Ma gli investimenti più massicci e le collaborazioni pubblico-private più innovative per sviluppare i vaccini a mRNA non si fecero in Europa ma in America, tramite l’operazione “Warp Speed”, lanciata nel maggio 2020 – forse l’unica iniziativa veramente efficace dell’Amministrazione Trump contro la pandemia. Ci si può chiedere quanto si sarebbe dovuto aspettare se l’Unione europea avesse dovuto sviluppare e produrre i propri vaccini da sola. 

Gli investimenti più massicci e le collaborazioni pubblico-private più innovative per sviluppare i vaccini a mRNA non si fecero in Europa ma in America, tramite l’operazione “Warp Speed”, lanciata nel maggio 2020 – forse l’unica iniziativa veramente efficace dell’Amministrazione Trump contro la pandemia

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L’Europa ha fatto molto meglio nella fase successiva – l’acquisto e la distribuzione dei vaccini. È generalmente riconosciuto che la centralizzazione degli acquisti a livello europeo sia stata preferibile a quel che sarebbe accaduto se i vari Stati membri si fossero dovuti procurare i vaccini in ordine sparso nel mercato internazionale. Ma anche questo processo non è stato esente da critiche, soprattutto nella fase iniziale7. Le istituzioni europee, costruite con una strategia di integrazione parziale in aree prevalentemente economiche, non erano preparate a trattare l’acquisto di vaccini come un’emergenza sanitaria e umana, che avrebbe richiesto decisioni rapide e procedure snelle. Secondo molti osservatori, fu invece adottato inizialmente un approccio burocratico, più adatto a contenere i prezzi che a salvare vite umane e far riprendere rapidamente la vita economica e sociale. Nonostante tali inefficienze e lentezze iniziali, gli europei alla fine hanno avuto successo nella campagna di vaccinazione, grazie al coraggio e all’impegno di tanti a molteplici livelli (istituzioni europee, governi nazionali, amministrazioni locali, operatori sanitari, cittadini). Ma resta il fatto che, soprattutto all’inizio, si sia sentita la mancanza di istituzioni disegnate per reagire con immediatezza all’emergenza sanitaria.

Lo stesso problema di inadeguatezza politico-istituzionale si riscontra quando si consideri più a fondo la risposta europea alla guerra. Se è vero che l’Unione europea è stata più coesa di quanto ci si aspettasse data l’esperienza storica, bisogna anche riconoscere che gran parte degli aiuti all’Ucraina non vengono dall’Unione europea e dai suoi stati membri ma dagli Stati Uniti. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, tra il gennaio 2022 e il gennaio 2023 gli Stati Uniti hanno impegnato 46,6 miliardi di dollari in aiuti militari all’Ucraina, a fronte di 3,3 miliardi da parte delle istituzioni europee, 2,5 miliardi dalla Germania e dalla Polonia, e meno di un miliardo a testa da parte di Francia, Italia e Paesi Bassi 8. A prescindere dalla quantità relativa degli aiuti militari, ci si può domandare, più in generale, quanto unitaria e decisa sarebbe stata la risposta politica e militare europea se alla Casa Bianca ci fosse stato un Presidente disposto a tollerare l’invasione russa. E sicuramente non si può dire che tutti i governi europei stiano adottando politiche estere unitarie e coese più recentemente, non solo rispetto all’Ucraina e alla Russia ma anche riguardo alle relazioni politiche ed economiche con la Cina e altri Stati e aree non europee.  

A prescindere dalla quantità relativa degli aiuti militari, ci si può domandare, più in generale, quanto unitaria e decisa sarebbe stata la risposta politica e militare europea se alla Casa Bianca ci fosse stato un Presidente disposto a tollerare l’invasione russa

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Insomma, se l’Unione europea ha affrontato la pandemia e la guerra con coesione molto maggiore di quanto molti si attendessero, non si può concludere che queste crisi abbiano generato finora cambiamenti istituzionali veramente strutturali e permanenti. E non c’è alcuna garanzia che ulteriori crisi saranno foriere di maggior integrazione. Al contrario, in assenza di istituzioni appropriate, l’arrivo di nuove emergenze potrebbe avere effetti centrifughi e distruttivi. “Crisis” in greco antico voleva dire “decisione” e entrò nelle lingue moderne con il significato medico di “punto di svolta” di una malattia, che può portare alla guarigione ma anche al campo santo. Uno tra i primi usi di questo termine nella lingua italiana si trova in un sonetto di Gasparo Squaro dei Broaspini, un letterato veronese vissuto nel Trecento:

Et non mi penso che per poco agreggio

franco cor tremi e perda vigoria;

però temo a la crisis, che vi svia,

che la non croli il temo al suo charegio.

Ossia, parafrasando un po’ liberamente:

E non penso che per un po’ di tempo fosco

un cuore coraggioso tremi e perda forza;

però temo la crisi, che porti fuori strada,

e che faccia crollare il timone al suo carro.

Gasparo pensava che un po’ di brutto tempo non dovrebbe spaventare un cuore coraggioso – e certo tanti governanti e cittadini europei hanno dimostrato coraggio e determinazione sia contro la pandemia che durante l’attuale crisi geopolitica. Ma Gasparo temeva anche che le crisi, quando molto serie, possano portare fuori strada e far perdere la guida del proprio carro. Il rimedio è prepararsi in anticipo, assicurandosi che il timone politico-istituzionale sia saldo prima che arrivino nuove tempeste. In Europa, il periodo dell’integrazione parziale e graduale è ormai trascorso e si deve pensare invece a forme di integrazione più sistematiche e complete. La soluzione più efficiente, come spesso notato, sarebbe di creare dalle fondamenta quelle istituzioni che ancora mancano: una vera unione fiscale, militare, politica, strategica.

Il primo ministro olandese Mark Rutte, davanti, e il primo ministro irlandese Leo Varadkar scendono le scale mentre sbarcano da una nave durante il Summit del Mare del Nord a Ostenda, in Belgio, lunedì 24 aprile 2023. (AP Photo/Virginia Mayo)

Ma come è possibile procedere ad una costruzione così ambiziosa adesso, in un’Unione composta da ventisette paesi assai diversi culturalmente e politicamente, quando nemmeno i sei paesi fondatori riuscirono a mettersi d’accordo negli anni ’50 e i tentativi successivi di unificare difesa e politica estera non sono stati molto più incoraggianti? 

In linea di principio, questo potrebbe essere un momento storico favorevole ad un progresso strutturale, che vada al di là dell’integrazione parziale e porti alla creazione di un sistema di natura federale, come auspicato nel 1950 da Schumann e Monnet. Come già accennato, la teoria della formazione delle unioni politiche suggerisce che la loro dimensione, in equilibrio, emerga da un trade-off tra economie di scala e eterogeneità di preferenze. Invadendo l’Ucraina e minacciando la pace in Europa, Putin ha involontariamente contribuito a cambiare questo trade-off a favore di una molto più ampia integrazione politica e militare tra i paesi che si oppongono all’aggressione russa. Difesa e sicurezza sono diventate più importanti, aumentando il peso delle economie di scala nel trade-off. Più in generale, pandemia e guerra hanno reso evidente l’importanza di politiche pubbliche coordinate in aree con vaste economie di scala e di scopo, aumentando gli incentivi all’integrazione fiscale e politica, a parità di eterogeneità di preferenze9

Ci si può però chiedere se questi effetti siano sufficienti a creare incentivi stabili per un’unione politico-militare in Europa. La maggior importanza della difesa potrebbe non indurre maggiore integrazione politica a livello europeo per due ragioni. Una prima obiezione è quella di chi sostiene che un’unificazione politico-militare europea non sarebbe necessaria perché gli Stati membri possono ottenere maggior sicurezza con minori costi politici all’interno di alleanze militari come la NATO. E infatti l’aggressione russa all’Ucraina ha rafforzato e ampliato la NATO, con l’ingresso della Finlandia e, possibilmente, della Svezia. Una contro-obiezione a questo argomento è che integrazione politico-militare europea e alleanza atlantica non sono sostitutivi ma complementari, e che ciascuna delle due beneficerebbe dal rafforzamento dell’altra.

Ci si può però chiedere se questi effetti siano sufficienti a creare incentivi stabili per un’unione politico-militare in Europa. La maggior importanza della difesa potrebbe non indurre maggiore integrazione politica a livello europeo

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Una seconda obiezione, molto più incisiva, sarebbe che le ragioni di fondo che hanno impedito l’integrazione di difesa e politica estera a livello europeo nel passato – eterogeneità politica e culturale tra i vari Stati membri – sono tuttora operative. Ma è vero che gli europei sono così diversi politicamente e culturalmente da non consentire la formazione di una struttura integrata con caratteristiche federali? Questa è una questione empirica cui è difficile dare una risposta univoca e su cui il dibattito è aperto. Prima della pandemia e della guerra, Alberto Alesina, Guido Tabellini e Francesco Trebbi (2017) si erano chiesti se l’Europa fosse una “area politica ottimale”. Questi economisti avevano misurato l’eterogeneità culturale in Europa e negli Stati Uniti e concluso che gli europei sono in effetti alquanto eterogenei culturalmente tra di loro, ma non molto di più di quanto lo siano i cittadini di ciascun paese europeo al proprio interno o gli americani tra di loro10. Questi dati potrebbero essere interpretati come una buona notizia per le prospettive di integrazione europea, visto che gli Stati Uniti sono una federazione a tutti gli effetti nonostante la loro eterogeneità. D’altro lato, però, lo studio di Alesina e coautori valutava le prospettive di integrazione politica europea con minore ottimismo alla luce di come fossero mutate nel tempo le risposte degli europei a domande dirette sulla propria identità nazionale. 

Valori e identità non sono infatti immutabili ma cambiano in modo “endogeno”, come dicono gli economisti – ossia in relazione a cambiamenti nel contesto storico, politico, sociale ed economico. È quindi nel campo dell’evoluzione dei valori e delle identità che si ripropongono ora le questioni di fondo sul futuro dell’Europa. È certo possibile che le tempeste degli ultimi anni stiano nuovamente cambiando gli atteggiamenti di molti nei confronti di ideali associati al progetto di integrazione europea. Per esempio, l’aggressione russa all’Ucraina ha messo in evidenza per molti l’importanza delle regole democratiche e dei diritti politici ed umani, mentre ha screditato modelli alternativi autocratici e illiberali. Da questa prospettiva, è anche significativo come alle origini del conflitto tra l’Ucraina e il regime di Putin sia stato proprio il desiderio di gran parte del popolo ucraino di entrare a far parte dell’Unione europea. È quindi possibile che il conflitto tra Ucraina e Russia abbia riacceso i riflettori su valori e identità comuni europee che, se condivisi, potrebbero facilitare l’integrazione politica nel lungo periodo. 

È nel campo dell’evoluzione dei valori e delle identità che si ripropongono ora le questioni di fondo sul futuro dell’Europa

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Ma anche se ci fosse una maggior convergenza su valori e identità paneuropee, è probabile che continuerà comunque a persistere per molto tempo una significativa diversità di preferenze e prospettive tra diversi gruppi e popolazioni in Europa. Questa eterogeneità non deve essere negata o sottovalutata. Al contrario, proprio a causa di tale diversità, ogni progresso verso ulteriore integrazione in aree politiche sensibili richiederà un approccio flessibile e consensuale, che consenta a popolazioni con diverse opinioni di “entrare” ma anche di “uscire”, e permetta accordi tra “sottoinsiemi” di paesi che la pensino allo stesso modo. 

Al fine di ottenere il maggior consenso e la maggiore stabilità possibili, l’integrazione dovrebbe avvenire in aree con enormi economie di scala e di scopo e, soprattutto, a protezione di interessi e valori che uniscano veramente gran parte dei cittadini europei – a partire dalla difesa della democrazia e dei diritti umani. Allora, come auspicato da Jean Monnet, ci sarebbero assai migliori probabilità di uscir bene da ogni futura tempesta.

Note
  1. Garton Ash, T., « The war in Ukraine reminds us what the EU is for. But even bigger challenges lie ahead » The Guardian, 31 mars 2023
  2. Si veda pagina associata sul sito della Commissione europea
  3. Bergsten, C. F., « Why the Euro Will Survive. Completing the Continent’s Half-Built House », Foreign Affairs, septembre-octobre 2012 ; Juncker, J.-C., Tusk, D., Dijsselbloem, J., Draghi, M. et Schultz, M., « Completing Europe’s Economic and Monetary Union », Commission européenne, 2015
  4. Spolaore, E., « What is European Integration Really About ? A Political Guide for Economists », Journal of Economic Perspectives, 27(3), 2013, pp. 125-44 ; du même auteur, « The Political Economy of European Integration », chapitre 26 du Routledge Handbook of the Economics of European Integration (éd. Badinger, H. et Nitsch, V.), Routledge, London and New York, 2015. ; voir aussi « Monnet’s Chain Reaction and the Future of Europe », VoxEU.org, 25 juillet 2015
  5. Duchêne, F., Jean Monnet. The First Statesman of Interdependence, Norton, New York, 2014.
  6. Voir Alesina, A. et Spolaore, E., The Size of Nations, MIT Press, Cambridge MA, 2003 ; des mêmes auteurs, « What’s happening to the number and size of nations ? » E-International Relations, 9 novembre 2015 ; on peut aussi lire Spolaore, E., « The Economic Approach to Political Borders », NBER Working Paper No. 30800, 2022 – à paraître dans  Wilson T. M. (éd.), Border Studies : A Multidisciplinary Approach, Edward Elgar Publishing ; enfin, du même auteur, « Understanding Borders and Conflict from an Economic Perspective », VoxEU.org, 8 février 2023
  7. Voir De Maio, G., « EU learns from mistakes on vaccines », Brookings, 20 mai 2021
  8. Smith, N., « Europe is not ready to be a third superpower », 13 avril 2023
  9. Ciò sarebbe coerente con la teoria secondo la quale le federazioni si sono formate storicamente come risposte a delle minacce esterne, si veda Riker, W. H. (1964), Federalism : Origin, Operation, Significance, Little, Brown and Company, New York, 1964
  10. Desmet, K., I. Ortuño-Ortín and R. Wacziarg, « Culture, Ethnicity and Diversity », American Economic Review, 107 (9), septembre 2017, pp. 2479-2513