L’idea di “religione politica”, centrale nel suo lavoro, è specifica dei fascismi? O è una caratteristica comune a tutti i regimi totalitari?
Credo che sia una caratteristica comune a tutti i regimi totalitari, che anche in questo modo furono analizzati nel corso degli anni Trenta e Quaranta, e successivamente. Io in genere adopero termini che traggo direttamente dalla storia, e mi avvalgo di termini come religione politica perché, per esempio, sin dal maggio del 1924, Igino Giordani, un cattolico militante del Partito popolare, parlò di religione politica fascista. Un anno prima, in occasione della celebrazione del primo anniversario della marcia su Roma, un laico liberale, Giovanni Amendola, lo stesso che coniò nel 1923 l’espressione “sistema totalitario”, descrisse il fascismo come un movimento che promuoveva una guerra di religione. Devo però precisare che la religione politica, come io l’intendo, è la manifestazione di un fenomeno molto più ampio, quello che io chiamo sacralizzazione della politica, cioè dell’attribuzione alla politica di funzioni tipiche della religione, definire il senso e il fine della vita umana nella storia. Questo avviene attraverso l’elaborazione di miti e di rituali che sono già riscontrabili fin dal Settecento nelle rivoluzioni democratiche, prima in America con la nascita degli Stati Uniti, e soprattutto in Europa con la rivoluzione francese.
La sacralizzazione della politica si sviluppa poi con il nazionalismo e il socialismo, e si arriva infine alle religioni politiche dei totalitarismi. Io opero però una distinzione analitica tra la religione civile come si è manifestata nei paesi democratici, Stati Uniti e Francia, e la religione politica tipica dei regimi totalitari, i quali negano la coesistenza con movimenti e ideologie politiche antagoniste imponendo l’ideologia dogmatica ed esclusiva del partito unico.
Per alcuni storici, il totalitarismo sarebbe uno svuotamento della democrazia come nasce alla fine del Settecento. Che ne pensa?
Sono piuttosto rigoroso nell’esigere che i termini vengano adoperati nel periodo e per i fenomeni dai quali nascono. Certo, si possono cercare nel passato aspetti che possono preparare ciò che accadde successivamente, ma non trovo convincente, per esempio, per quanto l’espressione sia suggestiva, il concetto di democrazia totalitaria coniato da Jacob Talmon e applicato al giacobinismo, oppure la interpretazione di Platone totalitario proposta da Karl Popper. Il totalitarismo nasce in un contesto particolare della storia europea, dopo la Prima guerra mondiale, ed è preceduto da fenomeni che contribuiscono alla sua formazione: l’affermazione dell’organizzazione delle masse, i partiti rivoluzionari, e soprattutto l’esperienza della mobilitazione totale durante la Grande guerra e le guerre civili da essa scaturite, come in Russia nel 1917 e in Italia dopo il 1919. Sono tutti aspetti nuovi, che appartengono all’epoca in cui cento anni fa, in Italia, fu coniato, da parte di alcuni antifascisti, questo nuovo aggettivo, totalitario, seguito poi dal sostantivo, totalitarismo.
Sono dunque contrario all’uso anacronistico dei concetti storiografici, anticipando addirittura il totalitarismo all’epoca faraonica o alla democrazia ateniese. Nel totalitarismo l’elemento fondamentale è un partito che pretende di identificarsi con la collettività e di avere il monopolio del potere. Questo elemento non si riscontra prima dell’epoca della nascita dei partiti di massa.
Lei ha detto che il totalitarismo nasce dopo la prima guerra mondiale. Secondo lei è un concetto che ancora oggi può avere un valore per qualificare, per esempio, il regime cinese o secondo lei si deve trovare un altro termine che sarebbe più efficace?
Io penso che si possa conservare questo termine per tutti i regimi nati nella scia del comunismo leninista-stalinista sopravvissuti dopo il crollo dell’impero sovietico, conservando le caratteristiche del partito unico che incarna in sé la collettività nazionale, con la pretesa di esprimere e realizzare tutto ciò che è nell’interesse della comunità, come accade tuttora in Cina o in Corea del Nord. Anche se, in questi regimi, si sono attenuate alcune caratteristiche del totalitarismo, per esempio la volontà di procedere alla rigenerazione dell’essere umano e di creare un uomo nuovo. Questo è stato sperimentato in Cina con Mao fino alla rivoluzione culturale, ma poi la Cina, pur conservando le strutture politiche di un regime totalitario, non mi pare abbia più interesse o intenzione di creare un nuovo cinese, totalmente diverso dall’umanità dell’occidente capitalista. L’uomo nuovo che sta crescendo in Cina è un cinese perfettamente integrato nel mondo industriale della globalizzazione, ed ha come caratteristica propria, coesistente col comunismo, il nazionalismo, che era già innestato nel comunismo russo fin dal periodo staliniano.
Nella sua opera ha lavorato sul concetto di fascismo di pietra. Mentre in Germania ci sono poche tracce visibili del nazismo in Italia le tracce architettoniche del fascismo, come l’edilizia o le sculture, sono numerose, al di là delle distruzioni alla fine della guerra. Come si spiega questa capacità di sopravvivere?
Credo che si spieghi innanzitutto con la qualità estetica delle tracce architettoniche del fascismo, per tutti gli aspetti di originalità del suo eclettismo modernistico-classicistico, che erano carenti nell’architettura del nazismo, rigidamente fissata dal gusto estetico di Hitler. Inoltre, i principali e i migliori architetti, che lavorarono per il regime fascista, manifestando la loro adesione entusiastica, dopo il 1946 continuarono a realizzare opere imponenti e importanti, sconfessando l’adesione fascista, o giustificandola con il carattere tecnico, non ideologico, della loro attività al servizio del regime. Giustificazioni analoghe furono date da innumerevoli uomini di cultura, filosofi, giuristi, storici, scienziati, che durante il ventennio fascista ebbero cariche ed onori per la loro collaborazione a tutte le politiche del regime.
Esiste però probabilmente qualcosa di più profondo che giustifica la differenza di trattamento tra nazismo e fascismo nel secondo dopoguerra.
Certamente. A ciò bisogna aggiungere anche un’altra considerazione, che riguarda la diversa immagine postuma dei due regimi, cioè il fatto che sul fascismo non ha pesato la ferocia razzista e la responsabilità diretta del genocidio e dello sterminio di massa. Certo, anche il regime italiano ha praticato azioni di sterminio in Libia, in Etiopia, nei Balcani occupati dagli italiani, ma tali eccidi non ebbero dimensioni comparabili a quelle del nazismo. Aggiungiamo ancora, l’atteggiamento dell’opinione pubblica e della politica nell’immediato dopoguerra, che ha prodotto una defascistizzazione del fascismo, descrivendolo come un regime buffonesco benché crudele, imposto su un popolo ostile da una banda di criminali e di cialtroni, violenti, avidi, profittatori, senza ideologia, senza cultura, senza consenso. Un anonimo antifascista, sin dal 1944, sostenne che il fascismo, in realtà, non era mai esistito perché non c’era un’ideologia fascista uno Stato fascista, un’economia fascista, ma c’era stato soltanto il mussolinismo, la dittatura personale di un demagogo ambizioso e istrionico, con un seguito di servi obbedienti. Alcune di queste formule negative sono state adottate per decenni anche da parte degli studiosi, che le ripetevano come se fossero una vera e propria interpretazione realistica del fenomeno, trascurando tutto ciò che il fascismo era stato come partito armato e come regime totalitario.
C’è un altro motivo della defascistizzazione del fascismo, favorita, sia pure per opposti fini, dai reduci del fascismo che diedero vita al movimento neofascista. Dopo un breve periodo di epurazione e di processi, la maggior parte dei responsabili del regime fascista e della Repubblica sociale tornarono in libertà, grazie anche all’amnistia decisa da Palmiro Togliatti ministro della Giustizia. I gerarchi maggiori subirono processi, ma non ci furono condanne a morte o condanne all’ergastolo, e dopo un periodo di detenzione, quando non furono assolti, ripresero la loro partecipazione alla vita pubblica, con la nascita del Movimento sociale italiano. L’Italia ha avuto molti reduci fascisti che hanno potuto riprendere liberamente l’attività politica richiamandosi esplicitamente al fascismo, tuttavia agendo all’interno della repubblica antifascista e democratica. Queste persone hanno partecipato alle elezioni politiche, hanno avuto la loro rappresentanza in Parlamento, senza che venisse mai applicata nei loro confronti la legge Scelba, che vieta la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del partito fascista. Eletti democraticamente, i neofascisti hanno amministrato comuni, città, provincie, regioni. Oggi, i discendenti politici dei reduci fascisti, rilasciando dichiarazioni, apparenti o convinte, del loro distacco dalle radici neofasciste, sono giunti al governo col metodo democratico, anzi sono stati presenti fin dal 1994 nei governi di Silvio Berlusconi.
Cercare le cause del fascismo è un esercizio senza fine. È possibile ricercarle nell’apocalisse della modernità? Prima come incubo, come distopia, prima della prima guerra mondiale, in seguito come realtà avveratasi durante la guerra?
Il fascismo che ha impresso il suo marchio nella storia del Novecento nasce dopo la prima guerra mondiale, con lo squadrismo. Il 23 marzo 1919 nascono i Fasci di combattimento, un movimento repubblicano anarchicheggiante, anticlericale, libertario, che voleva il suffragio universale, maschile e femminile, il massimo decentramento dello Stato, l’abolizione del Senato, la Costituente. E si richiama all’esperienza dei fasci interventisti antecedenti alla guerra che nascevano da una costola della sinistra rivoluzionaria, sindacalista e repubblicana. Nel 1919 il movimento di Mussolini si distingue per qualche impresa violenta e rumorosa, ma rimane minuscolo: secondo i dati ufficiali della segreteria amministrativa dei fasci di combattimento, nel dicembre ha appena ottocento iscritti in tutta Italia, che diventeranno circa diecimila alla fine del 1920. Parliamo di un fenomeno marginale, almeno in quel momento. È soltanto dopo il 1920, con la nascita dello squadrismo, che inizia il fascismo che lascerà il suo marchio nella storia.
Va precisato che il fascismo squadrista, come movimento di massa, non fu una sua creazione di Mussolini, ma un fenomeno che sorto nelle province della valle padana, dove predominava il partito socialista, con le sue leghe, col controllo sui comuni, su tutta la classe dei lavoratori. Si tratta di un movimento militarizzato, armato, la cui matrice è sicuramente la Grande Guerra, vissuta come una apocalisse della modernità, ma non come un incubo, bensì con esaltazione dionisiaca, nella convinzione, da parte di Mussolini e dei fascisti, che all’apocalisse doveva seguire una apocatastasi, cioè un nuovo ordine della nazione, rigenerata dalla guerra, in cui si era forgiata una nuova aristocrazia di giovani superuomini, destinati ad assumere il potere per costruire uno Stato nuovo per una nuova grande Italia imperiale.
Dunque è questa la novità del fascismo, il suo carattere di partito armato?
Nell’Europa degli anni Venti vi sono molte organizzazioni politiche paramilitari, specie nell’Europa centrale ed orientale, ma molte sono effimere. Nel ‘22 solo in Italia vi è un partito di massa che non solo ha una organizzazione militare, ma è un partito milizia nell’ideologia, nella mentalità, nella cultura, nello stile di vita e di azione. È nazionalista, antisocialista, antiliberale e antidemocratico. Combatte gli altri partiti come nemici e distrugge le loro organizzazioni con la violenza. Fra una miriade di organizzazioni paramilitari sparse nel continente europeo come eredità della grande guerra, il fascismo è l’unico partito milizia di massa che riesce a conquistare il potere. E ciò avvenne soprattutto perché era un partito armato, e non solo perché Mussolini era il suo duce.
Lei sostiene che fu il fascismo a generare il duce e non il contrario, una considerazione difficilmente adattabile al nazismo. Come mai?
Qui va ricordata una differenza sostanziale fra i fondatori e capi dei regimi totalitari. Lenin crea il bolscevismo e muore bolscevico; Hitler crea il nazionalsocialismo e muore nazionalsocialista. Soffermiamoci sul nazismo. Adolf Hitler assume la carica di führer indiscusso del partito nazionalsocialista fin dal 1920, e pur con contrasti interni, nel decennio successivo fu sempre il capo ufficiale del partito. Mussolini invece, era nato politicamente socialista marxista rivoluzionario, alla fine 1914 divenne nazionalista rivoluzionario, poi fascista repubblicano. Fondò i Fasci di combattimento nel 1919, ma fino al 1926, quando verrà istituzionalizzato il partito unico, Mussolini non fu mai formalmente il capo del fascismo come movimento e partito. Inoltre, mentre Hitler, sin dal 1920 gira tutta la Germania tenendo discorsi per suscitare l’espansione del proprio partito, ed è il fattore principale del suo successo, Mussolini non fu il principale artefice della crescita del fascismo in movimento di massa. Dopo la fondazione dei Fasci, egli non si impegna a sviluppare l’organizzazione, non attraversa la penisola per reclutare nuovi militanti. Svolge la propaganda soprattutto col suo giornale “Il Popolo d’Italia”, che aveva solo qualche migliaio di lettori.
Inoltre, Mussolini è spesso in conflitto con gli altri dirigenti fascisti. Soprattutto nel luglio 1921, quando, dopo aver appoggiato e incitato la violenza squadrista, propose la pacificazione con i socialisti, la smilitarizzazione delle squadre, e la costituzione del fascismo in un partito parlamentare, ipotizzando addirittura un’alleanza governativa con il partito socialista riformista e con il partito popolare. Pretese allora di farsi riconoscere come duce del nuovo fascismo di massa, ma si scontrò con i capi dello squadrismo, contrari alla pacificazione e soprattutto alla smilitarizzazione.
In che modo dunque Mussolini riesce a incarnare poi la leadership del fascismo?
Proponendo la pacificazione, Mussolini sostiene che la guerra civile in Italia deve finire. È una valutazione di opportunità politica. Egli è convinto che la massa degli squadristi non avrebbe potuto conquistare il potere se avesse continuato con il sistema della violenza, perché dall’estate del 1921, quando è ormai distrutta la possente organizzazione del partito socialista, il primo partito del Parlamento dal 1919 al 1921, questa strada è troppo rischioso. Mussolini è un uomo che non si azzarda a fare salti nel buio. È un tattico, che valuta prima di agire se vi sono ostacoli pericolosi, e quando c’è un ostacolo, preferisce aggirarlo. Non si aspettava che l’ostacolo più grosso fosse proprio la massa degli squadristi con i loro capi. Mussolini fu allora ferocemente contestato dagli squadristi, che contro di lui cantavano: “Chi ha tradito, tradirà”, riferendosi al tradimento di Mussolini nei confronti del Partito socialista, quando nel 1914, dopo aver predicato la neutralità assoluta, scelse poi l’interventismo. Nell’agosto del ‘21Mussolini si dimette dalla direzione del movimento, accusa il fascismo di essere diventato solo reazione violenta, e minaccia di distruggerlo, dopo averlo creato. Ma i ribelli non cedono.
Questo è un momento importantissimo nella storia del fascismo, che invece viene sottovalutato, come un episodio di conflitto interno più apparente che reale. In quel momento, la sorte di Mussolini e del fascismo poteva volgere in una direzione rovinosa. Ci troviamo di fronte a un movimento di massa che controlla ormai gran parte dell’Italia centrale e settentrionale esclusivamente con la forza armata delle squadre, con limitato consenso popolare, perché ha solo 35 deputati, ma ora rischia di disgregarsi. Ne sono convinti tutti gli antifascisti, che di fronte alla ribellione dei fascisti contro il duce, prevedono inevitabile la fine politica di Mussolini e del fascismo.
È qui che entra in gioco l’abilità tattica di Mussolini. Egli è da un decennio sulla scena nazionale, prima come capo effettivo del partito socialista dal 1912 al 1914, in seguito come uno dei capi dell’interventismo, e infine come uno dei capi della lotta contro il bolscevismo nel 1919-1920. Gli altri capi del fascismo, Farinacci, Grandi, Balbo, Renato Ricci, erano giovani sconosciuti, che diventano con lo squadrismo personaggi molto potenti nelle provincie, ma non hanno nessuna risonanza nazionale. Di fronte al rischio reale della disgregazione, è Mussolini che decide di aggirare l’ostacolo, cedendo alla volontà dei ribelli. Si arriva così ad una sorta di scambio: Mussolini è costretto ad accettare la costituzione del fascismo in partito armato voluta dagli squadristi, ripudia il patto di pacificazione firmato con i socialisti, ed esalta la violenza come arma politica. Da parte loro, i capi squadristi riconoscono che Mussolini è l’unica figura nazionale che può tenere unito il fascismo. Ma neppure allora Mussolini è riconosciuto come duce indiscusso del fascismo. Il capo del partito nazionale fascista è Michele Bianchi, e lo rimane fino alla conquista del potere. Neanche la marcia su Roma fu voluta fin dall’inizio da Mussolini, che esitò fino al 26 ottobre, quando fu Bianchi a lanciare la proposta di un governo Mussolini, in forma ricattatoria nei confronti del re e dei dirigenti liberali. Mussolini fino all’ultimo avrebbe accettato di partecipare a un governo presieduto per esempio da Giovanni Giolitti, che era la persona del vecchio regime che lui maggiormente temeva, perché come aveva cacciato D’Annunzio con i cannoni da Fiume. La marcia su Roma non si concluse con un compromesso, ma con un ricatto, subito dal re e dalla vecchia classe dirigente, che diede il potere al fascismo, ma non ottenne la restaurazione del regime liberale.
Da quali elementi possiamo riscontrare l’influenza dei capi squadristi nei confronti del Mussolini diventato Presidente del Consiglio?
Neppure dopo la marcia su Roma, Mussolini fu riconosciuto dai capi dello squadrismo come duce indiscusso. Anzi, le tensioni fra i “ras” del fascismo squadrista e Mussolini capo del governo continuarono, prima e dopo il delitto Matteotti. Ancora una volta, prevalgono i capi squadristi, che alla fine del 1924 impongono la svolta del 3 gennaio, quando Mussolini in Parlamento prende la responsabilità del delitto Matteotti e accetta la politica del fascismo intransigente e integralista, rappresentato da Roberto Farinacci, che infatti diventa segretario del partito. Mussolini riuscirà a imporre la sua volontà sul partito fascista solo dopo il 1925, quando come capo del governo ha il controllo dello Stato, del suo apparato poliziesco, e avvia la costruzione del regime totalitario, che però fu la realizzazione della politica integralista sostenuta fin dalla marcia su Roma dai capi dello squadrismo, che Mussolini adottò per imporre il suo dominio personale sul partito.
Ecco perché io dico, con una formula, che fino al 1926, Mussolini è il duce che segue, non il duce che precede il fascismo nell’ascesa al potere.
Questa risposta ci porta opportunamente al suo libro, la storia del fascismo, in cui adotta un approccio deliberatamente orientato agli eventi, rompendo con la tendenza a sovra interpretare il fenomeno fascista. Perché ha sentito il bisogno di tornare a una lettura così così attenta, così meticolosa?
È stata in parte un’esigenza personale. Dopo cinquant’anni che studio il fascismo, ho colto l’occasione di ripercorrerne la storia sulla base esclusivamente di ciò che emerge dai documenti, quasi che io fossi un testimone, un osservatore, un inviato speciale, come scherzosamente mi sono definito. Ho provato a restituire alla storia del fascismo la sua drammaticità, mostrando che il suo trionfo non era inevitabile. Per molto tempo, dal 1919 al 1925, ci furono possibilità che la storia d’Italia, e quindi la storia d’Europa e forse anche la storia del mondo, prendesse un’altra strada: se gli oppositori del fascismo fossero stati in grado di coalizzarsi per contrastare un movimento che quando giunge al potere ha una milizia armata, ma soltanto trenta deputati in Parlamento, forse avremmo assistito a un altro esito.
Dal mio punto di vista, la storia va ricostruita e raccontata nella drammaticità di ogni momento in cui è possibile che prenda un altro corso, finché la vittoria di una forza dominante rende impossibile l’occasione per poterla ribaltare. È ciò che è accaduto con il fascismo. Se non si restituisce alla storia il senso della sua drammaticità, considerando la sua imprevedibilità, non si fa altro che la storia del senno del poi, della profezia retroattiva, come io la chiamo, sulla quale si possono costruire infinite interpretazioni su cos’era il fascismo, ponendosi domande, se c’è stata un’ideologia fascista, se c’è stata una cultura fascista, se c’è stato uno Stato fascista, se il fascismo fu totalitario, che hanno già in sé le risposte, ovviamente negative. Queste sono questioni poste male, come avrebbe detto Francesco De Sanctis, che tuttavia ci possono portare, da una parte, sostenere che il fascismo non è mai esistito, ma solo il mussolinismo, oppure ad affermare, fin dagli anni Novanta del secolo scorso, che il fascismo sta tornando in Italia e addirittura nel mondo, dando così ragione al duce, che nel 1932 aveva profetizzato che il secolo ventesimo sarebbe stato il secolo del fascismo, che prosegue all’inizio del terzo millennio.
Nello stesso tempo mi interessava mostrare come all’interno del fascismo stesso vi sia stato, dal 1922 al 1926, uno scontro violentissimo tra le sue diverse fazioni: si arrivò a parlare di mussolinismo contro fascismo e di fascismo contro Mussolini. Il confronto cessò quando sia Mussolini che gli estremisti del partito, gli intransigenti, concordarono la soppressione definitiva del governo elettorale parlamentare e l’eliminazione di tutti i partiti, cominciando a costruire quello che gli antifascisti, fin dal 1923, definirono il regime fascista. Ma anche la storia di questo regime non è affatto un percorso inevitabile, se lo seguiamo nel suo storico svolgimento senza avvalerci del senno del poi. E dalla analisi emerge la più mostruosa ambizione di Mussolini e del fascismo, cioè l’attuazione consapevole e sistematica di un esperimento totalitario, con il fine di compiere una rivoluzione antropologica per trasformare il popolo italiano in una nuova razza di guerrieri, di conquistatori e di dominatori. È questo il vero senso che io ho riscontrato ripercorrendo la storia del fascismo, in particolar modo attraverso le sue guerre.
La dinamica fascismo/antifascismo ha strutturato tutto il dibattito pubblico italiano dal dopoguerra a oggi, Silvio Berlusconi è stato a lungo accusato di fascismo, così come Matteo Salvini, per quanto la provenienza culturale e politica fosse tutt’altra. La partecipazione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che invece da quel mondo viene, alle celebrazioni del 25 aprile, rende questo dibattito superato?
Mi riesce difficile fare il profeta, posso però fare qualche considerazione sul presente guardando al passato. Quando si parla di fascismo e antifascismo si crea una sorta di gioco delle parti: i fascisti in Italia ci sono stati, sono rimasti e ci sono ancora, nella misura in cui esistono delle persone che si proclamano tali e considerano il fascismo un periodo positivo nella storia degli italiani, addirittura il più positivo. Essendoci ancora tali fascisti, ci sono coloro i quali ritengono che il pericolo fascista sia sempre presente, e dunque vada contrastato con un permanente antifascismo militante. Questo è accaduto soprattutto durante lo scontro violentissimo tra le forze politiche negli anni Sessanta e Settanta. Prima di Berlusconi e di Salvini, anche Alcide De Gasperi era considerato fascista secondo Palmiro Togliatti, perché il fascismo è in essenza la reazione capitalistica contro l’emancipazione della classe operaia: pertanto, quando la Democrazia cristiana nel 1947 rompe l’alleanza di governo con i comunisti, diventa fascista. Lelio Basso, il socialista marxista che il 2 gennaio 1925 inventò il sostantivo totalitarismo, nel 1951 pubblicò un libro intitolato Due totalitarismi: fascismo e democrazia cristiana. Solo nel 1975 il dirigente comunista Giorgio Amendola, figlio di Giovanni Amendola che aveva inventato l’aggettivo totalitario, si schierò contro l’utilizzo generico e indiscriminato della parola fascismo, perché in questo modo si crea solo confusione.
Dopo la fine del fascismo storico, che ha segnato profondamente la storia d’Italia e ha lasciato la sua impronta anche nella storia d’Europa e del mondo, in Italia il neofascismo si è inserito nella repubblica antifascista, che comunque superano di tre volte il ventennio fascista. Ciò storicamente consacra la vittoria definitiva dell’antifascismo, che vive istituzionalizzato nella Costituzione e nella repubblica democratica, mentre il fascismo storico appartiene unicamente alla storia. Altrimenti dovremmo dire che oggi, in Italia, abbiamo al governo chi sostiene lo Stato totalitario, il partito unico, il corporativismo, i sindacati di Stato, l’irreggimentazione delle masse, la creazione d’una nuova razza italiana guerriera, e una politica estera imperialista. Perché questo è stato storicamente il fascismo.
Lei però è convinto che oggi la democrazia occidentale stia affrontando una crisi profondissima.
Credo che sia la democrazia ad avere in sé stessa generato molte insidie pericolose, che non sono il fascismo di ritorno, ma sono principalmente il rifiuto o l’incapacità di realizzare l’ideale democratico. La democrazia moderna non consiste solo nell’adoperare il metodo democratico per la elezione dei governanti da parte dei governati, perché lo strumento, di per sé, non garantisce le libertà: possiamo avere, con la libera scelta dei governanti da parte dei governati, una democrazia razzista, antisemita, xenofoba.
Mi pare infatti che il pericolo principale per l’avvenire della democrazia siano i democratici che non realizzano l’ideale democratico, come è sancito dall’articolo 3 della costituzione italiana, rimuovendo qualsiasi ostacolo e discriminazione che impedisca il libero sviluppo della personalità dei cittadini. Ci stiamo inoltrando verso la instaurazione di una “democrazia recitativa”, come io la definisco, con tutti i rituali del metodo democratico, ma senza l’ideale democratico.
Molto spesso si sente parlare del rischio del ritorno del fascismo in Italia, ma analizzando il periodo storico del primo dopoguerra si vede una società molto giovane, piena di reduci di guerra, pronta a utilizzare la violenza per affermare le proprie idee politiche. Quanto conta la demografia in espansione nell’affermazione del fascismo?
Ha contato moltissimo. La prima caratteristica del regime fascista è simbolicamente rappresentata nel suo inno “giovinezza, giovinezza”. Questo perché la società italiana di quel periodo era composta principalmente da nuove generazioni che si sentivano completamente a disagio nel sistema parlamentare, specialmente nel decennio dei governi di Giovanni Giolitti, dall’inizio del secolo alla vigilia della Grande Guerra, in cui molti di loro si erano formati. L’avversione per il parlamentarismo liberale e borghese non era sentita solo dai i fascisti, ma già prima della guerra era diffusa sia a destra che a sinistra. Parlo della generazione di Mussolini, Amendola, Nenni, Gramsci, Togliatti. Non a caso questi protagonisti della lotta tra fascismo e antifascismo erano stati accomunati, sia pure su fronti diversi, con idee e ideologie diverse, dall’avversione per il sistema liberale giolittiano. Si è accennato prima all’apocalisse della modernità, una visione catastrofica che la guerra realizza.
Ma dall’ esperienza catastrofica della Grande guerra, questa nuova generazione esce con una sorta di entusiasmo rivoluzionario per il futuro da conquistare, anche e soprattutto con la violenza. Nel 1919 Antonio Gramsci incita a eliminare col ferro e col fuoco la piccola borghesia corrotta e decadente, mentre i nazionalisti vogliono l’eliminazione degli internazionalisti bolscevichi. In tutte le fazioni c’era la convinzione che la catastrofe della guerra non aveva affatto decretato la fine dell’epoca rivoluzionaria iniziata con la rivoluzione francese, dell’epoca in cui si lotta per conquistare il futuro; anzi sono giovani che vogliono proseguire e accelerare una rivoluzione palingenetica per l’avvento di una nuova civiltà moderna. Le due rivoluzioni nemiche scaturite dalla guerra, bolscevismo e fascismo, sono animate da questa ambizione, che è tutt’altro che pessimista. È quello che il fascismo è convinto di poter fare, ed è quello che i comunisti sono convinti di poter fare. Nonostante la catastrofe della guerra e le convulsioni del dopoguerra, i giovani danno inizio a una nuova ondata di rivoluzioni nella convinzione che si possa conquistare il futuro: accade prima in Russia, poi in Italia, poi in Germania, ma tutto il continente è contagiato della una nuova febbre rivoluzionaria.
Oggi, una distanza abissale ci separa da quell’epoca. Dobbiamo riflettere su quanto profonda è stata la vera rivoluzione antropologica, che nella coscienza e nella cultura europea ha prodotto la Seconda Guerra Mondiale, quando sono scomparsi completamente i miti, potentissimi nel periodo tra le due guerre, della violenza rigeneratrice, del nazionalismo imperialista, della guerra inevitabile per la lotta fra Stati. Tutto questo, che era l’essenza del fascismo, oggi è inesistente. A meno che non si voglia chiamare fascismo il regime di Putin che aggredisce l’Ucraina.
Quindi l’utilizzo del sostantivo fascismo in questo caso è improprio? L’idea del fascismo eterno teorizzata da Umberto Eco ha una sua ragion d’essere oppure no?
Ritengo sia improprio. Usare il termine fascismo in senso generico, come spesso è avvenuto e avviene, applicandolo al mondo politico degli ultimi sette decenni, da Truman a Trump, passando per Nixon, Reagan, Bush jr., o da De Gaulle alla Le Pen, a Saddam Hussein, a Erdogan, a Putin, a Berlusconi e Salvini, è solo un pessimo modo di confondere e ostacolare la conoscenza della realtà in cui viviamo. La conoscenza progredisce attraverso la distinzione, non attraverso la confusione. Se noi diciamo che la Cina comunista è fascista, che Putin è fascista, che Trump e Bolsonaro sono fascisti, che cosa impariamo di nuovo sulla realtà in continuo mutamento? E soprattutto, se veramente il fascismo è ritornato, allora dovremmo far subito una terza guerra mondiale per eliminarlo, come avvenne otto decenni fa. Quando diciamo che in Italia c’è il ritorno del fascismo, gli antifascisti devono imbracciare il mitra e cominciare una nuova resistenza?
Se la teoria del fascismo eterno fosse valida, allora vorrebbe dire che il fascismo ha vinto perché non può essere mai definitivamente sconfitto. Eppure, persino Dio, che ha l’attributo dell’eternità, ha subìto una sconfitta, che dura da oltre duemila anni, quando ha mandato suo figlio sulla terra per emendare il mondo dal male e invece lo ha moltiplicato, spesso ad opera dei seguaci di suo figlio!
È possibile allargare alla dimensione europea il fenomeno del fascismo che è un fenomeno storico molto preciso e peculiare italiano? Cioè: i partiti e i movimenti di estrema destra europea, sono in qualche misura eredi del fascismo?
Dubito che si possa definirli tali, salvo i movimenti che si richiamo al fascismo, che non sono però grosse forze politiche. È fascista Bossi che voleva sfasciare lo Stato nazionale e predicava il culto pagano del dio Po? O Berlusconi che voleva una società gaudente, come è fascista Vox che invece vuole una società moralisticamente cattolica? Come facciamo a dire che il fascismo è rappresentato da un movimento estremista cattolico, quando nel 1939, se non fosse morto, Pio XI avrebbe promulgato una enciclica, già compilata, per condannare il totalitarismo (totalismus nel latino dell’enciclica) fascista e dichiarare finita la Conciliazione?
Ripeto, io sento l’esigenza della chiarezza e della distinzione, non dell’uso generico e confusionario del termine fascismo. Credo che ci sia una grave mancanza di capacità di conoscenza dei fenomeni nuovi, interpretandoli attraverso presunte analogie con fenomeni vecchi. Prendiamo ad esempio i partiti che fanno della lotta all’immigrazione un punto cardine del loro programma politico: le loro radici non vanno ricercate nel fascismo, ma più propriamente nella secolare tradizione del populismo negli Stati Uniti, che è stato non solo razzista nei confronti dei neri, ma contro gli immigrati cattolici ed ebrei. Va sempre ricordato che razzismo, antisemitismo, xenofobia sono stati fenomeni dominanti negli Stati democratici, negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna, molto prima della grande guerra e del fascismo.
Lei ha ampiamente rivalutato l’importanza dell’altra “Rivoluzione d’ottobre” (quella fascista del 1922), rompendo con le interpretazioni che la dipingevano come una pantalonata. In che modo questo momento è decisivo per comprendere l’approccio fascista al potere ma anche i luoghi comuni sul fascismo che lo dipingevano spesso come un totalitarismo morbido, che quindi sarebbe diverso dallo stalinismo, del nazismo, anche del franchismo.
Credo che sia un po’ difficile continuare a pensare che la marcia su Roma e la conquista del potere da parte del fascismo siano state un’opera buffa o una parata di utili idioti. Io mi rifaccio ad altri osservatori contemporanei, come per esempio il diplomatico e intellettuale tedesco Harry Kessler, che era a Berlino quando Mussolini fu chiamato in Italia a formare il nuovo governo e scrisse il 29 ottobre nel suo diario: «in Italia si afferma un governo francamente antidemocratico e imperialista. Il colpo di Stato di Mussolini può essere paragonato a quello di Lenin nell’ottobre 1917, ma diretto in senso opposto, naturalmente. E può darsi che sfocerà in un nuovo periodo di nuovi disordini e di guerre in Europa». Non era un visionario capace di profetizzare il futuro, ma valutava ciò che era avvenuto con l’avvento al potere di un partito armato e le sue conseguenze più probabili.
Quando il fascismo va al potere non c’è più pericolo bolscevico dal 1920, da quando l’armata rossa viene arrestata in Polonia. Da allora il bolscevismo, logorato dalla guerra civile pur se vincitore, dal disastro economico e dalla carestia, deve sopravvivere rinunciando al comunismo di guerra e Lenin sceglie la nuova politica economica, che reintroduce il capitalismo, e cerca l’aiuto delle potenze capitaliste. Nel 1922 non ci sono più progetti e tentativi di esportare la rivoluzione comunista in Europa. Invece, ciò che accadde in Italia fu l’inizio di un’ondata di nuovi movimenti nazionalisti rivoluzionari, alcuni dei quali si richiamavano direttamente al fascismo. Dalla marcia su Roma si contano anno dopo anno il crollo dei regimi democratici o parlamentari sotto l’azione di movimenti di tipo fascista o che si richiamano al fascismo, mentre non c’è più dal 1923 nessun tentativo di rivoluzione o di sovversione comunista. Quindi anche la favola che il fascismo abbia salvato l’Italia e l’Europa dal comunismo, come credeva e sosteneva anche Winston Churchill, fu una tragica leggenda che ha avuto delle conseguenze devastanti. L’ondata iniziata dal fascismo nel 1922, proseguì fino a provocare la seconda guerra mondiale.
Cosa pensa dell’espressione “post-fascista” che è stata ampiamente utilizzata all’estero per descrivere il partito di Giorgia Meloni, soprattutto in Francia? Permette di chiarire una realtà complessa della storia italiana, o dovrebbe essere abbandonata per un altro termine?
Sinceramente non so dare una risposta. Il termine post-fascismo può essere sicuramente applicato a coloro che sono effettivamente post-fascisti, cioè ex neofascisti che si distaccano dalla matrice fascista. Ma che cosa significa? Oggi viviamo in un’epoca senza creatività nel linguaggio, si parla solo di post: post-modernismo, post-industriale, post-democratico; credo che sia un’epoca incapace di comprendere i fenomeni nuovi e, non sapendo come interpretarli, usa il prefisso “post”. Siamo l’epoca del post-qualcosa. Ma saremo sempre posteri di qualcosa, perché è la vita che è sempre postera.
Quello che accade oggi in Italia è, secondo me, una situazione per molti aspetti tutt’altro che tranquillizzante perché è caotica, e non perché ritorna il fascismo, ma perché governa una democrazia recitativa, e per giunta confusionaria. Abbiamo oggi al potere i postfascisti che parlano di unità nazionale, di interesse della nazione contro l’interesse particolare: ma i postfascisti sono alleati con un movimento, la Lega, che da oltre tre decenni predica che l’unità d’Italia è stato un errore, che lo Stato nazionale è una disgrazia, e che bisogna procedere a demolirlo con azioni di secessione o di autonomia. Inoltre, postfascisti e leghisti sono alleati da trent’anni con il partito personale di Berlusconi, il partito della vita gaudente che incarna esattamente l’opposto della vita fascista spartane e totalitaria. Il berlusconismo ha provato a inventare un’Italia del benessere e della felicità, rappresentata dagli spettacoli delle sue televisioni. Tutto ciò non è fascismo, neppure sotto altre vesti. Che cosa possa venir fuori da questo miscuglio ideologico e politico è difficile dirlo.
Noi abbiamo provato a creare un termine per descrivere il governo di Meloni, che è quello di tecno-sovranismo. Il termine indica la volontà di mescolare il sovranismo originale del movimento di Meloni con una capacità rassicurare Bruxelles, gli alleati internazionali e l’opinione pubblica esterna, mantenendo invece un’agenda di destra radicale ai temi più culturali, rivolti quindi all’opinione pubblica esterna. È un concetto che la trova d’accordo?
Potrebbe essere una formula accettabile, perché adeguata alla realtà, e non solo per il governo Meloni. È un formula che si abbina bene alla democrazia recitativa, perché il tecno-sovranismo conserva il metodo democratico della sovranità popolare, ma rinuncia consapevolmente all’ideale democratico, istituendo di fatto una oligarchia di competenti e di ricchi, come competenti, che inevitabilmente predominano in una democrazia recitativa, dove la competizione elettorale esige risorse finanziarie sempre maggiori. Una società non può essere democratica, secondo l’ideale, se esiste un crescente divario sempre più abissale fra la ricchezza tenuta da pochi e una crescente povertà diffusa. L’altro aspetto della democrazia recitativa è la tecnocrazia: se noi partiamo dal presupposto che solo chi ha competenze tecniche ha il diritto di governare, che senso ha il suffragio universale esteso a tutti?
In una società nella quale la scolarizzazione ha sempre meno influenza sulla formazione delle conoscenze e della capacità critica dei cittadini, e la ricchezza estende il possesso e il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, la tecnocrazia facilmente prevale nella gestione dello Stato. Se aggiungiamo anche la televisione, la pubblicità televisiva, il tipo di messaggio tecnocratico e gaudente che dalla televisione coinvolge e pervade la massa del pubblico, potremmo dire che ci avviamo verso una democrazia recitativa tecnocratica, con gli esclusi relegati fra le inevitabili miserie della vita quotidiana. Come l’immondizia che si accumula dentro e fuori dei cassonetti della nettezza urbana, in attesa di esser prelevata.