L’Italia, con le sue differenze e identità territoriali, la forte contrapposizione tra pubblico e privato, gli squilibri economici e sociali, i rapporti problematici tra livelli di governo, è un paese a macchia di leopardo. Punte di eccellenza a sacche di notevole inefficienza si alternano quasi ovunque, nella pubblica amministrazione, nell’economia, nella politica, nell’istruzione. L’Italia è forse il paese più decentralizzato e asistematico d’Europa, dove il capitale di fiducia della nazione è manchevole molto più di quello finanziario. Questa conformazione a macchia di leopardo in ogni settore rende il paese difficile da riformare, costringe ad una faticosa mediazione tra interessi diversi e divergenti.
L’Italia oscilla tra la ricerca di una modernizzazione avvertita come mai pienamente realizzata e una pragmatica e arcigna difesa dell’esistente senza ci sia un conduttore prevalente, come lo Stato o il mercato finanziario in altre esperienze, in grado di segnare alcune linee prioritarie di sviluppo. Gli equilibri italiani si fondano su patti sempre ridiscutibili tra corporazioni, territori, gruppi di potere economico e politico. Per questo motivo, più che per altri probabilmente, l’Italia non è un paese dove accadono le rivoluzioni, la conflittualità sociale è ridotta, le manifestazioni e la violenza politica sono irrilevanti. È l’accordo precario, l’accomodamento sempre ridiscutibile, che definisce la genetica politica italiana, proprio come il suo parlamentarismo estremizzato e numerosi casi di trasformismo esemplificano.
Nella sua storia persino i cambi di regime sono stati caratterizzati dalla continuità più che dal cambiamento: lo Statuto Albertino ha servito quattro regimi diversi (Regno di Piemonte e Sardegna; Italia unita liberale-oligarchica; Italia liberal-democratica; fascismo), l’avvento del regime fascista venne avallato con la fondamentale complicità della monarchia e dell’élite liberale, mentre dopo il fascismo gran parte della classe dirigente burocratica, giudiziaria, economica rimase al suo posto nel corso della Repubblica, la stessa attuale Costituzione della Repubblica Italiana è passata attraverso tre regimi politici diversi (Repubblica partitico-parlamentare; la Repubblica bipolare del berlusconismo; la transizione attuale con maggiore centralità del Capo dello Stato) senza essere mai stata modificata in modo sostanziale.
In Italia, dunque, si vive sempre all’interno del paradosso: la rissosità politica di questo paese segmentato trasmette un’idea ansiogena, anche all’estero, di continuo cambiamento e palingenesi, ma sotto la superficie le cose si muovono con estrema lentezza, con formalità e informalità che spesso si dispongono in contraddizione tra loro. Non è un caso che l’opinione pubblica italiana degli ultimi trent’anni abbia considerato l’Unione Europea come lo sperone principale, se non unico, per introdurre riforme strutturali. Riforme però spesso avversate dalla politica italiana, e dalla maggioranza stessa del paese, e sempre depotenziate dalla pressione di partiti, corporazioni, resistenze territoriali. Il fatto che si continui a parlare di Europa come di un “vincolo esterno”, con una espressione che allude alla camicia di forza e all’azione subita obtorto collo anche da parte di chi si dice a favore dello stesso, è sintomatico di quanto sia lenta la propensione al cambiamento della penisola a macchia di leopardo. Così come i toni trionfalistici per i nuovi fondi europei, largamente esagerati nella politica italiana se si comparano alle altre nazioni, subito si ridimensionano quando il paese è costretto a fare i conti con le proprie debolezze amministrative, giuridiche e istituzionali e a misurarsi con un cambiamento richiesto dall’alto.
Per questo quando si analizza la politica italiana è sempre bene non farsi impressionare dalle dichiarazioni roboanti, dagli allarmismi, dalle crescite elettorali vertiginose e dai crolli rovinosi, dalla nascita continua di nuovi movimenti, partiti e leader. Ad una radiografia precisa degli equilibri di potere che contano essi restano molto più stabili di ciò che si è portati a pensare. Non è un incidente del destino che il moderno elitismo sia stato teorizzato da italiani, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, i quali fotografavano una società gerarchica che si approcciava alla democratizzazione senza perdere il proprio asse verticale ma soprattutto una circolazione delle classi dirigenti inevitabile ma lenta e graduale, fatta di resistenze e rendite, di piccoli gruppi in competizione tra loro disposti a tutto per conquistare o tenere il potere più che rovesciarlo o riformarlo.
Quelle élitiste sono teorie conservatrici nel loro impianto logico, disilluse e realiste, cioè il prodotto del cinismo politico che ha caratterizzato la storia dell’Italia unita. Senza queste coordinate fondamentali è difficile cogliere la stabilità e la gradualità nel cambiamento della politica italiana che si trova sotto onde sempre spumeggianti. Ciò non significa naturalmente che le crisi non possano cancellare interi pezzi di classe politica con una elezione oppure che queste aprano spazi per l’ascesa di leader e dei loro manipoli di uomini, ma la tendenza al compromesso rispetto agli uomini e alle idee è sempre stata prevalente. Le inchieste penali di Tangentopoli furono un evento eccezionale che dipendeva da una rivoluzione politica globale – la fine del comunismo e gli equilibri della guerra fredda e l’avvio dell’integrazione monetaria europea – e dalla azione di un potere dello Stato (il giudiziario) contro un altro (la politica) che non era stata capace di reinventarsi in tempo e difendersi adeguatamente. Ma prima di quella congiuntura giudiziaria non si erano registrate nella società italiana spinte al cambiamento politico ed economico così forti e radicali e sicuramente non nelle proporzioni con cui si sarebbero innescate dopo le inchieste del 1992. Ciò per dire che gli “shock esterni”, che non vengono fatti detonare dalla politica e dalla società stessa, sembrano essere gli unici eventi capaci di mettere in moto cambiamenti sostanziali nei poteri italiani che, fuori da crisi come quella del 1992, tendono ad adeguarsi alla consueta instabilità governativa con grande disinvoltura e plasticità.
Dal suo insediamento fino ad oggi il governo Meloni rientra perfettamente nello schema del paese “a macchia di leopardo” e di conservazione sotterranea, ben mostra la capacità di compromesso che esiste tra politica ed establishment decentrato. I timori e i rischi per una deriva totalmente euroscettica che si paventavano nel corso della campagna elettorale si sono rivelati di fatto infondati fino ad oggi, non sono state varate azioni militari di blocco navale contro il diritto internazionale per fermare l’immigrazione, non ci sono state leggi di bilancio avventate o politiche di spesa più controverse rispetto a quelle dei governi precedenti. Ma d’altronde questa non è una novità per la politica italiana.
Negli ultimi cinque anni sono andati al governo: una forza anti-politica, anti-establishment, in origine no-euro (Movimento 5 Stelle); una forza politica nazional-populista, no-euro (Lega); una forza politica di destra, euroscettica (Fratelli d’Italia). Eppure l’Italia, nonostante maggioranze, di marca diversa, che includevano queste forze, non si è mai discostata dai propri vincoli europei e internazionali. Due forze su tre (Lega e Movimento 5 Stelle), per i propri limiti più che per volontà, alla fine hanno anche contribuito a rieleggere il Presidente della Repubblica e hanno sostenuto il governo Draghi in una maggioranza di unità nazionale, mentre Fratelli d’Italia ha svolto il ruolo dell’opposizione responsabile e collaborativa. È come se la politica italiana avesse, sotto la coltre della propaganda, interiorizzato il vincolo esterno e fosse divenuta sempre pronta a rivedere, completamente o quasi, le proprie posizioni politiche nel medio periodo. Ciò anche grazie all’azione della Presidenza della Repubblica che, essendosi trasformata nell’unico appiglio di stabilità politico-istituzionale dell’ultimo decennio, ha saputo trarre vantaggio in termini politici dal repentino ricambio della classe politica per imporre la propria influenza ed il proprio “cordone sanitario”, rispetto al dettato costituzionale, i vincoli europei e gli indirizzi delle relazioni internazionali, su partiti e leader nuovi, più radicali e spesso inesperti.
Il Capo dello Stato ha però pagato la frammentazione e la debolezza dei nuovi e vecchi attori trasformandosi in un “risolutore di crisi” e “compositore di governi”, costretto a favorire la costruzione di coalizioni inedite per far proseguire l’ultima legislatura. La politica estera offre altri buoni esempi dell’incoerenza e al tempo stesso della continuità della politica italiana. I partiti che avevano condotto una polemica anti-euro hanno fatto sparire quella posizione una volta andati al governo. Gli ideologi no-euro, molto presenti sul piano mediatico tra il 2013 e il 2018, sono stati messi in secondo piano dai partiti e non hanno mai ricoperto ruoli di governo di primo piano. In questo senso la Lega, con la sua anima bipartita tra le radici nelle piccole medie industrie del nord e il movimentismo anti-establishment ed euroscettico, è stato l’esempio migliore di un minotauro politico pronto a trasformarsi sempre. Lo stesso si può dire per il Movimento 5 Stelle, partito che fino alle politiche del 2018 propagandava la promozione di un referendum sull’euro, che nel 2019 con il suo voto a Bruxelles si è rivelato fondamentale sul piano numerico per l’elezione di Ursula von der Leyen come Presidente della Commissione Europea.
Ma anche la guerra in Ucraina ha mostrato una stupefacente capacità di adattamento dei partiti italiani. Più evidenti nella Lega e in Forza Italia, ma presenti anche in Fratelli d’Italia, erano le posizioni filo-russe che vedevano in Vladimir Putin un qualche modello politico identitario e conservatore da non condannare. Meloni ha fatto sparire questa posizione di amicizia e apertura verso il regime russo prima degli altri, Salvini è stato costretto ad una inversione totale quando ha scelto di entrare nella maggioranza di unità nazionale guidata da Mario Draghi, e Forza Italia, pur con Berlusconi ancora incline a difendere Putin pubblicamente, ha di fatto sempre sostenuto la linea atlantica sia del governo Draghi che di quello Meloni. Anche sull’immigrazione c’è uno sfasamento tra promesse e realtà: il blocco navale proposto da Fratelli d’Italia negli anni scorsi è sparito una volta preso il governo mentre le politiche migratorie si pongono, di fatto, in continuità con quelle degli ultimi governi e a destra nessuno nega più che su quel fronte servirebbe una maggiore integrazione europea.
Dunque, c’è una grande incoerenza politica ma al tempo stesso una disponibilità a cedere con estremo realismo ai vincoli esterni ed interni per mantenere il potere. La modalità di formazione dello stesso governo Meloni è un esempio interessante. La “generazione Meloni”, la classe dirigente del suo partito che ne ha accompagnato l’ascesa, è totalmente esclusa dai posti di governo che contano. La Presidente del Consiglio ha scelto soltanto uomini esperti che appartenevano all’esperienza di governo del berlusconismo. Ministri di Fratelli d’Italia come Fitto, Urso, Crosetto, Mantovano, Fazzolari facevano per età ed esperienza già parte della classe governante, mentre i sodali coetanei di Meloni sono stati lasciati quasi tutti a combattere in Parlamento. Ciò a validare la tesi che nella politica italiana un leader che spera di durare sceglie l’esperienza e la continuità più che la rottura, a maggior ragione se ha per le mani un partito vergine di esperienze di governo e poco addentrato nei meccanismi del potere.
Anche il programma politico dell’esecutivo fino ad oggi è stato a macchia di leopardo. Da un lato c’è una adesione ai processi istituzionali, alle regole economiche e alle posizioni geopolitiche condivise con gli altri paesi: sull’economia è stata scelta la via dell’equilibrio macroeconomico e della continuità con Draghi, il primo viaggio diplomatico è stato fatto a Bruxelles, con le istituzioni europee non ci sono state per ora particolari frizioni, sul PNRR si cerca una mediazione rispetto alle possibili modifiche per attuare il piano, la politica estera è saldamente filo-atlantica. Dall’altro lato, invece, il governo continua a coltivare alcune battaglie di destra: la tutela di alcune corporazioni come nel caso dei balneari rispetto alla liberalizzazione del settore, tentativi di politiche protezionistiche per i prodotti italiani, battaglie linguistiche, legali e culturali identitarie. Anche in questo caso siamo di fronte ad uno schema a macchia di leopardo, cioè a un governo da un lato oramai inserito nel mainstream europeo e occidentale sulle questioni economiche e internazionali fondamentali ma che deve pagare dazio sul fronte della politica interna a quella parte dell’elettorato più radicale che, soprattutto nel caso di Fratelli d’Italia, viene da anni di promesse e battaglie effettuate dall’opposizione.
La recente tornata di nomine pubbliche è un altro segnale di continuità nel rapporto tra politica e Stato molto interessante. In molti si aspettavano, con una maggioranza trainata da un partito che non aveva mai governato, una sorta di assalto alla diligenza di enti pubblici e società controllate dallo Stato. Invece, Claudio Descalzi, manager politicamente trasversale, viene riconfermato all’ENI; Matteo Del Fante, un tempo vicino a Renzi, viene riconfermato alla guida di Poste Italiane; all’ENEL arriva Flavio Cattaneo che era già stato direttore generale della Rai, amministratore delegato di Terna per tre mandati, CEO di TIM e NTV, attuale membro del Cda di Generali e vicepresidente di NTV e che, come mostra bene il curriculum, non è certo un outsider rispetto all’establishment finanziario italiano. Cattaneo è affiancato dalla presidenza di Paolo Scaroni, già CEO di ENI, forse il più importante manager pubblico dell’epoca berlusconiana. Come CEO di Leonardo, nel settore difesa, Meloni ha spinto per avere Roberto Cingolani, ex ministro del governo Draghi. Insomma la coppia Giorgetti-Meloni, Presidenza del consiglio e Ministero dell’Economia e Finanze che sono decisivi in questa dinamica decisionale, ha preferito non effettuare strappi e non politicizzare eccessivamente il top management pubblico.
Queste scelte offrono anche uno spunto ulteriore per una riflessione esistenziale sull’establishment italiano. Come abbiamo scritto in apertura l’Italia è un paese a macchia di leopardo, decentralizzato e plurale, senza una nobiltà di Stato e senza aristocrazie industriali-finanziarie, e per molti versi la formazione del suo establishment non segue le dinamiche degli altri paesi occidentali. Non ci sono università monopoliste o oligopoliste nella formazione dell’élite, non esiste un centro dominante che risiede nella Capitale, il centro politico e quello finanziario sono disaccoppiati (uno a Roma, l’altro a Milano), la ricchezza economica e produttiva è ancora molto radicata nelle province, non esiste una élite amministrativa legittimata e rispettata. Questo fa sorgere dei dubbi sull’esistenza stessa dell’establishment e ne determina ancor di più sulla sua compattezza. Contrariamente ad altre nazioni, insomma, non c’è un discorso comune portato avanti dalla classe dirigente, non c’è un epicentro fisico e istituzionale dell’élite. Ciò che si vede in televisione, si legge sui giornali, nei libri o si insegna nelle università, la cosiddetta egemonia culturale gramsciana che predomina in quei settori e che certamente non fa sconti all’attuale esecutivo, non è che la punta più visibile ed esposta di un mondo variegato e affatto compatto.
Come e cosa pensino la maggior parte di top manager privati, grandi professionisti, azionisti di banche, medi e grandi industriali non è noto ed è anzi plausibilissimo che in questi piccoli settori della società prevalga un certo pragmatismo nelle valutazioni politiche, un rapporto col potere politico di tipo negoziale, scevro da ideologie o missioni civilizzatrici. Ecco allora che il governo più a destra di sempre dalla fondazione della Repubblica, trainato da partiti in origine euroscettici e nazional-populisti, si ritrova con disinvoltura a prendere in “comodato d’uso” parti del vecchio establishment con queste che si lasciano volentieri affittare, rivendicando pure una certa vicinanza di idee e obiettivi col governo in carica. D’altronde i casi storici che mostrano l’adattamento della classe dirigente del paese ai cambiamenti politici non mancano, con una commistione tra opportunismo e senso di responsabilità.
Il più importante e famoso manager della storia d’Italia, Enrico Mattei fondatore e dominus dell’ENI, sosteneva di utilizzare i «partiti come taxi» per raggiungere i propri obiettivi. Oppure, in epoca fascista, un massone social-riformista, allievo del leader radicale Francesco Saverio Nitti, che nulla c’entrava col fascismo come Alberto Beneduce, fondatore e plenipotenziario dell’IRI, uomo di punta di quell’establishment industriale e finanziario che era sceso a patti col dittatore, riuscì da tecnico a conquistare la fiducia di Mussolini ad un livello tale da essere svincolato dalla politica di partito nella gestione della più grande holding finanziaria pubblica del paese. Insomma, in un paese in cui in quasi ogni fase storica la politica è gravata da molti pesi – il debito pubblico, l’instabilità, il ritardo nelle riforme, classe politica poco legittimata, una modernizzazione sempre un passo indietro rispetto ai paesi più avanzati – un compromesso tra alcune porzioni del decentrato establishment italiano e il partito politico di turno, qualunque esso sia, lo si trova sempre.
La somma di due debolezze, politica delegittimata ed establishment frazionato, anestetizza il cambiamento radicale. Ciò soprattutto perché in Italia manca quella civilizzazione istituzionale, che conferisce legittimità e potenza allo Stato, che è invece presente in altre esperienze storiche europee e dunque prevale sempre una logica pattizia, negoziale, piuttosto che oppositiva o direttiva, attraverso la quale interessi e risorse vengono amalgamati e ripartiti secondo logiche di veto e tutela dei micro-interessi. Per tutti questi motivi se si vuole comprendere fino in fondo il contesto del governo Meloni, con le sue contraddizioni che appaiono inspiegabili per gran parte degli altri paesi europei, bisogna guardare al rapporto storico tra la politica, lo Stato e le élite italiane. Soltanto tenendo a mente la costituzione genetica del paese “a macchia di leopardo” e la sua tendenza al continuismo istituzionale, anche nei momenti di svolta della storia politica, come metodo di governo, di sopravvivenza e risoluzione delle crisi.
Il tema del vincolo esterno, i legami internazionali ed europei che condizionano un paese politicamente debole che oscilla tra l’ansia di assumere sempre nuovi impegni all’esterno come sprone al cambiamento interno e il rigetto delle responsabilità già contratte per la resistenza degli interessi costituiti e per un alto livello di incapacità statuale, è fondamentale per analizzare molte dinamiche della politica italiana. Tuttavia, forse, ancora di più è importante, in un paese a macchia di leopardo e incline all’adattamento politico, è la separazione tra il momento politico-elettorale e il momento del comando effettivo. È nella soglia di questi due ambienti che maturano gran parte dei cambiamenti che rendono l’Italia un paese che in profondità è molto più immobile rispetto ai tumulti della superficie. Un luogo dove assai raramente si consumano vere e proprie tragedie e rotture politiche, mentre dove molto spesso, al cambio della scena, si trova l’accordo con ciò che è appena divenuto passato. Che dunque non passa.