Negli ultimi due mesi la Francia è stata coinvolta in un intenso movimento sociale. Lei è presidente della Confederazione europea dei sindacati. Come spiega a tedeschi, spagnoli e italiani la forza del movimento, che si è cristallizzato intorno alla questione dell’età pensionabile e ai malintesi che potrebbe suscitare?
In Francia, il tema delle pensioni è sempre stato molto complicato perché non abbiamo mai avuto la maturità necessaria per costruire un sistema semplice, abbiamo ancora una sovrapposizione di diversi sistemi. Ogni volta che abbiamo cercato di riformarlo, non siamo riusciti a renderlo più efficiente ed equo. Come tutti i sistemi pensionistici a ripartizione, dipende dalla demografia e dalla forza economica. In Europa c’è il pregiudizio che i francesi non vorrebbero alcuna riforma, eppure, vent’anni fa, alcuni lavoratori dipendenti contribuivano per 37 anni e mezzo, mentre presto lo faranno per 43 anni. Non possiamo dire di non aver fatto riforme pensionistiche. Sono stati fatti degli sforzi, ma il sistema non è stato unificato.
Le numerose riforme degli ultimi trent’anni (1993, 2003, 2010, 2014) sono sempre state fatte secondo un modello parametrico. Hanno inciso sul livello della pensione, sull’età o sull’anzianità contributiva. Il governo ha rivendicato ancora una volta una riforma parametrica, per rispondere soprattutto a un problema di deficit. Tuttavia, questo deficit non ha nulla a che vedere con la situazione in cui si trovavano i regimi pensionistici nel 2003 o nel 2014. Lo squilibrio annuale stimato è di 10-12 miliardi di euro. Ogni anno vengono erogati 353 miliardi di euro in prestazioni. Si tratta del 3%, quindi non tale da mettere in serio pericolo il sistema pensionistico a ripartizione.
Il Presidente della Repubblica, invece di proporre una riforma qualitativa come aveva annunciato di voler fare nel 2017 e iniziato a fare nel 2019, ha deciso, durante la campagna presidenziale del 2022, di scegliere una riforma parametrica imponendo di lavorare fino a 65 anni. Questa scelta sta destando preoccupazione in tutti i sindacati. Nel 2019, quando si è discusso della riforma sistemica, c’è stata resistenza ma solo da parte di alcuni sindacati, mentre altri erano piuttosto favorevoli alla riforma.
Oggi il Presidente della Repubblica propone una riforma puramente parametrica che mira al pareggio di bilancio, senza alcuna considerazione per la giustizia sociale. Ha dimenticato che sta proponendo questa riforma in un periodo post-pandemico.
In che senso?
In Francia, come in tutta Europa, lo spazio dato lavoro è cambiato e le professioni poco riconosciute sono state rivalutate agli occhi di tutta la popolazione, perché ci siamo resi conto che i nostri sistemi si basano su di esse. Ora, la riforma, che riguarda solo l’età legale di pensionamento, colpisce soprattutto queste professioni. Se avete studiato fino a 22 anni e avete versato contributi per 43 anni, non siete interessati da questa riforma perché lascerete comunque il lavoro a 65 anni.
Stiamo assistendo alla rivolta di questa parte della popolazione. Una categoria che era molto presente durante il periodo della pandemia: i lavoratori del settore sanitario, assistenziale, sociale, della produzione alimentare, dei rifiuti, del commercio e delle pulizie si ribellano all’idea di lavorare due anni in più. Tutte queste professioni sono state le prime a beneficiare di un sistema universale. In effetti, se l’età pensionabile legale è bassa, ciò consente anche a chi ha iniziato a lavorare prima – spesso in lavori più difficili – di andare in pensione prima. L’aumento dell’età pensionabile di due anni toglie questo vantaggio a queste professioni, mentre non riguarda le professioni intermedie e i dirigenti. In breve, in quattro o cinque anni siamo passati da un sistema universale che offriva qualche progresso ai lavoratori più modesti a una riforma parametrica che li penalizza.
Il conflitto sociale che sta coinvolgendo il Paese è il prodotto di una rottura istituzionale?
La ricerca del compromesso sociale, già poco consolidata nel nostro Paese, è completamente assente nella situazione attuale. Fin dall’inizio, il Presidente della Repubblica e il governo hanno cercato un compromesso politico con la destra, con i repubblicani. Questo compromesso si basava su un approccio finanziario al sistema pensionistico con aggiustamenti che prevedevano alcune eccezioni in base alla gravosità del lavoro e alla durata della carriera, ma si trattava di eccezioni minime.
Non c’è stata quindi la ricerca di un compromesso sociale. Non c’è stato alcuno negoziato sui 64 anni. In un mondo del lavoro scosso dal periodo post-pandemico, questo ha dato fuoco alle polveri. Il governo non credeva che ciò sarebbe accaduto.
Ritiene che il governo non abbia saputo leggere il contesto politico interno?
Il 3 gennaio, durante l’ultimo incontro che ho avuto con la Prima Ministra, le ho detto che la riforma avrebbe provocato un vero e proprio rifiuto da parte dell’opinione pubblica. Tuttavia, siamo al nono giorno di mobilitazione e abbiamo assistito a tre delle più grandi manifestazioni dagli anni Ottanta. In un Paese abituato a manifestazioni di massa, è la prova di un malcontento raro. Le mobilitazioni sono diffuse e soprattutto diverse per sociologia e geografia. In alcuni luoghi si sono registrati numeri di mobilitazione senza precedenti, anche nelle sottoprefetture. Il mondo del lavoro sta esprimendo il suo rifiuto della riforma.
Ciò si spiega con l’assenza di dialogo, con l’ingiustizia del provvedimento e con l’incomprensione della mobilitazione sociale di questi due mesi e mezzo. Lo dico ai compagni tedeschi, spagnoli e italiani: tra l’annuncio della riforma del 10 gennaio e oggi, in due mesi, non c’è ancora stato un incontro intersindacale con la Prima Ministra o il ministro del Lavoro.
La tensione è quindi duplice: sul merito e sul metodo. Questa riforma iniqua, che colpisce i lavoratori più modesti, è stata imposta aggirando l’iter parlamentare. Il veicolo legislativo scelto è finanziario e il dibattito all’Assemblea Nazionale non ha avuto luogo a causa dell’utilizzo di una procedura accelerata e dell’articolo 49 comma 3. Da giovedì scorso, oltre alla crisi sociale che era già in fase avanzata, siamo entrati in una crisi democratica.
L’età pensionabile è, in Europa, spesso più alta che in Francia: come mai? Vede l’inizio di una presa di coscienza di un nuovo rapporto con il lavoro, in Francia ma anche in Europa?
In altri sistemi pensionistici europei esiste una sola età pensionabile. In Francia ce ne sono due: l’età legale di pensionamento e l’età in cui le penalizzazioni per il pensionamento anticipato terminano, ovvero 67 anni. In media, in Francia l’età effettiva di pensionamento è di 63 anni e 4 mesi. Se osserviamo l’età effettiva di pensionamento dei nostri vicini europei, notiamo che è inferiore a quella prevista dalla riforma.
In qualità di presidente della Confederazione europea dei sindacati (CES), i miei colleghi mi hanno posto la domanda proprio questa settimana, in occasione del vertice sociale tripartito di Bruxelles. Ognuno ha il proprio sistema. Il sistema francese ha una demografia particolare, più dinamica di quella spagnola. Se prendiamo l’esempio delle donne che lavorano nelle professioni che ho già citato, esse lasciano il lavoro già all’età di 64 anni. Capisco i confronti europei, ma il confronto non è necessariamente una ragione. Per esempio, siamo uno dei Paesi in cui il tasso di occupazione degli anziani è il più basso. È del 60% in Germania, del 70% in Svezia e del 35% circa qui. È una situazione schizofrenica: dobbiamo far lavorare le persone più a lungo, ma le facciamo uscire dal lavoro prima dell’età pensionabile!
Il rapporto con il lavoro è cambiato. Bisogna rendersi conto che il mondo del lavoro nel nostro Paese è diviso in due: da una parte coloro che vogliono lavorare fino a tarda età, le professioni intellettuali, e dall’altra i settori – non solo le professioni manuali, ma a volte anche quelle intellettuali – che non ce la fanno più. Durante il lockdown, c’è stata una presa di coscienza del ruolo del lavoro nella vita. Fare in modo che la prima riforma sociale post-pandemia non riguardi il lavoro ma le pensioni crea un clima incandescente. Non dobbiamo stupirci se finisce per esplodere.
Il governo ripete spesso di non aver spiegato la necessità di questa riforma. Se seguiamo il suo ragionamento, l’opposizione alla riforma non deriva dalla mancanza di spiegazioni, ma dalla mancanza di necessità di questa riforma.
In generale, c’è bisogno di una riforma delle pensioni che renda il sistema più equo e che colmi lo squilibrio. Questo è ciò che avevamo iniziato a fare. La riforma, invece, non è necessaria perché prende in considerazione solo l’aspetto finanziario. Allo stato attuale, si risparmierebbero appena 10 miliardi di euro: è assolutamente assurdo rischiare di far precipitare la Francia nel caos per così poco.
Come si spiega che il Presidente sia disposto a rischiare così tanto per così poco?
Fin dall’inizio, questa riforma è stata un oggetto politico. Emmanuel Macron voleva competere con la destra alle elezioni presidenziali e per farlo ha raccolto la proposta principale di Valérie Pécresse, mentre lui stesso, nel 2019, aveva detto che finché il tasso di occupazione degli anziani fosse stato così basso l’età legale di pensionamento non sarebbe stata posticipata.
Le elezioni legislative non gli hanno dato una maggioranza assoluta, quindi ha voluto costruire un compromesso politico. Ma questa non è una questione politica: è una questione sociale. Quando il Presidente della Repubblica è intervenuto mercoledì, non ha parlato di lavoro. Ha parlato in modo prepotente e tecnocratico, non incarna nulla. Mi ha colpito il fatto che mercoledì scorso abbia detto che bisognava parlare di usura e di difficoltà del lavoro, ma si sarebbe dovuto fare molto prima! In ottobre abbiamo proposto al governo di fare una grande legge sul lavoro, l’occupazione e le pensioni, ma nessuno ne ha voluto sapere. Non si è cercato un compromesso sociale ma, al contrario, si è evitato l’iter parlamentare. Il risultato è una rabbia sociale che si è trasformata in rabbia democratica.
Ritiene che questa riforma abbia una dimensione europea? La Francia, nel suo piano di rilancio [il PNRR francese, ndt], si è impegnata a riformare il suo sistema pensionistico?
È un’argomentazione che sento spesso. Ma bisogna leggere cosa dice specificamente la raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea: «La semplificazione del sistema pensionistico, attraverso la standardizzazione dei diversi regimi, contribuirebbe a migliorarne la trasparenza e l’equità, avendo effetti positivi sulla mobilità del lavoro e sull’efficienza della distribuzione del lavoro, e potrebbe migliorare la sostenibilità delle finanze pubbliche…». Semplicemente, l’aumento dell’età pensionabile non è una delle raccomandazioni. Né questo punto specifico era di per sé un impegno preso dalla Francia nel suo piano di rilancio.
Sta suggerendo che si allude all’Europa per approvare misure impopolari?
Non sarebbe la prima volta. L’approccio finanziario alla riforma viene imputato all’Europa, che non ha alcuna responsabilità. Per riformare il sistema pensionistico, il governo avrebbe potuto proporre un sistema pensionistico universale a partire dal 2020. Il nostro governo non intende prendere in considerazione altre fonti di risorse, in particolare attraverso la tassazione. Certo, esiste un problema reale di debito pubblico. È un problema di spesa pubblica ma anche di debolezza delle risorse, di ingiustizia nell’allocazione delle risorse. Abbassando le imposte sulla produzione per le aziende, questo governo si sta privando di risorse, quindi l’unica leva che ha è quella delle pensioni, e si sta scontrando con un muro sociale e un’opposizione feroce.
Per quanto tempo potrà perdurare questo stato di cose?
Siamo in una situazione di stallo. Il Presidente pensava che il suo discorso avrebbe calmato la situazione ma, in realtà, ha motivato le truppe. Da giovedì sera il governo ha iniziato a capire che ci troviamo in una situazione difficile. Nella lettera intersindacale li avevamo avvertiti che la situazione era esplosiva.
Lei ha citato le proposte che avete fatto per una legge sul lavoro e sulle pensioni. Il problema di questa riforma non è anche legato al fatto che non riesce a inserirsi in una visione più generale?
Il programma del candidato Macron alle elezioni presidenziali del 2022 non ha presentato un percorso o una visione legata alle trasformazioni che stiamo vivendo. Non c’è una riflessione sul modello economico che vogliamo costruire, che sia competitivo ma che integri il fattore principale dello sviluppo dell’economia a basse emissioni di carbonio, che dovrebbe essere la prima priorità, e il mantenimento di un sistema sociale protettivo.
La crisi che stiamo attraversando contiene tre sfide: il riscaldamento globale, la crescente disuguaglianza e un problema di democrazia. Siamo una società stanca. Il giorno dopo le elezioni presidenziali, ho detto che il Presidente non poteva far finta che la questione sociale non esistesse. Il suo slogan era «con voi», ma non è successo nulla. In realtà, come abbiamo visto durante il suo ultimo discorso, è «senza di voi e lo rivendico».
Il nostro sistema istituzionale non contempla di dare potere ai diversi attori sociali del Paese. Nel campo del lavoro, dell’ecologia e della democrazia abbiamo bisogno di elaborare prospettive, di avere una spina dorsale, cosa che oggi ci manca. Non possiamo fare tutto da soli. Non si può essere di destra e di sinistra: quando si governa, non esiste «allo stesso tempo». Manca un quadro di riferimento e una riflessione sulla legittimità degli attori affinché possano trovare da soli le soluzioni. Non si agisce sul lavoro semplicemente facendo una legge.
Nel movimento sta emergendo l’impressione che l’unico strumento di negoziato sia la minaccia concreta di un’escalation. Qual è la sua opinione sull’instaurazione di un rapporto di forza costantemente sospeso al rischio di perdita di controllo e che, proprio per questo, finisce – come dimostra in parte la crisi dei Gilet gialli – per produrre effetti?
Questa è la mia principale preoccupazione per la democrazia. Qual è la prospettiva democratica di un Paese che ha speso 13 miliardi di euro dopo i Gilets jaunes, un movimento con molta violenza e molto più minoritario, e che invece non concede assolutamente nulla a un movimento intersindacale di portata storica? Inoltre, i 13 miliardi non sono stati capitalizzati da nessuno. Non c’è stato alcun guadagno democratico esplicito. Non c’è stata una forza organizzata per organizzare e portare avanti i miglioramenti.
L’intersindacale è ora strutturata e responsabile – perché la violenza degli ultimi giorni non è opera nostra. Ne siamo costernati, come tutti gli altri. Abbiamo raggiunto una impasse nella concezione del ruolo della democrazia sociale nel nostro Paese. Siamo in attesa: siamo in un vicolo cieco aspettando che la situazione si rompa definitivamente. È ancora possibile fare marcia indietro e cercare di evitare un’escalation.
Cosa propone per evitare il rischio di un’esplosione?
Dovremmo sospendere la legge, prendendo tempo. Potremmo chiedere non di ritirare la legge, ma di sospenderla. Questo ci permetterebbe di cercare e trovare un compromesso sociale più intelligente. Ma purtroppo non ci siamo ancora. Ciò richiederebbe che il Presidente della Repubblica riconosca che la sua idea non è pertinente, che non corrisponde al suo modo di agire, al suo stato d’animo.
Lei è Segretario generale della CFDT dal 2013 e nell’esecutivo nazionale dal 2003. In che misura ha assistito a un’evoluzione verso una maggiore verticalità nell’esercizio del potere? I suoi partner europei ne sono sorpresi?
Sono molto sorpresi dal fatto che dall’inizio del movimento non ci sia stata alcuna riunione. Le organizzazioni sindacali francesi in Europa hanno una doppia particolarità. Da un lato, sono molto deboli in termini di iscritti, a differenza dei nostri vicini. l numero di aderenti è superiore al nostro in quasi tutti i Paesi confinanti. D’altro canto, ai nostri sindacati è riconosciuta un’enorme capacità di mobilitazione, a differenza dei nostri vicini.
Sono rimasti molto sorpresi dalla nostra combattività, dalla nostra mobilitazione e dall’assenza di qualsiasi apertura di dialogo dal lancio del movimento, ormai più di due mesi fa. Un tale accordo tra le diverse sigle non esisteva nel 2003. All’epoca, la CFDT aveva firmato un compromesso, legato all’età, che tuttavia aveva portato nuovi diritti, in particolare per le carriere lunghe. Da quando è stato creato il sistema, più di un milione di lavoratori ne ha beneficiato. Il compromesso ha anche permesso di fare progressi sui lavori usuranti. Nel 2010 eravamo contrari all’innalzamento dell’età pensionabile. Abbiamo sempre pensato che l’età fosse la cosa più stupida nel nostro sistema pensionistico a ripartizione. All’epoca ci recavamo regolarmente all’Eliseo per cercare di trovare delle soluzioni. Nel 2014 abbiamo co-costruito la proposta di legge. Oggi ci troviamo nella stessa situazione del 2010, cioè all’opposizione, ma questa volta senza alcun interlocutore con cui discutere. Eravamo disponibili e li abbiamo chiamati per incontrarli più di una volta. Quello che vediamo è la quintessenza della verticalità.
Che ruolo potrebbe avere una dinamica inversa, nel senso di una lotta sociale su scala europea che potrebbe essere alimentata dall’esperienza di queste mobilitazioni?
Questo movimento sociale dimostra che non si possono calpestare i lavoratori che durante il lockdown hanno mandato avanti l’economia. Vedo questo movimento come uno spazio democratico. Nei cortei assistiamo alla creazione di uno spazio di dignità. Questo potrebbe ispirare altri Paesi che forse sono meno abituati a questa cultura. Le manifestazioni sono uno spazio di socialità. In città di 10.000 abitanti ci sono stati cortei di 4.000 o 5.000 persone, la gente ha reimparato a essere attivista, a discutere insieme, incontrandosi dopo i lockdown. E anche se i Gilet Gialli non sono mai stati così numerosi come i manifestanti delle ultime settimane, noto che quel movimento ci ha permesso di guardare alla questione territoriale in modo diverso, dimostrando che ci si poteva mobilitare vicino casa, che era possibile impegnarsi su diverse scale. Tra l’altro alcuni media non l’hanno ancora capito e continuano a mostrare solo le manifestazioni di Parigi.
Pensa che il Rassemblement National possa uscire rafforzato da questa sequenza? A un anno dalle elezioni europee del maggio 2024, c’è la possibilità che Giorgia Meloni produca un effetto domino?
L’estrema destra si nutre di due pilastri fondamentali: la sfiducia nelle istituzioni e il risentimento sociale, che ha le sue radici nel disprezzo per il lavoro e nella sensazione di abbandono dei servizi pubblici. Oggi in Francia ci sono tutte le condizioni per una catastrofe. La fiducia nelle istituzioni è molto bassa e il risentimento sociale è intenso.
La questione non è se Marine Le Pen salirà al potere. Il razzo è già partito, si tratta ora di deviarlo dalla sua orbita per evitare che arrivi a destinazione. Per farlo, dobbiamo tenere a mente gli obiettivi economici ed ecologici che ci siamo prefissati. Dobbiamo includere i lavoratori più modesti nel modello sociale che stiamo costruendo per migliorare la distribuzione della ricchezza, compresi i redditi più alti. Ciò richiede la riapertura di spazi democratici.
In Francia dimentichiamo sempre che la democrazia ha tre dimensioni. Innanzitutto la democrazia rappresentativa, che è fondamentale. In secondo luogo, la democrazia sociale, con i corpi intermedi che servono a rappresentare gli interessi contraddittori che attraversano una società e a metterli di fronte per creare i compromessi necessari a mantenere viva una democrazia. Infine, la terza dimensione è la partecipazione e l’ascolto della popolazione. Questa dimensione è più importante di prima perché l’istruzione ha fatto il suo lavoro e siamo sempre più connessi; questo è ciò che si esprime attraverso l’aspetto territoriale della mobilitazione. Dobbiamo articolare le tre dimensioni e portare avanti questa visione del metodo democratico e del suo contenuto. Sembra che ci stiamo dirigendo verso il disastro. Ma abbiamo ancora i mezzi per creare un effetto domino nella direzione opposta.