Il 21 luglio la sequenza fu rapida. Nell’arco di poche ore a Roma si dimette il capo del governo Mario Draghi, a Francoforte la Banca centrale europea (BCE) annuncia un nuovo programma di acquisto di titoli pubblici, e sempre a Roma il Presidente della Repubblica scioglie il parlamento. Le elezioni saranno poi fissate il 25 settembre.

Il legame tra il primo e il terzo evento è immediato. Rottasi la coalizione di unità nazionale che sorreggeva il governo, ricostruire una maggioranza parlamentare per i mesi residui della legislatura è parso impossibile. Il legame tra il secondo evento e gli altri due non è stato reso esplicito nelle dichiarazioni della BCE, ma è stretto. Perché la caduta del governo, e il vantaggio che già allora i sondaggi attribuivano alla coalizione di destra, hanno risvegliato preoccupazioni per la stabilità finanziaria e la direzione politica dell’Italia che per oltre un anno la persona di Draghi aveva sopito.

Tornerò su questo legame al termine dell’articolo, e in un secondo che vorrei scrivere dopo il voto. Qui mi concentrerò sull’ennesimo intervallo tecnocratico della politica italiana, che minaccia di essere seguito dal governo di una destra nazionalista, autoritaria,  corrotta, e ostile alle speranze di maggiore integrazione politica in Europa che la pandemia e la guerra in Ucraina hanno suscitato. Suggerirò che questa dolorosa prospettiva è dovuta a ragioni che nessuna soluzione tecnocratica poteva rimuovere.

La dolorosa prospettiva di vedere Meloni arrivare al potere è dovuta a ragioni che nessuna soluzione tecnocratica poteva rimuovere.

Andrea Capussela

Tre crisi e tre intervalli tecnocratici

Gli episodi maggiori, assieme a quest’ultimo, sono i governi presieduti da Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994) e da Mario Monti (2011-2012). Distanziati di un decennio l’uno dall’altro, quattro tratti li accomunano. Ciascuno segue una grave crisi: quella valutaria del settembre 1992, nel primo caso, esplosa mentre avanzava la più vasta inchiesta sulla corruzione politica nel mondo occidentale del dopoguerra, che decapiterà la classe dirigente; la crisi del debito europeo, nel secondo caso; nel terzo la pandemia, congiunta all’urgenza di rispondere al piano europeo di rilancio Next Generation EU. In ciascun caso l’Italia si affida a economisti dotati di cognomi plurali bisillabi e di riconosciuta competenza e credibilità: due banchieri centrali (Ciampi e Draghi), e un ex commissario europeo alla concorrenza e al mercato interno (Monti). In ciascun caso il governo, le cui figure principali sono estranee alla politica partigiana, è sostenuto da ampie maggioranze parlamentari fondate sull’accordo tra forze ordinariamente avversarie, che implicitamente si riconoscono inadeguate ad affrontare la crisi. In ciascun caso all’intervallo tecnocratico segue l’affermazione della politica demagogica o populista, e di forze che non erano parte di quelle coalizioni: le elezioni del 1994 sono vinte dalla coalizione di centro-destra, guidata dal nuovo partito Forza Italia (che ottiene il 21%); nel 2013, al suo esordio, il Movimento Cinque Stelle riscuote un successo ancora maggiore (25%), senza precedenti nell’Europa occidentale del dopoguerra; ed è probabile che la coalizione di destra, dominata dal solitario oppositore del governo Draghi, vincerà le elezioni del 25 settembre.

Ma se i governi Ciampi e Monti dovettero soprattutto lavorare sulla sostenibilità dei conti pubblici, con manovre la cui durezza contribuisce a spiegare la successiva affermazione delle forze che le avevano avversate, il governo Draghi doveva invece distribuire ingenti trasferimenti per contrastare gli effetti recessivi della pandemia, e programmare per i cinque anni successivi un enorme flusso di spesa pubblica aggiuntiva, pari a oltre il 9% del prodotto interno lordo (PIL) del 2021. Il programma è stato approvato da Bruxelles; consistenti fondi europei sono già affluiti a Roma; la ripresa dopo il picco della pandemia è stata vigorosa; e anche dal punto di vista della salute pubblica l’emergenza è stata gestita bene. Dunque perché il governo è caduto? La domanda è banale, se guardiamo alle cause immediate, ed è secondaria, se guardiamo alle cause profonde.

Il problema di fondo 

Come in una sonata la violinista e la pianista devono rispondere sincronicamente alla musica che esse stesse creano, e la platea si attende, così in una società il modello di crescita e il sistema politico devono sostenere concordemente il ritmo di sviluppo materiale e civile che la collettività domanda. In Italia entrambi gli strumenti hanno perso qualche corda, battono un ritmo sempre più esitante, e si sono avvitati in una spirale di stecche che produce una musica sempre più brutta, ma disgraziatamente armonica. Per questo l’Italia ha smesso di crescere.

Basteranno due indicatori. Il PIL pro capite, che rispetto all’aggregato è un migliore indice dello stato di salute di un’economia. E il reddito medio disponibile, che misura quanto la famiglia media ogni anno può spendere o risparmiare, ed è pari alla somma tra i redditi che essa percepisce dal mercato e il saldo tra le imposte e i contributi che essa versa allo Stato, da un lato, e le pensioni e i sussidi che da esso riceve, dall’altro. Citerò entrambi in termini reali, depurati dell’inflazione, e mi collocherò alla vigilia della pandemia, per escludere gli effetti di un trauma esogeno e auspicabilmente isolato.

Nel 2019 il PIL pro capite era ancora sette punti percentuali sotto il picco del 2007, e ristagnava su un livello pari a quello raggiunto e superato due decenni prima. Durante il medesimo ventennio in Germania, Francia e Gran Bretagna il PIL pro capite cresceva invece di percentuali comprese tra il 22 e il 35 per cento circa, aprendo un baratro con l’Italia. Ma ancora peggiore è stato l’andamento del reddito medio disponibile, sul quale ha più direttamente pesato lo sforzo di contenere il disavanzo pubblico: nel 2019 era sul livello della fine degli anni Ottanta. Per mantenere i consumi le famiglie hanno fortemente ridotto il risparmio, infatti, il cui tasso precipita dopo la metà degli anni Novanta. E chi non aveva margini spesso è caduto in povertà.

Trent’anni perduti alle spalle, anni grigi all’orizzonte. Le promesse tradite della rivoluzione neo-liberale hanno seminato insoddisfazione pressoché ovunque in Occidente, ma il declino dell’Italia è singolare. È questa l’origine dello scontento che gonfia la demagogia e il populismo, congiunta allo spettacolo della felice sicurezza e stretta collusione di larga parte delle élite politiche ed economiche – forse la più visibile manifestazione delle disuguaglianze.

Nel 2019 il PIL pro capite era ancora sette punti percentuali sotto il picco del 2007, e ristagnava su un livello pari a quello raggiunto e superato due decenni prima. Durante il medesimo ventennio in Germania, Francia e Gran Bretagna il PIL pro capite cresceva invece di percentuali comprese tra il 22 e il 35 per cento circa, aprendo un baratro con l’Italia.

Andrea capussela

Alle elezioni del 2013 e del 2018 questi sentimenti premiarono il Movimento Cinque Stelle, che prometteva protezione economica e una politica più «pulita» e aperta. Tra quelle due date si consumò la stagione del Partito democratico di Matteo Renzi, di orientamento più liberale, che presto deluse le speranze che suscitò. Poi fu il turno della Lega di Matteo Salvini, che superò il 34% delle elezioni europee del 2019 promettendo invece tolleranza per l’evasione fiscale e protezione «identitaria». E da ultimo la flessione della Lega è coincisa con l’ascesa dei Fratelli d’Italia di sorella Giorgia Meloni, con un’offerta simile (dal 2019 i sondaggi assegnano ai due partiti dell’estrema destra percentuali congiunte comprese tra il 35% e il 40%).

Cause economiche

Le cause immediate sono chiare. L’Italia non cresce soprattutto perché la produttività è ferma, e questo motore di crescita si è spento principalmente perché troppi lavoratori e capitali sono dispersi in troppe imprese troppo piccole per l’attuale paradigma tecnologico. Il problema è riassunto da questi dati, spesso citati dall’attuale Governatore della Banca d’Italia:

25.000 imprese medio-grandi (con più di 50 addetti) producono quasi la metà del valore aggiunto del settore industriale e dei servizi non finanziari, con quasi 6 milioni di addetti; l’altra metà è prodotta da 4,3 milioni di piccole imprese, con 6 milioni di addetti, e da 4,8 milioni di lavoratori autonomi. [Quelle 25.000 imprese] sono spesso più produttive delle corrispondenti imprese francesi e tedesche, [mentre le altre] sono molto meno produttive di quelle dei principali concorrenti […]. Se l’Italia avesse la stessa struttura dimensionale delle imprese tedesche, la produttività media del lavoro sarebbe di oltre 20 punti percentuali più alta, superando il livello tedesco.1

Ovunque le imprese nascono piccole, ma col tempo crescono, si aggregano, o escono dal mercato. In Italia troppo spesso esse vivacchiano, senza né crescere né aggregarsi né perire, tenendo sequestrati nelle loro inefficienti strutture lavoratori e capitali che altrove sarebbero più produttivi. In altre parole, troppo raramente i fattori di produzione riescono a organizzarsi su scale adeguate ai requisiti della tecnologia contemporanea: se lo facessero più spesso gli attuali livelli tedeschi di produttività sarebbero un obiettivo realistico. 

Ovunque le imprese nascono piccole, ma col tempo crescono, si aggregano, o escono dal mercato. In Italia troppo spesso esse vivacchiano, senza né crescere né aggregarsi né perire, tenendo sequestrati nelle loro inefficienti strutture lavoratori e capitali che altrove sarebbero più produttivi.

andrea capussela

Le cause di questo difetto di organizzazione verosimilmente risiedono nelle regole che governano l’economia.2 E più che nella loro qualità, che raramente è pessima, il problema sta nella credibilità delle regole. Su questo disponiamo di un indicatore della Banca mondiale che misura quanto le leggi siano generalmente rispettate in ogni economia, secondo una scala che va da 2,5 a –2,5, e permette di comparare l’Italia ai suoi pari (ho scelto Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti). Nel 2019 il livello dell’Italia era 0,28, la media dei suoi pari 1,43. Un baratro, nuovamente: l’Italia è più vicina alle nazioni balcaniche, la cui media è –0,02. E anche in questo caso la traiettoria è declinante. Nel 1996, quando iniziarono queste stime, il livello dell’Italia era 1,06 e la media dei suoi pari 1,50: un divario (–0,44) inferiore alla metà di quello del 2019 (–1,15). Questo indicatore è fondato sulla rilevazione di percezioni, e va letto con cautela; ma il quadro che ci consegna collima con quanto sappiamo sull’evasione fiscale, la corruzione, l’abusivismo edilizio, il lavoro nero. In Italia la supremazia della legge è debole: le regole sono rispettate sensibilmente meno che nei suoi pari.

Più spesso le leggi sono violate meno saranno credibili. Meno le leggi sono credibili più bassa sarà la fiducia reciproca, perché ciascuno penserà che le proprie controparti potrebbero violarle. Ma la fiducia reciproca è cruciale sia per la competizione sul mercato sia per la cooperazione nelle imprese: «molta dell’arretratezza economica presente nel mondo può essere spiegata dall’assenza di fiducia reciproca».3 E questo non è che uno dei canali tramite i quali la debole supremazia della legge contribuisce al declino dell’Italia.

Cause politiche

Nel Gorgia Platone fa dire a Callicle che le leggi sono scritte nell’interesse dei «deboli», ossia dei «molti» (483b). Ai forti basta la legge del più forte. Oltre a deprimere produttività e crescita, pertanto, la debole supremazia della legge accresce il potere dei pochi sui molti. Ma se i molti sono individualmente deboli, agendo collettivamente essi possono scrivere leggi che vincolano anche i forti. Quindi in democrazia la supremazia della legge non dovrebbe declinare a lungo, perché grazie al voto e alla parola pubblica i molti possono pretendere e ottenere che essa sia rafforzata. In Italia la supremazia della legge resta debole perché è parte di un più ampio equilibrio politico-economico, nel quale  anche la responsabilità politica è relativamente debole e gli ostacoli all’azione collettiva dei cittadini sono relativamente elevati.

Di nuovo, il problema non risiede tanto nelle regole formali, scritte nella costituzione, quanto nelle organizzazioni che dovrebbero guidare l’azione collettiva. Privi di cultura politica, instabili, inclini più a colludere che a competere, abbracciati allo Stato, distanti dalla società, vulnerabili agli interessi particolari organizzati, i partiti politici italiani mancano sia della capacità sia dell’intenzione di organizzare l’azione collettiva. È vero che il modello tradizionale di partito – animato da una chiara cultura politica, organizzato democraticamente, radicato nella società – soffre anche in altre democrazie occidentali, ma basteranno pochi dati e un esempio per attestare che in Italia il problema è particolarmente grave.

I dati riguardano la capacità dei partiti di legare a sé cittadini ed eletti. Nel 1946 i due partiti maggiori avevano poco meno di 4 milioni di iscritti congiuntamente: oggi, in una popolazione di quasi un terzo più numerosa, ne hanno circa mezzo milione. E quanto i cittadini sono meno inclini a iscriversi ai partiti, tanto sono meno assidui nel votarli. Alle elezioni del 2013 il 37% degli elettori votò per un partito diverso rispetto all’elezione precedente: una percentuale seconda solo al 40% del 1994, che fu senza precedenti tra le democrazie consolidate europee. E nel 2018 la volatilità elettorale segnò il terzo picco della storia repubblicana, 27%, oltre il doppio della media del mezzo secolo dopo la guerra.

Nel 1946 i due partiti maggiori avevano poco meno di 4 milioni di iscritti congiuntamente: oggi, in una popolazione di quasi un terzo più numerosa, ne hanno circa mezzo milione. E quanto i cittadini sono meno inclini a iscriversi ai partiti, tanto sono meno assidui nel votarli.

Andrea capussela

In parallelo si è moltiplicato il numero degli eletti che nel corso di una legislatura si spostano da un partito – ossia da un gruppo parlamentare – all’altro. Durante quel mezzo secolo alla Camera dei deputati – che ha 630 componenti – si registravano in media 19 spostamenti per legislatura. Dopo il 1994 la media sale a 136. La legislatura 2013-2018 segna il picco: 304 spostamenti, che coinvolsero 208 deputati (molti dei quali si spostarono più di una volta). Nella legislatura successiva, appena terminata, gli spostamenti sono stati 198 e hanno coinvolto 146 deputati. Altrove questo fenomeno è eccezionale, e riflette le conversioni o le crisi di coscienza di isolati parlamentari; in Italia è antico, sebbene mai avesse preso simili dimensioni, e ha un nome: «trasformismo». È facile prevedere che molti candidati alle elezioni del 25 settembre finiranno la legislatura in un partito diverso da quello che tra poco elargirà loro il seggio parlamentare.

Non ho usato a caso quest’ultima espressione, perché ciascuna delle tre riforme elettorali dell’ultimo quindicennio – 2005, del centro-destra; 2015 e 2017, del centro-sinistra – affidava il potere di selezionare i parlamentari alle dirigenze dei partiti, in sostanza, non agli elettori: potere che esse generalmente esercitano tramite negoziati confidenziali tra fazioni di partito, reti clientelari e interessi particolari organizzati. Questi parlamentari non sono veramente liberi, pertanto, perché dipendono interamente dai loro capi per la selezione e la rielezione; ma siccome la volatilità elettorale è alta e i partiti sono deboli, i loro eletti frequentemente li tradiscono spostandosi sotto chi offre maggiori probabilità di rielezione, o altri vantaggi.

Non sorprenderà che simili parlamentari siano disposti a esprimere anche voti stravaganti, se richiesti dai loro capi. Farò un esempio, ma prima voglio ricordare che nessuna democrazia consolidata ha fatto tre profonde riforme elettorali in così poco tempo. Nessuna, credo, ha mai avuto leggi elettorali così partigiane come queste. E nessuna ha mai visto la propria massima autorità giudiziaria dichiarare incostituzionale la legge elettorale, come invece è accaduto a due di quelle tre leggi (quella del 2005, impiegata in tre elezioni, e quella del 2015, annullata prima di essere applicata). Un cane mansueto col padrone e aggressivo con gli altri ha un problema ed è un problema. Lo stesso può dirsi del sistema politico che ha prodotto quelle tre pessime leggi elettorali, troppo spesso dimenticate nei commenti sull’Italia. Esse confermano la silhouette dei partiti italiani che ho tracciato sopra, e attestano la loro inclinazione a rispondere al discredito che raccolgono nella società non ideando politiche più rispondenti alle sue domande e aspirazioni, ma chiudendosi nel fortino dello Stato: soluzione che consente loro di mantenere consenso modulando opportunamente la spesa pubblica e la regolazione dell’economia, ma che allarga il fossato che li separa dai cittadini.

Ruby e la tecnocrazia

Ecco l’esempio. Nel 2010 una giovane prostituta nordafricana, Ruby, ebbe problemi con la polizia. La ragazza si era concessa a Silvio Berlusconi, allora capo del governo, che volle aiutarla. Accusato di interferenza, egli si difese dicendo che quando chiamò la polizia era convinto che Ruby fosse nipote del Presidente egiziano Hosni Mubarak, e fece quella telefonata per evitare un incidente diplomatico. La cosa finì in parlamento. In assenza di alcun serio riscontro a una tesi così implausibile, il 3 febbraio 2011 la Camera fu costretta a chiedersi se Berlusconi avesse detto il vero: 315 deputati su 614 presenti risposero «sì». Oltre a una ventina di trasformisti, i 315 includono tutti gli eletti del centro-destra. Nessuno si sottrasse al voto, neppure simulando un’indisposizione, e nessuno ne subì conseguenze. Quattro sono ministri del governo Draghi, e pressoché tutti quelli che sono rimasti in politica – inclusa Giorgia Meloni, per esempio – sono ora candidati nella coalizione di destra.

Qualche mese dopo questo voto la crisi del debito europeo investì l’Italia. Urgeva un’energica correzione dei conti pubblici, che avrebbe comportato consistenti sacrifici per gli italiani. Poteva chiederli una classe dirigente che aveva appena prostituito il massimo organo rappresentativo della Repubblica, dopo averla esposta alla sfiducia dei mercati? Berlusconi salì al palazzo del Quirinale per dimettersi; nella piazza antistante la folla intonò il Te Deum; e il governo fu affidato a Mario Monti, che fece una durissima manovra finanziaria. 

È questa l’origine del ricorrente ricorso alla tecnocrazia: la congiunzione tra una classe politica screditata, un elevato rapporto tra debito pubblico e PIL, e l’insorgere di una crisi minacciosa. Ma se i governi detti «tecnici» ricevevano carta bianca per la gestione della crisi, essi dovevano negoziare le riforme orientate sul medio e lungo periodo con quella stessa classe politica, che dopo l’iniziale disorientamento tendeva a riorganizzarsi e, calata l’indignazione popolare, faceva nuovamente pesare i propri interessi. Questi sono tendenzialmente orientati alla conservazione di un equilibrio politico-economico che condanna l’Italia a un lento declino, ma assicura apprezzabili rendite a larghi segmenti delle sue élite politiche ed economiche (e minuti vantaggi a numerose minoranze). Ma non è questa la sola ragione che limita l’efficacia della soluzione tecnocratica alla mera gestione delle crisi. Le altre sono la sua natura episodica e temporanea, l’ampiezza e l’eterogeneità delle coalizioni parlamentari che la sorreggono, e l’assenza di un serio dibattito pubblico sui suoi programmi. Ciò rende i governi tecnici incapaci di offrire credibilmente ai cittadini la visione di un’Italia migliore, che può nascere solo nel conflitto pubblico tra opzioni politiche diverse. Ma senza darsi una simile visione quale orizzonte ideale ogni riforma minimamente ambiziosa perde credibilità.

Il caso Ruby è all’origine del ricorrente ricorso alla tecnocrazia: la congiunzione tra una classe politica screditata, un elevato rapporto tra debito pubblico e PIL, e l’insorgere di una crisi minacciosa.

andrea capussela

I tre decenni passati sono stati punteggiati da numerose riforme, infatti, disegnate da governi sia tecnici sia politici – di centro-sinistra (1996-2001, 2006-2008), di centro-destra (2001-2006, 2008-2011), e di coalizioni più larghe o eterogenee (2013-2018, 2018-2019, 2019-2021).4 Molte di quelle riforme apparivano buone, poche pessime. Non hanno arrestato il declino sia perché sono state distorte nell’attuazione, a causa della debole supremazia della legge e della pressione degli interessi particolari che minacciavano, sia perché a ogni cambio di maggioranza – ossia a ogni elezione: dal 1994 nessun governo è stato confermato dal voto – diverse riforme della legislatura precedente erano svuotate o sovvertite. Ma la ragione di fondo è quella che ho appena accennato: siccome quelle riforme non furono oggetto di seria discussione pubblica, né rispondevano a una visione largamente condivisa dello sviluppo del paese, cittadini e imprese non si mossero per pretendere che l’élite politica le attuasse correttamente, né cambiarono a sufficienza i propri comportamenti.

L’ostacolo allo sviluppo civile e materiale dell’Italia è l’equilibrio politico-economico sul quale è adagiata. Le sue élite politiche ed economiche sono inadeguate, con molte eccezioni, perché sono il prodotto delle inefficienze di quell’equilibrio, e sono conservatrici, nel complesso, perché sono beneficiarie delle sue iniquità. Questi sono ostacoli che la tecnocrazia può momentaneamente aggirare, per spegnere gli incendi che periodicamente si accendono, ma non rimovere: per questo occorre una chiara scelta politica dell’elettorato, che quelle élite non offrono e la tecnocrazia non può stimolare.

Draghi e le riforme

Il programma di investimenti e riforme – il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) – che il governo Draghi ha scritto, e Bruxelles ha entusiasticamente approvato, promette molte buone cose. Ma neppure esso è nato nella discussione pubblica e nel conflitto politico, né restituisce una visione chiara e credibile del futuro dell’Italia. Eleverà sicuramente il tasso di crescita, grazie a investimenti ingenti e spesso opportunamente mirati, ma non è scontato che sposterà la società su un equilibrio politico-economico superiore. Le riforme critiche sono quelle della pubblica amministrazione, della concorrenza e del sistema giudiziario. Quest’ultima è stata avviata ed è promettente. La seconda è in corso di attuazione, la prima in gestazione: quindi entrambe potrebbero essere riviste dalla probabile futura maggioranza di destra (che ha istinti protezionistici e inclinazione clientelare). Ma la principale ragione di perplessità è che ciascuna di queste riforme ha precedenti altrettanto ambiziosi nei passati tre decenni, che ebbero effetti deludenti. L’esempio migliore è la concorrenza.

Le prime discussioni su una legge che promuovesse la concorrenza anche nei mercati interni risalgono a oltre sessant’anni fa. La legge fu adottata trent’anni dopo, nel 1990. Fu una buona legge, ritagliata su modelli europei; ma ricerche pubblicate dalla Banca d’Italia suggeriscono che ebbe effetti modesti.5 L’intensità della concorrenza aumentò soprattutto grazie al crescere delle pressioni competitive esterne, dopo l’avvio del mercato unico europeo, nel 1993, e dopo l’introduzione dell’euro, ma restò relativamente debole a paragone delle altre grandi economie europee.

Il PNRR afferma l’impegno ad adottare regolarmente la legge annuale di revisione delle regole in materia di concorrenza e regolazione dei mercati, che è obbligatoria dal 2009 ma è stata fatta solo nel 2017. I contenuti che il PNRR assegna alle revisioni dei prossimi cinque anni paiono convincenti. Ma quando queste indicazioni sono state tradotte in legge gli interessi conservatori si sono fatti sentire. Nel silenzio degli altri membri della coalizione, per esempio, la Lega è riuscita a salvare anche privilegi indifendibili (le concessioni delle spiagge, in passato elargite senza gara e a prezzi derisori).

Il problema maggiore però è a monte. Se passare da non avere alcuna legge sulla concorrenza ad averne una, buona, ebbe effetti modesti, è difficile pensare che le revisioni annuali avranno effetti maggiori. Per irrobustire la concorrenza sui mercati interni bisogna innanzitutto persuadere cittadini, lavoratori e imprese del suo valore. E occorre una vera battaglia di idee, che non è mai stata fatta, perché la concorrenza è un tema controverso. Essa può dare spinte vigorose all’innovazione e alla produttività, e può erodere la concentrazione del potere economico e le sue rendite, ma deve essere affiancata da un sistema di protezione sociale efficace e genuinamente universalistico, che l’Italia ancora non ha, e deve essere esclusa dagli ambiti nei quali la società la giudichi indesiderabile (come potrebbe essere il caso della sanità, per esempio). In altre parole, è difficile condurre i cittadini ad abbracciare il valore della concorrenza senza discutere il modello di società che essi desiderano avere, ossia senza avere in mente una visione dell’Italia futura. Il governo Draghi non ha offerto una simile visione, comprensibilmente, ma non ha neppure tentato di spiegare ai cittadini il senso della riforma della concorrenza, per aiutarli a comprendere che le resistenza della Lega e di altri non promuovevano una plausibile visione dell’interesse generale ma proteggevano interessi particolari.

La caduta di Draghi

Il governo Draghi è caduto diversi mesi prima della sua scadenza naturale, che coincideva con la durata della legislatura. Ed è caduto in un momento particolarmente inopportuno, perché la manovra finanziaria per il 2023 deve essere inviata a Bruxelles entro metà ottobre, quando il nuovo governo potrebbe non essere ancora stato formato, e deve essere approvata entro l’anno. Una manovra difficile, tra l’altro, che dovrà affrontare le sfide dell’inflazione, della crisi energetica, e di un netta flessione della crescita (0.9% nel 2023, secondo le ultime proiezioni della Commissione europea, a fronte di una media dell’1.4% nell’eurozona).

È caduto perché all’avvicinarsi delle elezioni l’accordo tra avversari che sorregge i governi tecnici tende a indebolirsi. Ogni partito ha interesse a differenziarsi dagli altri, per accrescere i propri consensi, e quelli che sono premiati dai sondaggi hanno interesse ad anticipare il voto. In questo caso l’operazione era delicata perché Draghi e il suo governo godevano di larga popolarità; ma la destra è stata abile a sfruttare un’impuntatura del Movimento Cinque Stelle per far cadere il governo senza assumersene apertamente la responsabilità, come fece nel caso del governo Monti.

Con la caduta del governo Draghi si è alzato il velo che per oltre un anno aveva coperto il desolante spettacolo della politica italiana. Bruscamente, con l’inizio della campagna elettorale i più diretti responsabili del trentennio perduto sono tornati sulla scena. Nessuno parla del declino della nazione, nessuno offre plausibili strategie per arrestarlo.

andrea capussela

Con la caduta del governo Draghi si è alzato il velo che per oltre un anno aveva coperto il desolante spettacolo della politica italiana. Bruscamente, con l’inizio della campagna elettorale i più diretti responsabili del trentennio perduto sono tornati sulla scena. Nessuno parla del declino della nazione, nessuno offre plausibili strategie per arrestarlo.

La campagna elettorale

La coalizione di destra – Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – non parla del declino perché apprezza l’equilibrio politico-economico che ne è la causa primaria. Quell’equilibrio offre consistenti vantaggi a larghi segmenti delle élite economiche, e minuti privilegi a numerose categorie professionali (come i milioni di piccoli imprenditori e lavoratori autonomi) e gruppi sociali (come i milioni di evasori fiscali e di residenti in abitazioni abusive). La destra promette di mantenere entrambi, assicurandosi largo e solido sostegno tra i beneficiari, e raccoglie consenso tra gli esclusi dirigendo le loro inquietudini verso capri espiatori, come gli immigrati o Bruxelles, o sviandole su accese battaglie «culturali» sopra temi come il matrimonio, la procreazione o l’«identità» della nazione.

L’analisi è meno piana per la coalizione di centro-sinistra, che raccoglie esigue formazioni verdi, liberali e di sinistra attorno al Partito democratico. In essa esistono voci critiche dello status quo, e l’aspirazione a superarlo. Ma quel partito è vulnerabile a interessi conservatori, delle élite economiche e di altri beneficiari dell’equilibrio presente; è disunito in fazioni e reti clientelari; e ciascuna sembra dare maggiore importanza alla propria conservazione che agli interessi del partito o della nazione. Nel 2021 l’allora segretario politico disse che mentre montava la terza ondata della pandemia nel partito «si parl[ava] solo di poltrone e primarie», ossia di distribuzione del potere e delle rendite di posizione; lo descrisse come un partito in preda a «una guerriglia quotidiana», del quale si «vergogna[va]».6 Un simile partito, figlio dei problemi descritti sopra, non pare in grado di aggredirli.

Certo non ha usato questi ultimi anni per articolare una seria analisi del declino dell’Italia e una credibile strategia per uscirne. Sebbene sia più incoraggiante di quello della destra, il suo programma elettorale parla pochissimo di produttività, concorrenza e dimensione media delle imprese; ignora i problemi dell’azione collettiva, della responsabilità politica e della supremazia della legge; e anche all’evasione fiscale e alla corruzione dedica solo brevi e rituali menzioni. Un simile programma non offre agli esclusi del sistema – ossia ai molti che subiscono le inefficienze e le iniquità del presente equilibrio politico-economico senza ricavarne vantaggi o privilegi compensativi – alcuna credibile prospettiva di superarlo. È dunque comprensibile che molti di essi preferiscano una destra che promette ulteriori vantaggi compensativi, infiorati di una retorica nazionalista e xenofobica. 

Sinora la campagna elettorale del centro-sinistra ha battuto più sui pericoli di una larga vittoria della destra che sul proprio programma.

andrea capussela

Infatti sinora la campagna elettorale del centro-sinistra ha battuto più sui pericoli di una larga vittoria della destra che sul proprio programma. Ma questa linea è frontalmente contraddetta dalla scelta del Partito democratico di escludere ogni alleanza col Movimento Cinque Stelle, col quale collabora dal 2019, e al quale i sondaggi assegnano percentuali di consenso superiori al 10% (la destra è stimata sopra il 45%, il centro-sinistra poco sotto il 30%). La ragione dichiarata – l’incidente che ha innescato la crisi di governo – è poco convincente, essendo l’inetta gestione di quell’episodio coerente coi passati comportamenti dei Cinque Stelle. La vera ragione verosimilmente è l’intenzione di indebolire un avversario egualmente alternativo alla destra – correndo da solo, con la vigente legge elettorale il Movimento rischia di ottenere davvero pochi seggi. Scelta legittima, naturalmente, ma indicativa di quanto competizione e collusione siano intrecciate nei rapporti tra i partiti italiani.

Le altre due formazioni che entreranno in parlamento meritano solo un accenno. I Cinque Stelle sono nati in opposizione allo status quo ma non paiono sapere cosa esso sia. Sebbene i loro temi fondanti – legalità e rappresentanza – si prestino ad articolare una critica dell’equilibrio sul quale l’Italia è assestata, essa non è mai stata fatta; né una strategia per superarlo è mai stata proposta. Questi difetti contribuiscono a spiegare il suo declino, che pare irreversibile. Esiste poi una piccola lista di trasformisti, tutti eletti in partiti diversi, che si dicono liberali e fedeli all’«agenda Draghi». Apparentemente scommettono su una limitata vittoria della destra, alla quale offrirebbero la propria partecipazione al governo quale patente di rispettabilità. Ma dei quattro candidati principali uno è forse il capo politico meno affidabile tra quelli in attività, due votarono «sì» nel caso Ruby, essendo cresciute con Berlusconi, e l’altro è Renzi.

Pressione interna ed esterna

Se dunque la destra è la principale avversaria di ogni prospettiva di rilancio dell’Italia, nelle sue attuali condizioni il Partito democratico è un ostacolo non meno rilevante, perché comprime il flusso principale delle domande di cambiamento dentro una politica del tutto inadeguata al fine che professa. Lo stesso è vero sul piano dell’integrazione europea.

Se la destra prenderà il governo fisserei le mie speranze su due cose. Innanzitutto spero che il nuovo programma di acquisto di titoli della BCE – e indirettamente le condizioni per la sua attivazione – evitino crisi di fiducia nei mercati, che potrebbero rivelarsi più pericolose di quella del 2011-2012. Poi spero che il Partito democratico riceva sufficiente pressione, dal basso e dall’esterno, per trasformarsi da ostacolo in veicolo di rilancio: ossia per formulare una seria analisi del declino dell’Italia e una credibile strategia per tornare allo sviluppo, mirando sia agli interessi immediati degli esclusi sia agli interessi di più lungo periodo dei beneficiari. Su questo tornerò dopo le elezioni – quando dovrò anche dare conto di un’impegnativa metafora usata in un altro articolo per il Grand Continent, nel quale paragonai l’Italia non a uno stivale ma a una colonna.

Se per cinque anni questa destra sgovernerà l’Italia e congelerà ogni progresso nell’integrazione europea, la colpa sarà del Partito democratico.

andrea capussela

Qui vorrei concludere, seguendo la linea di quell’articolo, chiarendo perché auspico pressione anche dall’esterno sul Partito democratico.

Se il lupo massacra indisturbato gli agnelli, la colpa è del guardiano che dormiva. Se per cinque anni questa destra sgovernerà l’Italia e congelerà ogni progresso nell’integrazione europea, la colpa sarà del Partito democratico. La debolezza dell’Italia e del suo unico grande partito responsabile ed europeista è un problema europeo, e non è superabile con soluzioni tecnocratiche. È interesse di ogni governo e partito europeo non alleato della destra italiana favorire la maturazione del Partito democratico, o la sua sostituzione con altri veicoli per quelle istanze. Attuare questo interesse sarà difficile, ma questi ultimi dieci anni suggeriscono che la pressione endogena potrebbe essere insufficiente.

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Note
  1. I. Visco, Economic growth and productivity: Italy and the role of knowledge, «PSL Quarterly Review», vol. 73 (2020), pp. 215 e 217.
  2. Ho tentato di proporre questa interpretazione in Declino. Una storia italiana, LUISS University Press, Roma, 2019), e in Declino Italia, Einaudi, Torino, 2021.
  3. K. Arrow, Gifts and Exchanges, «Philosophy and Public Affairs», vol. 1 (1972), p. 357.
  4. Cfr. K. Armingeon, L. Baccaro, A. Fill, J. Galindo, S. Heeb e R. Labanino, Liberalization Database 1973-2013, Zurigo, Trento, Ginevra e Colonia, 2019.
  5. C. Giordano e F. Zollino, Macroeconomic estimates of Italy’s mark-ups in the long-run, 1861-2012, «Quaderni di Storia Economica» n. 39 (2017), Banca d’Italia, Roma.
  6. Zingaretti si dimette da segretario Pd: “Nel partito si parla solo di poltrone, mi vergogno”, «la Repubblica», 4 marzo 2021.