Non deve essere facile per un osservatore estero approcciarsi alle dinamiche della democrazia italiana. Al netto di taluni fenomeni recenti per certi versi comuni a tutti i paesi occidentali – emersione di movimenti più o meno populisti, radicalizzazione, volatilità dell’elettorato, istanze sovraniste – il laboratorio italiano presenta diversi profili peculiari, che la corsa alle elezioni del 25 settembre sta mettendo in luce in modo piuttosto nitido.
Se già dopo il crollo del sistema dei partiti che aveva guidato la vita politica della prima repubblica cominciano a delinearsi alcuni sintomi della dimensione patologica in cui in seguito sprofonderà la democrazia italiana – in particolare, la fragilità dell’artificiale bipolarismo destra-sinistra, interrotto dal ricorso ai primi governi “tecnici” – sono gli ultimi dieci anni a riassumere al meglio tutte le storture della stessa: una sovranità di fatto limitata dall’infrastruttura giuridica comunitaria, specie con riferimento ai fondamentali del debito pubblico e del deficit, nonché a livello monetario; una classe dirigente sovente compiaciuta di tale vincolo esterno, considerato come l’unico modo per riformare un paese irriformabile; ulteriori vincoli concernenti la politica estera, a partire dall’adesione ai dettati atlantici; di conseguenza, una incapacità delle classi dirigenti di individuare un interesse nazionale, spesso subordinato ai predetti dettati esterni o iscritto in una astratta dimensione europea, sempre in un’ottica di de-responsabilizzazione e affidamento a piloti automatici; la presenza di partiti più inclini ad adeguarsi a questi dettati, profondamente radicati nelle strutture di potere e quasi senza soluzione di continuità presenti nelle maggioranze governative; l’emergere di partiti considerati inaffidabili e anti-sistema, la cui possibilità di vittoria viene vista come un problema all’esterno, con la latente minaccia di una reazione dei mercati finanziari; la presenza del Quirinale come garante dei vincoli esterni, anche grazie al potere di nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri previsto dalla Costituzione; l’utilizzo, nella prassi concreta, di tale potere per mantenere il paese in una posizione coerente con i vincoli di cui sopra; nel mentre, un’astensione in continua crescita, con un sempre più marcato distacco tra paese legale e paese reale.
Come interpretare, alla luce di queste categorie, la possibile vittoria della coalizione di destra alle elezioni del 25 settembre? Ovviamente, tutto può succedere. Certo è che, secondo i sondaggi, la coalizione potrebbe arrivare poco sotto la maggioranza assoluta a livello proporzionale, risultato che andrebbe integrato poi con il correttivo maggioritario della legge elettorale: ciò significa una potenziale ampia maggioranza nei seggi. Al momento, il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, è nettamente alla guida della coalizione, inseguito da una Lega Nord e Forza Italia sempre più deboli. Motivo per cui gli occhi di tutti gli osservatori, nazionali ma soprattutto internazionali, sono puntati sulla leader di Fratelli d’Italia, cui presumibilmente il capo dello Stato Mattarella “dovrebbe” dare l’incarico di formare il nuovo governo.
Fratelli d’Italia è considerato un partito nazionalista, populista e post-fascista; accusato di tentazioni nostalgiche, negli anni scorsi si è fatto anche portatore di istanze euro-scettiche. Nel complesso, nonostante operi da molto tempo nella vita politica e democratica del paese (Giorgia Meloni è stata anche Ministro nel quarto governo Berlusconi dal 2008 al 2011), per la maggior parte degli osservatori rimane un partito potenzialmente anti-sistema, una novità in grado di destare preoccupazioni (si legga in merito l’approfondimento di Lorenzo Castellani su questa Rivista); dopotutto, se alle ultime elezioni del 2018 non arrivava nemmeno al 5%, ora stando ai sondaggi potrebbe collocarsi oltre il 25%. La possibilità concreta di un governo Meloni sta costringendo, da un lato, i diversi stakeholder – cancellerie estere, imprese, élite finanziarie – a interessarsi alla leader di Fratelli d’Italia, dall’altro, quest’ultima, a tratteggiare una propria immagine più rassicurante rispetto agli interessi dei medesimi.
Questo aspetto è degno di nota, nonché esemplificativo: l’esigenza di Giorgia Meloni di rivolgersi agli osservatori esteri per dipingersi come moderata e affidabile non è un primo passo verso la negazione stessa delle istanze politiche da questa portate avanti? Se la leader di Fratelli d’Italia è riuscita (sta riuscendo) a raccogliere i malumori dell’elettorato incanalandoli in un percorso di destra per certi versi radicale, ossia che non si vuole limitare a piccoli aggiustamenti dello status quo, ma che intende cambiare le carte – su immigrazione, tasse, vincoli europei, multinazionali – per quale motivo si vede poi costretta a rinnegare, in parte, la propria dimensione politica davanti agli stakeholder esteri? Il vincolo esterno pare operare già prima dell’insediamento del potenziale governo, con l’effetto di scindere la campagna elettorale di Fratelli d’Italia in due direzioni: quella dei messaggi rivolti verso l’interno e quella dei messaggi rivolti verso gli attori internazionali.
Nello scacchiere politico italiano, un simile fenomeno si verifica solo con determinate realtà. Ad esempio, il Partito Democratico rappresenta, da questo punto di vista, l’incarnazione della completa adesione ai vincoli esterni, la garanzia di un sistema di governo per sua essenza non radicale. Dal sostegno incondizionato agli esecutivi tecnici (Monti e Draghi), ai governi di larghe intese, fino al Conte II, il PD è sempre stato protagonista delle maggioranze governative degli ultimi dieci anni, salvo la brevissima parentesi del Conte I – la cui brevità, peraltro, non stupisce più di tanto. In tutti questi casi, il Partito Democratico rappresentava il volto dell’affidabilità e, in particolare, di scelte politiche ed economiche moderate, circoscritte in quell’unico spazio di manovra che un paese come l’Italia, a detta dei fautori del vincolo esterno, può realisticamente ritagliarsi: non rivoluzioni né stravolgimenti né, soprattutto, la messa in discussione di capisaldi come l’alleanza atlantica e l’adesione all’Unione europea. Se in questa campagna elettorale fosse la coalizione del Partito Democratico ad essere premiata dai sondaggi, cancellerie straniere e mercati finanziari sarebbero decisamente più tranquilli: niente di nuovo sul fronte occidentale.
Stessa postura, per quanto dal punto di vista elettorale conti meno, è quella del Terzo Polo (l’alleanza tra l’ex Premier Renzi e l’ex Ministro Calenda), che ha imperniato la campagna elettorale proprio sul realismo del vincolo esterno. L’offerta politica di questa alleanza liberal-centrista si sostanzia di fatto in una realistica accettazione dei vincoli cui l’Italia è sopposta, da cui derivano una serie di proposte presentate come credibili, nonché attuabili, in contrapposizione con il populismo di chi promette mondi-altri. Una sorta di messaggio che vorrebbe premiare il pessimismo dell’intelligenza rispetto all’ottimismo della volontà, tale da fare breccia soprattutto tra chi se lo può permettere, ovvero coloro che traggono benefici dallo status quo, o comunque che non ne sono totalmente esclusi, e che hanno la consapevolezza dei vincoli di cui sopra. Tanto che, oltre ad un lessico piuttosto esemplificativo di questa direzione (“serietà”, “credibilità”, “competenza”, “responsabilità”), è singolare il fatto che tale alleanza insista per la permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi, arrivando pure a sostenere che un eventuale governo di destra durerebbe pochi mesi e che bisognerebbe prepararsi già, pertanto, ad una sua sostituzione in favore della classica formula italiana: governo di unità nazionale, premier tecnico, obiettivo delle riforme “strutturali” per risollevare un paese fermo da decenni. Aspetto, questo, che mette in luce una delle principali patologie del sistema politico italiano, ossia l’abuso dei cosiddetti governi tecnici: Ciampi tra il 1993 e 1994, Dini tra il 1995 e 1996, Monti tra il 2011 e 2012 e infine Draghi tra il 2021 e 2022. Esempio plastico di debolezza e de-responsabilizzazione dei partiti, neutralizzazione del conflitto politico, affidamento a figure apparentemente tecniche – nel senso di esperti economisti non riconducibili a nessun partito – di decisioni, invero, intrinsecamente politiche (ogni policy deve decidere su quale segmento gravare, chi aiutare, come farlo, con quali paradigmi, cosa rappresentare, con che intensità agire). Vi è di più: l’illusione sta anche nel considerare le singole figure umane come tecniche, dal momento che, ad esempio, un minimo comune denominatore è sempre stato quello dell’europeismo. Già questo è un posizionamento squisitamente politico. Gran parte della vita politica della seconda repubblica si è, più o meno consapevolmente, mossa in un campo da gioco già predeterminato: europeismo, atlantismo, centrismo, misure economiche moderate. L’auspicio di Calenda e Renzi di una permanenza di Draghi altro non è che la convinta adesione a questa via, considerata l’unica praticabile per un paese come l’Italia. Tant’è che una cosa è certa: se mai dovesse cadere il prossimo governo “politico” ed insediarsi nuovamente un governo “tecnico”, il Partito Democratico e il Terzo Polo saranno pronti a sostenerlo.
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La certezza con cui taluni scommettono sulla breve durata di un potenziale governo Meloni nasce dalla convinzione che una reazione dei mercati, unita all’asserita incapacità della destra di governare e attuare un programma così velleitario, condurranno inesorabilmente alla caduta dello stesso, sulla falsariga di quanto accaduto con Berlusconi nel 2011 e con il Conte I nel 2021. Di contro, vi sono, non a caso, i tentativi della leader di Fratelli d’Italia di dipingersi come moderata, sia sul lato delle politiche economiche (rassicurando che non vi saranno scostamenti di bilancio), sia sul fronte dell’adesione all’Unione europea (non messa in discussione), sia in tema di ministri (cercando di condividere con il Quirinale alcuni nomi da mettere nei ministeri chiave, a partire dal MEF). Dopodiché, il netto posizionamento di Giorgia Meloni a favore dell’Ucraina e della Nato a seguito dell’invasione russa sicuramente aiuta nei rapporti con Washington – a differenza invece della ambiguità degli alleati di coalizione Salvini e Berlusconi. In questo senso, non è affatto da escludere la possibilità che la leader di Fratelli d’Italia riesca a formare un governo; il processo di normalizzazione che sta portando avanti potrebbe convincere il Quirinale, a fronte di alcune garanzie, ad affidarle l’incarico; dopotutto, se il voto popolare dovesse essere particolarmente netto, Mattarella avrebbe margini di manovra più ristretti. Se poi la leader di Fratelli d’Italia è furba, cercherà, come pare stia facendo, di concordare i ministri chiave con il Capo dello Stato, sì da evitare situazioni delicate come quella della opposizione di Mattarella all’economista “euroscettico” Paola Savona al MEF ai tempi della formazione del Conte I – un esempio da manuale della figura del Quirinale come garante del vincolo esterno.
La questione principale però, a parere di chi scrive, è questa: un governo Meloni così profondamente istituzionalizzato, tra riconoscimento delle istanze del Quirinale, rassicurazioni a cancellerie europee e mercati finanziari, moderazione del linguaggio e delle promesse elettorali più aggressive, cosa avrebbe più da spartire con il messaggio politico lanciato in questi anni dalla leader di Fratelli d’Italia e accolto, quantomeno stando ai sondaggi, da così tanti italiani? Andrebbe perduto nel tragitto qualsivoglia connotato antisistema, rivoluzionario nel senso di profondamente antitetico rispetto allo status quo, capace di galvanizzare un elettorato sempre più disilluso e frustrato e in cerca di un’identità forte cui fare riferimento. Certo, questo quantomeno eviterebbe le potenziali derive più pericolose: le istanze antisistema verrebbero assorbite dal sistema stesso. Di fatto, renderebbe il potenziale governo Meloni un esecutivo, semplicemente, di destra conservatrice, perfettamente inserito nei vincoli esterni, tra piccole misure fiscali a favore degli imprenditori, alcune politiche protettive verso le imprese italiane (peraltro già in linea con lo Zeitgeist di questa fase storica, senza distinzioni rilevanti tra destra e sinistra), qualche azione simbolica sull’immigrazione (tale solo da urtare la sensibilità delle fasce progressiste, ma nei fatti di poca incisività, rimanendo centrale la base degli accordi con la Libia di Minniti), una maggiore centralità delle forze di polizia, nessun avanzamento sui diritti civili. Poco, forse troppo poco, per un elettorato che aspira ad un cambiamento radicale e che si affida a Giorgia Meloni, oltre che per alcuni simbolismi di destra verso cui un certo segmento effettivamente simpatizza, anche per quel “nuovismo” di cui ha parlato il politologo Giovanni Orsina: la Meloni era all’opposizione, rappresenta il nuovo, forse l’ultima carta dopo che si è provato di tutto. Se questa novità dovesse tradursi in una semplice declinazione più conservatrice dello status quo, la disillusione potrebbe raggiungere livelli preoccupanti.
Anche perché vi è da considerare la congiuntura economica che il nuovo governo dovrà affrontare. I prezzi dell’energia alle stelle sono sempre più insostenibili, specie per le imprese energivore (acciaio, ceramica, vetro, chimica etc.). Il rischio di ondate di cassa integrazione, chiusure con riduzione ulteriore dell’offerta, fallimenti e licenziamenti rappresenta la maggiore sfida di questo autunno. Cornice piuttosto ostile per governare. Tant’è che non sarebbe da stupirsi se i tempi per la formazione del governo dovessero dilatarsi più del previsto, sì da lasciare all’attuale esecutivo in carica per gli affari correnti la responsabilità delle potenziali misure impopolari – in primis ipotetici razionamenti – e finanche della legge finanziaria di dicembre. Per la coalizione vincente non c’è tutta questa fretta di prendere in mano il timone. In ogni caso, che sia ad ottobre, novembre o dicembre (o addirittura gennaio), il nuovo governo non avrà solo i vincoli esterni ad ostacolarne le velleità, ma anche la drammatica crisi energetica.
Il panorama è, dunque, estremamente complesso, sia sul fronte interno che su quello esterno. Da un lato vi è una coalizione di centrodestra a guida Meloni che dovrebbe risultare vincitrice e ricevere l’incarico – specie se Fratelli d’Italia come singolo partito arriverà prima del Partito Democratico. Dopodiché, tale coalizione dovrebbe innanzitutto raggiungere un equilibrio interno, considerato che un risultato troppo negativo per la Lega potrebbe convincere il suo leader Matteo Salvini a giocare al rialzo su certi temi a lui cari, a partire dal controverso punto delle sanzioni alla Russia; senza tale equilibrio, i rischi di non riuscire a formare un governo aumenterebbero (ricordiamo che Lega e Forza Italia hanno sostenuto, a differenza di Fratelli d’Italia, il governo Draghi; in generale, la coalizione non è così unita come appare). Risolti i problemi interni, la partita si giocherà poi sul vincolo esterno: il Quirinale vorrà garanzie sui ministri chiave, nonché sul posizionamento del governo circa l’alleanza atlantica e l’Unione europea. Il processo di normalizzazione della Meloni nell’establishment italiano e internazionale sembra andare in questa direzione. Fissati in modo preciso gli invalicabili paletti, bisogna poi considerare l’eccezionalità dell’attuale fase storica. Difatti, quantomeno per ancora tutto il 2023, l’austerità europea sarà messa da parte; si pensi alla Germania, che sta stanziando diversi miliardi per fare fronte al caro bollette senza badare troppo al pareggio di bilancio. Gli Stati hanno più margini di manovra, in termini di politiche protettive, aiuti alle imprese, azioni sui prezzi. Una situazione ben diversa da quella della crisi dei debiti sovrani. Allo stesso tempo, però, tali margini dovranno inevitabilmente essere utilizzati per fare fronte alla crisi energetica, sfida prioritaria di qualsiasi governo europeo. Sicché, se la dimensione emergenziale avrà come obiettivo quello di garantire la continuità del sistema industriale energivoro, poco resterà per le misure bandiera per il proprio elettorato. Presumibilmente, non vi sarà nulla di incisivo: nessuno shock fiscale, nessuna inversione del calo demografico. La congiuntura storica attuale non è terreno feritile per i nuovi governi, che saranno costretti sin dai primi giorni a giocare in difesa, in un’ottica di sopravvivenza, senza la possibilità di contrattaccare.
Ad ogni modo, al netto della situazione eccezionale di crisi, i rischi nel lungo termine della più profonda condizione di perenne paralisi della politica italiana sono evidenti. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che grazie ai vincoli di cui sopra un partito dai connotati “radicali” come Fratelli d’Italia può essere normalizzato. Però è legittimo allo stesso tempo chiedersi se una democrazia possa andare avanti a tali condizioni, ove viene negata alla radice qualsivoglia istanza di cambiamento. La disaffezione verso le urne e, in generale, verso il gioco democratico è una conseguenza di tale realtà. Se la politica diventa mera amministrazione di uno spazio circoscritto, senza possibilità di indicare direzioni alternative, né di promuovere cambiamenti radicali, allora non è più politica. Quando un partito rimane nella maggioranza governativa per praticamente dieci anni di fila, quando alla prima crisi si invoca un premier tecnico sostenuto da tutte le forze in parlamento, quando non si riesce più a scorgere differenze tra le politiche concrete dei vari partiti perché condizionate da vincoli di sorta, allora l’elettorato inizierà lentamente a entrare in una spirale di disillusione: accettando lo stillicidio dell’esistente e non andando a votare quando va bene, radicalizzandosi sino a sostenere derive pericolose nel peggiore dei casi.
Nel lungo periodo i rischi del vincolo esterno sono questi. Se è vero che da un lato questo vincolo, da sempre apprezzato dalle élite nostrane, può rassicurare, perché esclude gli estremi e difende uno status quo di cui parte della popolazione riesce a beneficiare, dall’altro rappresenta un pericolo per il sano funzionamento della democrazia. Non è escluso che possa spezzarsi. Prima ancora di questo scenario drastico, però, vi è il suo evolvere, a riprova di come non sia qualcosa di dato e imperituro, bensì transeunte, soggetto da un lato alla volontà politica stessa, dall’altro alle spettrali vicende del corso storico. Ad esempio, le crisi degli ultimi due anni hanno messo in discussione dogmi “neoliberali” che prima si pensava insuperabili e che concorrevano a sedimentare i (furono) vincoli esterni della fase precedente, ora svuotati di significato dal nuovo contesto protezionista: limitazioni alla circolazione di capitali, sanzioni che incidono sul mercato, sequestri di beni, blocchi ai confini, acquisti di titoli, interventi statali, calmieri sui prezzi. Ne deriva la fragilità delle posizioni che intendono accettare acriticamente l’esistente assumendo come immodificabili strutture, paradigmi e cornici che invece altro non sono, come tutto, che giustapposizioni politiche – e quindi contingenti.
In ogni caso, ci sono vincoli che, ora come ora, a parere di chi scrive, paiono essere ancora intoccabili: l’alleanza atlantica, anche considerato il numero di basi Usa nel territorio italiano, prodotto di un equilibrio europeo sorto dalle macerie della Seconda guerra con i suoi vinti e vincitori; e l’adesione all’Unione europea, stante anche la complessità di una eventuale uscita in questa fase storica (ormai di partiti veramente euroscettici ve ne è solo uno, Italexit, che se va bene raggiunge il 3%). Per il resto, i grandi movimenti dello scacchiere globale rendono ogni ordine costituito passibile di modifica. Non ne consegue che questo debba accadere, anzi. Come sostenuto in queste righe, i vincoli che si abbatteranno sul prossimo governo italiano sono ancora solidi. Però, sono già diversi da quelli di cinque anni fa. Così come tra cinque anni potranno cambiare ulteriormente volto. La politica è (anche) il prendere atto della possibilità del cambiamento. Il realismo lo si lasci agli analisti.