Abbonatevi alla nostra newsletter per rimanere aggiornati sul lancio de “Il Grand Continent” in italiano

Si è verificato un errore
Iscrizione avvenuta con successo.

Tutto inizia con il governo Monti (2011-2013). Con l’esecutivo tecnocratico del professore della Bocconi, con un forte mandato europeo per riformare il paese obtorto collo nelle more della crisi economica, tramonta definitivamente il bipolarismo dell’era berlusconiana e nasce una nuova era. Siamo al punto di rottura della recente storia politica italiana. 

Le carriere di gran parte dei nostri leader politici decollano in quel momento: Matteo Renzi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Enrico Letta erano già ben avviati nella vita pubblica, ma in quella rottura iniziano a diventare dei personaggi fondamentali per il sistema politico. Persino Mario Draghi costruisce la sua eredità politica ed economica in quel frangente storico, con la presidenza della BCE e il «whatever it takes». 

La depressione economica, la delegittimazione dei partiti politici, la sensazione di fallimento e commissariamento del paese attraversano le forze politiche e ne permettono la creazione di nuove. Sono rari i momenti della storia in cui la circolazione delle élite procede spedita come in seguito alla crisi italiana del debito sovrano. 

Questo ricircolo della classe politica si è espresso su tre fronti: populismo antipolitico (5 Stelle), tecnocrazia (Monti, Draghi) e nazionalismo (Lega, Fratelli d’Italia). Il sistema politico è stato attraversato da due principali fratture: la palingenesi politica (nuovo vs vecchio) e l’Europa (europeisti ortodossi vs euroscettici). Tensioni che hanno determinato una polarizzazione del consenso, e il suo travaso ai nuovi partiti populisti e sovranisti, con pregiudizio dell’autonoma capacità di governo dei partiti centristi ed europeisti (Pd, Forza Italia, piccoli partiti moderati). Si è disvelata, in Italia prima che altrove, la stagione del tecnopopulismo, regime ibrido in cui la tecnocrazia ha convissuto e si è integrata con i partiti nazional-populisti.

L’irresistibile ascesa di Giorgia Meloni

In questo contesto va inserita l’ascesa di Giorgia Meloni – enfant prodige della destra di Alleanza nazionale, capo dei giovani (Azione Giovani), deputato e vice presidente della Camera a soli 29 anni, ministro della gioventù del governo Berlusconi (2008-2011) – e del suo partito, Fratelli d’Italia, fondato nel dicembre 2012 poco prima della fine del governo Monti. La sua strategia, volta a fondare una classica destra nazionalista, erede della vecchia Alleanza Nazionale, dopo la fine del Popolo della Libertà fondato da Silvio Berlusconi nel 2008, è stata fin da subito semplice ma rigorosa, fatta di coerenza e attesa. Sempre all’opposizione, senza siglare – al contrario di Lega e Forza Italia – alcun compromesso con il Movimento 5 Stelle o con il Pd scommettendo sul fatto che un sistema politico indebolito e instabile avrebbe prima o poi presentato l’occasione di andare al governo con la coalizione di centrodestra.

Quel momento potrebbe essere arrivato, ma nel frattempo Meloni ha cercato di emanciparsi dall’accusa di aver un partito avvezzo a coltivare simpatie nostalgiche (fasciste) nei suoi interna corporis e dall’approccio euroscettico e sovranista duro e puro. Questa strategia di “smarcamento” è dimostrata sia dal tentativo di recuperare il termine “conservatore” per generare una nuova legittimazione al partito, sia dall’opposizione soft al governo di Mario Draghi con tanto di voto favorevole all’invio di armi all’Ucraina. 

È come se Fratelli d’Italia cercasse di dire all’esterno: siamo filo-atlantici e filo-occidentali, ma senza essere favorevoli alla centralizzazione europea, al superamento dei confini e della tradizione e alla diluizione dell’identità nazionale. Siamo sovranisti, sì, ma con i piedi per terra. E pertanto meglio dirsi conservatori che euroscettici o, appunto, sovranisti. Su questo tentativo di camminare sul filo tra l’establishment e l’anti-establishment, tra europeismo pragmatico ed euroscetticismo, si gioca il futuro governativo di Fratelli d’Italia, sia in termini di legittimazione all’estero sia in termini programmatici.

Meloni sembra consapevole dello svantaggio culturale e istituzionale del proprio partito, sempre fuori dalle stanze del governo, critico con la finanza internazionale e con scarsi rapporti con i partiti popolari degli altri grandi paesi europei. La leader della destra cerca pertanto un modo di costruirsi un sistema di potere, un’identità, un serbatoio di idee e di persone da cui attingere nel caso in cui toccasse a Fratelli d’Italia governare il paese da primo partito della coalizione di centrodestra. Questo sforzo è testimoniato da una campagna elettorale che s’inserisce in una “strategia del vincolo esterno”, diretta a rassicurare i mercati finanziari, tendere mani agli altri governanti dei principali paesi europei, abbattere le antipatie e i pregiudizi della stampa internazionale. Per la prima volta nella storia un partito della destra italiana conduce una operazione di propaganda che parla più all’estero che all’interno.

Tra conservatorismo e post fascismo

L’operazione culturale e politica che cerca di sviluppare la leader di Fratelli d’Italia è al tempo stesso ambiziosa e complessa. Ambiziosa, perché Meloni cerca di mescolare l’immaginario simbolico e culturale della destra post fascista italiana con richiami a battitori liberi del pensiero reazionario e realista come Giuseppe Prezzolini e Leo Longanesi e con l’importazione di temi internazionali che caratterizzano il conservatorismo anglosassone, americano e continentale. 

Quella di Fratelli d’Italia è una proposta di “fusione a destra” – liberale, tradizionale e nazionalista – incentrata sul conservatorismo in un paese in cui questo non c’è mai stato. Sul piano storico, dopo il tramonto della “destra storica”, i conservatori si sono dispersi tra monarchici, nazionalisti e popolari, sono poi in gran parte confluiti nel fascismo, infine, nell’era repubblicana, quell’area si è divisa, nelle sue varie sfumature, tra correnti della DC, partiti laici e MSI. Questa destra italiana ha sempre voluto conservare poco sul piano politico, istituzionale ed economico. E ha avuto invece nell’anti-comunismo il suo collante più forte. 

Le stesse avanguardie primo novecentesche, si pensi ai futuristi, non hanno mai puntato alla conservazione di alcunché, quanto alla rivoluzione estetica e modernista. In un paese che per storia e vocazione si è sempre percepito in ritardo, la Cenerentola d’Europa, rispetto agli altri grandi paesi europei anche la destra ha preferito la promessa di modernizzazione della nazione alla conservazione. 

Lo stesso Berlusconi aveva scelto subito di appellarsi agli impalpabili “moderati”, ai generici “liberali” e di accompagnare la parola “destra” con il “centro”, da cui il peculiare termine “centrodestra”, e di fare leva sui forti residui di anti-comunismo nella società italiana più che sul conservatorismo politico. L’eredità storica del conservatorismo, in Italia, è, per molti aspetti, quasi nulla. Il che offre un’opportunità per costruire un humus culturale che quasi non esiste e di cui si possono posare le fondamenta, ma al tempo stesso rende tale missione poco appetibile per gran parte degli elettori della destra che non hanno un sostrato storico di riferimento, al contrario degli ex comunisti, ad esempio. 

L’influenza internazionale del neonazionalismo

È per questo che il mondo intellettuale intorno a Fratelli d’Italia guarda altrove: al nazionalismo dell’est Europa; al populismo conservatore americano; al tradizionalismo francese e spagnolo; e, più in generale, ad una critica feroce nei confronti della globalizzazione delle frontiere, dei mercati aperti, della tecnocrazia sovranazionale. La galassia della nuova destra si abbevera dalla critica del liberalismo progressista di autori come Patrick Deenen e Michael Lind, sposa il conservatorismo scettico del filosofo britannico Roger Scruton e il comunitarismo tradizionalista e “girondino” del polemista francese Michel Onfray e legge i romanzi sul popolo degli abissi della globalizzazione di J.D. Vance. Gli avamposti culturali di Fratelli d’Italia sono oggi esperienze come quella di Nazione Futura, un think-tank su modello americano fondato dal giovane editore di destra Francesco Giubilei; la Fondazione FareFuturo, fondata e presieduta dal Senatore Adolfo Urso, che esiste sin dai tempi del Partito della Libertà e che ha trovato nuova linfa nella stagione meloniana; la fondazione del gruppo europeo ECR New Direction, portata in dote dall’ex ministro di Forza Italia ed eurodeputato di Fratelli d’Italia Raffaele Fitto; da ultimo si è aggiunta l’area dei cattolici liberisti, d’ispirazione ratzingeriana,  come Lorenzo Malagola ed Eugenia Roccella.

Tutto ciò non garantisce naturalmente che un “Dio-patria-famiglia” aggiornato ai nostri tempi riesca ad aprire una breccia profonda nell’elettorato italiano di destra, cioè, se in altre parole Meloni riuscirà a costruire una identità che vada oltre il “legge e ordine”, lo stop all’immigrazione e la polemica contro il politicamente corretto della sinistra, oggi i tre bastioni popolari della sua proposta. 

Inoltre, appare ancora molto nebuloso l’approccio economico. Fratelli d’Italia non sembra orientata in modo chiaro né verso il neo-keynesismo imbracciato da Marine Le Pen, ma anche da Boris Johnson, né verso l’approccio liberista degli americani e di gran parte dei membri del gruppo europeo dei conservatori. Le sue proposte sono un singolare mix tra riforma fiscale per i produttori (meno tasse), corporativismo (avversione alle liberalizzazioni) e interventismo statale (protezionismo e industria di Stato).

Insomma, la definizione del “conservatore” nella scena politica italiana è ancora in parte misteriosa e tirarsi fuori dalle secche non sarà semplice per Fratelli d’Italia. Alla Meloni va però dato atto di aver provato ad uscire dall’angolo, a costruire un mosaico di pezzi presi in prestito altrove per depositarli su una base italiana.

© Luigi Mistrulli/SIPA

Il rischio di una premiership di Giorgia Meloni

Veniamo ora ai rischi e alle prospettive di questa operazione. Si parla molto del rischio fascismo, forse troppo, perché si rischia di dipingere la democrazia italiana come più debole e meno matura di ciò che effettivamente è. È vero che la destra di Fratelli d’Italia nella sua organizzazione interna si rivolge eccessivamente alla simbologia post-fascista – come la fiamma tricolore nel simbolo del partito o i richiami ad un certo esoterismo evoliano tra militanti e dirigenti del partito -, specie nelle sue propaggini periferiche, o che continui a utilizzare formule retoriche spesso eccessivamente nazionaliste e nostalgiche. È anche vero, temendo forse ripercussioni interne al partito, che la Meloni ha condannato la dittatura fascista pubblicamente soltanto all’inizio di questa campagna elettorale. Ad ogni modo, come ha notato anche il filosofo Massimo Cacciari, la democrazia italiana non è a rischio di una torsione autoritaria, il pericolo fascismo oggi in Italia non esiste e gli ultimi refoli di neofascismo si sono esauriti negli anni Settanta. Un ragionamento che ha trovato concorde anche quello che forse è il maggior pensatore liberal-conservatore italiano di oggi come lo storico Giovanni Orsina, il quale di recente sulla Stampa ha scritto: “Quel che non cesserà mai di sbalordirmi, nella sinistra italiana, politica e culturale, è la coazione ossessiva a ripetere, l’apparente incapacità di imparare dai propri errori. Ci risiamo, quindi: l’uso politico dell’antifascismo, l’allarme democratico, la fine del mondo, i mezzi di ultimissima istanza. (…) E se alla fine la coalizione di destra vincerà le elezioni, come sembra probabile, l’antifascismo «largo» si sarà dimostrato ancora una volta lo strumento politico di una parte minoritaria che non sa più parlare altrimenti agli elettori. E quando, fra cinque anni al massimo, torneremo a votare in un sistema politico non meno democratico e liberale dell’attuale – esito sul quale, come la stragrande maggioranza degli italiani, non nutro il benché minimo dubbio – il Paese ricorderà che per l’ennesima volta il pastorello ha gridato al lupo, ma il lupo non c’era.”

Inoltre, Fratelli d’Italia è un partito nato e cresciuto nel contesto costituzionale, senza mai contestarne i valori fondamentali, ha rispettato il Parlamento e la Presidenza della Repubblica, nell’ultimo anno e mezzo ha espresso una opposizione collaborativa con il governo guidato Mario Draghi. I rischi sono semmai altri, soprattutto di tipo diplomatico ed economico.

La maggior parte della classe politica di Fratelli d’Italia è inesperta perché non ha mai governato; Silvio Berlusconi è ormai anziano, senza un successore politico e il suo partito moderato è ristretto nel consenso; Matteo Salvini è un leader in decadenza, appare spesso appannato e sovraesposto mediaticamente, ed è soprattutto compromesso con la Russia. 

Inoltre, le due più grandi forze politiche della destra italiana sono fuori dai partiti che governano l’Unione Europea e non hanno legami solidi con i governanti degli altri paesi dell’eurozona, mentre l’attuale posizionamento europeo di Fratelli d’Italia suscita legittimi dubbi: dentro l’Eurozona ma contraria al rafforzamento dell’integrazione, aggrappata a un “confederalismo” che è ancora tutto da definire e che forse oramai è stato sorpassato dalla realtà dopo la pandemia, il Next Generation EU, la ridefinizione del paradigma economico e la guerra in Ucraina. Alla Meloni occorrerà dunque un lavoro paziente e disciplinato per guadagnare qualche credito internazionale e riempire i buchi della sua offerta politica, sempre se ne sarà capace. Forse proprio per questo la Meloni ha annunciato che in caso di vittoria elettorale, se sarà nominata Presidente del Consiglio farà immediatamente visita al Cancelliere tedesco Scholz e al Presidente francese Macron.

E avrà bisogno di qualche “idea europea” capace di fondere esigenze economiche e strategiche sovranazionali e protezione degli spazi d’indipendenza degli Stati. Nel programma del centrodestra c’è un vago accenno alla revisione del Recovery Plan. Scritto così può significare tutto e niente: dal pietire qualche deroga e proroga soltanto per l’Italia al potenziamento del piano costruendo una maggioranza europea che voglia farlo. Lo scenario economico e internazionale è cambiato in modo drammatico in pochi mesi. Rispetto a quando l’Unione Europea ha deciso di creare il Next Generation EU oggi siamo già in un altro mondo, in condizioni peggiori. L’energia costa quasi dieci volte di più; le catene del valore e di approvvigionamento si sono drammaticamente accorciate per il gelo nei rapporti con Russia e Cina; l’inflazione continua a crescere, erode potere di acquisto e aumenta il costo delle infrastrutture; le banche centrali per contenerla sono costrette a rialzare i tassi, dinamica che tende a far salire il costo del debito. La globalizzazione si è ristretta, l’economia si organizza in aree regionali sovranazionali, le produzioni in oriente vengono riportare progressivamente in Occidente. In questo processo si manifestano le crisi, prima di tutto quella tedesca. L’economia della Germania soffre per il prezzo del gas, per la ritirata dalla Cina, per il protezionismo americano, per la lentezza nell’adattamento al nuovo scenario dei suoi colossi industriali. Il modello export-led, perno degli ultimi vent’anni dell’economia europea e a cui l’Italia era fortemente agganciata, è finito e la Germania è a un bivio: sterzare verso il nazionalismo economico, con potenziali gravi danni per tutti, oppure fare un salto ulteriore nell’integrazione economica europea. In questo limbo può inserirsi una proposta di rinegoziazione e potenziamento del PNRR, con la costruzione di alleanze europee che convincano la Germania all’emissione di debito europeo per finanziare una più robusta politica economica continentale. Essenziali in questo caso saranno i rapporti con due politici di colore diverso come Emmanuel Macron e Pedro Sanchez. La missione è difficile ma non impossibile, d’altronde gli americani hanno già tracciato la via: rialzo dei tassi accompagnato da nuovi stimoli pubblici strategici come fatto con i recenti Chips act, per gli investimenti tecnologici, e Inflation Reduction Act, per quelli industriali, energetici e green. Queste sono manovre che segnano il ritorno del keynesismo ed un rapporto più osmotico tra pubblico e privato. Una via che dovrebbe seguire anche l’Unione Europea su spinta politica delle sue maggiori nazioni tra cui l’Italia. Dal tentativo di cercare questo passaggio sovranazionale per lo sviluppo di una politica economica europea o meno si comprenderanno gli orizzonti, le capacità e l’eventuale maturazione di Giorgia Meloni e del suo partito. Cioè se la destra italiana resterà solamente nazionalista e chiusa oppure se vorrà essere nazionalista sì, ma con un orizzonte europeo.

Prospettive concrete di governo

Sul piano strettamente politico, invece, le prospettive di un eventuale governo di centrodestra sono ancora difficili da tracciare.

Gli emissari più raffinati dell’establishment italiano ventilano la seguente ipotesi: centro e sinistra perderanno probabilmente le elezioni ma questa destra non riuscirà a governare in un contesto internazionale ed economico molto complicato.

Tuttavia, non è scritto da nessuna parte che la caduta di un governo di destra con solida maggioranza possa essere rapida. Il governo della destra potrà durare cinque mesi o cinque anni. Dipenderà dai numeri in parlamento, dagli attori politici e dalla situazione internazionale.  

Se vincente, il centrodestra dovrà scegliere tra la classica cooptazione politica tra esponenti dei partiti per formare il nuovo governo, e in quel caso tutti i rischi evidenziati rischiano di amplificarsi, oppure i leader – Meloni in primis – potranno scegliere di avviarsi verso un esperimento diverso: politici e tecnici d’area insieme al governo; orecchio ai suggerimenti espliciti e impliciti di Mario Draghi, che con Meloni si dica abbia un buon rapporto; collaborazione con Mattarella sulla scelta dei ministri chiave; politiche economiche che sappiano convincere i mercati e atteggiamento collaborativo con gli altri leader europei. 

Questo secondo scenario, per materializzarsi, richiede un percorso politico più difficile, poiché presuppone unità politica dei partiti e messa da parte delle gelosie tra leader e delle ambiguità sul fronte internazionale, ma è anche la via migliore per restare in sella più a lungo una volta conquistato il governo. Inoltre, non è certo che uno scenario internazionale ed economico complesso sia destinato ad indebolire inesorabilmente un governo appena entrato in carica.

La storia ha mostrato come in parecchi casi le emergenze e le tensioni possano rafforzare i governi che sembravano precari, anche in modo casuale e legato alle contingenze. Se il centrodestra si troverà a combinare un volontario processo di istituzionalizzazione – con rispetto del nuovo vincolo atlantico verso Russia e Cina e con una posizione proattiva nella politica economica europea – con una congiuntura esterna non troppo sfavorevole, che imporrà senza dubbio l’elaborazione di un percorso nazionale e sovranazionale ma senza che il sistema sprofondi nella crisi e nel caos, forse riuscirà a battere i propri fantasmi legati al deficit di esperienza governativa e alla legittimazione debole sul piano internazionale. 

L’esito delle elezioni italiane sarà inevitabilmente un banco di prova per il centrodestra, per la politica italiana tutta, ma anche per quella europea.