Gilles Kepel, professore all’Università di Parigi Sciences et Lettres, dirige la Cattedra Medio Oriente e Mediterraneo all’École Normale Supérieure. Ha pubblicato Il Ritorno del Profeta, Feltrinelli 2021.

Il 14 febbraio 1989, alla vigilia della ritirata dell’Armata rossa dall’Afghanistan, l’ayatollah Khomeini, Guida Suprema della Repubblica Islamica d’Iran, emesse la fatwa che condannava a morte Salman Rushdie, motivata dal fatto che il suo romanzo I Versi Satanici sarebbe stato blasfemo nei confronti del Profeta. La scelta della data da parte del leader sciita aveva come obiettivo quello di far dimenticare al mondo musulmano l’attesa vittoria dei rivali sunniti che, sostenuti dalla CIA e finanziati dalle petromonarchie (Arabia saudita in testa), stavano cacciando dalla terra d’islam afgana le forze dell’ateismo comunista che l’avevano invasa dieci anni prima. 

Nel breve periodo, lo scandalo mondiale suscitato dalla fatwa – un ayatollah iraniano che condannava a morte un cittadino britannico sul suolo del Regno Unito, una cosa mai vista per l’epoca – ebbe l’effetto previsto: Khomeini aveva fatto lo sgambetto all’islamismo sunnita che voleva utilizzare la sconfitta sovietica per proporsi come araldo ed eroe dei musulmani “umiliati e offesi” nel mondo. In pochi si concentrarono sulla sconfitta sovietica, che invece avrà conseguenze geopolitiche decisive – essendo uno dei fattori che, il 9 novembre successivo, avrebbe portato alla caduta del muro di Berlino e alla morte del comunismo. L’ayatollah aveva vinto la guerra mediatica e fu proprio per riaproppriarsi dell’egemonia sull’islamismo rivoluzionario che, nel suo manifesto del 1996, Cavalieri sotto lo stendardo del Profeta, Ayman al Zawahiri (ucciso a fine luglio da un missile americano a Kabul, dove i talebani sono tornati al potere dopo la ritirata avvenuta un anno fa, questa volta degli Stati Uniti), aveva proposto la necessità per lo jihadismo sunnita di fare il colpo grosso, il che si tradurrà negli attacchi dell’11 settembre 2001, grazie alla quale Al Qaeda monopolizzerà l’attenzione rispetto ai rivali di Teheran, seminando morte in Occidente, a Washington e a New York. 

Tuttavia, le fatwa continuano ad avere effetti nefasti dopo la morte di Khomeini, avvenuta nel giugno successivo: riprese ed estese dai suoi rivali sunniti, con la loro condanna dei caricaturisti danesi che pubblicarono vignette del Profeta giudicate blasfeme, riprese poi da Charlie Hebdo, il che avrà come tragica fine il massacro del 7 gennaio 2015 perpetrato dai fratelli Kouachi, pietra angolare di Daesh in Europa e inizio delle partenze di migliaia di giovani musulmani francesi per il Sham – il nome islamico del Levante. Questo indica anche la grande sensibilità nei confronti della “difesa dell’onore del Profeta” per tutti i movimenti islamici, i quali tentano di mobilizzare i propri correligionari nel jihad universale contro l’Occidente giudaico-cristiano – o “sionista-crociato” (Sahiou-salibi) nella loro lingua. Gli ultimi sussulti si sono verificati nel settembre 2020, quando la ripubblicazione delle vignette da parte dei redattori del settimanale in occasione dell’apertura del processo per gli omicidi del gennaio 2015 ha provocato tre nuove azioni omicide: la prima, quando il pakistano Zaheer Mahmood,alla luce delle grandi manifestazioni in patria che chiedevano la decapitazione dei “blasfemi”, ha colpito due persone davanti all’ex sede di Charlie con una mannaia, il secondo è stato quando il ceceno Anzorov ha decapitato il professor Samuel Paty fuori dal sua scula a Yvelines, dopo che erano stati pubblicati online messaggi di odio contro di lui, e il terzo è stato quando un immigrato clandestino tunisino ha accoltellato tre fedeli cattolici nella Basilica di Notre Dame a Nizza nel giorno del compleanno del Profeta. 

In quell’occasione, l’autore di queste righe aveva proposto un’analisi di queste azioni nei termini di “jihadismo d’atmosfera”: degli “imprenditori di collera” (espressione del Professor Bernard Rougier) denunciano degli obiettivi sui social, senza che ci sia bisogno di organizzazioni o  reti che diano ordini agli esecutori, come invece avevano fatto Al Qaeda e poi Daesh. Alimentati da questi stimoli digitali, socializzati in ambienti che condividono una cultura di separatismo islamista dalle società occidentali, i cui valori sono aborriti in nome di una lettura estremista del Corano, della Sunna e della loro esegesi, gli individui intraprendono azioni criminali, convinti di essere vettori della Comunità dei Credenti (Ummah), di promuovere l’islamizzazione dell’universo e di assicurare a se stessi e alle proprie famiglie un posto d’elezione in Paradiso. Questo “jihadismo di atmosfera” – per il quale lo sterminio dei presunti blasfemi è l’innesco per eccellenza dell’azione – è tanto più facile da attuare nel sunnismo, perché questa confessione maggioritaria dell’Islam contemporaneo (circa l’85%) non ha un clero gerarchico o sacramentale dotato di infallibilità. Per questo è particolarmente poroso al web e ai social network, dove si formano gruppi di individui che si convincono della veridicità delle loro convinzioni, per quanto fantasmagoriche possano essere. 

Al contrario gli sciiti dispongono di strutture ecclesiastiche strettamente gerarchiche, dove vige l’obbedienza ai grandi ayatollah di riferimento (marja’ al-taqlid). I quali non sono tutti d’accordo tra di loro. Il magistero di Khomeini e del suo successore Khamenei hanno ispirato Hezbollah, che domina lo sciismo libanese, comunità dal quale proviene il sospettato dell’attacco contro Rushdie, Hadi Matar, nato in California da genitori immigrati. In Iraq al contrario, l’ayatollah Sistani si oppone fortemente alla strumentalizzazione politica della religione. Nonostante tutto però la capacità degli attuali dirigenti iraniani di inquadrare i loro adepti e di mobilizzare le strutture dello Stato a questo fine rimane molto forte. I presidenti riformisti che per breve tempo sono stati al potere a Teheran, Mohamed Khatami (1997-2005) e Hassan Rohani (2013-2021) avevano fatto sapere in varie maniere che la fatwa del 14 febbraio 1989 non era più attuale.  

Essi però sono scomparsi dalla scena politica, rimpiazzati dall’ex procuratore Ebrahim Raissi, capace di condannare a morte numerosi membri dell’opposizione, e il vero potere rimane nelle mani della Guida Ali Khamenei, per il quale la fatwa in questione “è come un proiettile che inevitabilmente raggiungerà il bersaglio”. I commenti della stampa di Teheran più vicini alla sua linea hanno applaudito l’atto “eroico” dell’aggressore di Rushdie e hanno condannato lui, musulmano di nascita, come apostata dell’Islam e quindi passibile di esecuzione. 

Tuttavia, il tentato omicidio dello scrittore indo-britannico – mentre si accingeva a tenere una conferenza sulla libertà di espressione e sull’America come terra di rifugio per gli artisti esiliati – appare paradossale in relazione agli interessi del regime iraniano, desideroso di ottenere la conclusione dell’accordo sul nucleare  all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre, alla quale Raissi aveva annunciato di voler partecipare. 

È difficile immaginare che un atto criminale di tale portata, con il suo immenso impatto simbolico, possa favorire l’esito dei negoziati e la reintegrazione dell’Iran nella comunità internazionale. Anche se alcune voci nel mondo musulmano sostengono che l’esecuzione di un “blasfemo” sia molto più lecita di quella di Zawahiri a Kabul o del generale iraniano Qassem Solaymani, capo della forza esterna delle “Guardie Rivoluzionarie” (pasdaran), liquidato dall’esercito americano il 3 gennaio 2020 all’aeroporto di Baghdad, argomenti del genere non sono ammissibili né negli Stati Uniti né in Europa, e certamente non da parte di un presidente americano alle prese con un delicato appuntamento elettorale a novembre.

Così come il jihadismo sunnita, finanziato durante la guerra afghana degli anni Ottanta dalle petro-monarchie della Penisola arabica ed equipaggiato e strumentalizzato dalla CIA, è sfuggito a coloro che ne avevano armato il braccio quando ha scatenato sanguinosi attentati in Arabia Saudita e poi le stragi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, allo stesso modo il jihadismo sciita ha superato la logica di Stato dei suoi ideatori iraniani?

I primi elementi dell’inchiesta hanno rivelato che sulla pagina Facebook del sospetto, accessibile fino alle ore seguenti l’attentato contro Rushdie, si potevano trovare apologie dei Guardiani della Rivoluzione, del Generale Solaymani e di Hezbollah in generale. 

Questo ragazzo di 24 anni, nato negli Stati Uniti nove anni dopo la fatwa, è stato esposto a un “jihadismo di atmosfera” dello sciismo radicale oppure i social, il gruppo di socializzazione, contaminati da dei fenomeni simili a quelli che si producono negli ambienti sunniti, hanno prevalso sull’obbedienza alle istruzioni che provengono da Teheran?

Il processo fornirà risposte a tempo debito, ma ci troviamo di fronte all’ubiquità e alla resilienza di un fenomeno jihadista multiforme sul suolo stesso dei Paesi democratici occidentali. Questa minaccia ricorrente richiede una maggiore vigilanza di fronte alle logiche separatiste che cercano di spaccare le nostre società lacerandone il tessuto lungo linee confessionali ed esclusive, il cui risultato è stato una lunga serie di violenze e crimini, di cui la fatwa del 14 febbraio 1989 è il punto di partenza e l’emblema. Proveniente dallo sciismo politico più radicale, è mutata nei movimenti di lotta sunniti più estremi, come Al Qaeda e poi Daesh, e ora sta tornando, dopo l’esaurimento militare e politico di questi, al suo ambiente originario.

Credits
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata in francese su Le Monde.