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Una storia bulgara
Un anziano muore da qualche parte in un remoto villaggio della Bulgaria. Ha 92 anni, è l’ultima persona che vive nel villaggio e quindi ci vuole un po’ di tempo perché la gente scopra che è morto. Molto probabilmente, nessuno si sarebbe accorto della sua morte se non fosse che, a causa di essa, la popolazione del paese scende fatalmente sotto i 7 milioni di persone (2 milioni in meno rispetto al 1989). Improvvisamente la morte del vecchio sconosciuto scatena ondate di panico morale e diventa il centro della politica nazionale. La demografia è destino, se si è consapevoli del fatto che a causa del basso tasso di fertilità, della bassa aspettativa di vita e della massiccia emigrazione, la Bulgaria è diventata il campione mondiale di declino della popolazione in assenza di guerre o disastri naturali. La gente comincia a chiedersi: stiamo per scomparire? Esisteranno ancora dei bulgari nei prossimi cento anni? La colpa è della democrazia o dell’UE?
Il presidente del paese – un convinto nazionalista che sta affrontando la rielezione – è determinato a fare qualcosa. Naturalmente può facilmente aumentare la popolazione se decide di aprire il paese a migliaia di migranti disposti a venirci, ma questa è l’unica cosa che non può fare perché nei giorni della crisi dei rifugiati del 2015 è stato eletto con la promessa che nessun immigrato sarebbe entrato nel paese. La Bulgaria sarà aperta solo per i bulgari. Ma dove trovarli, quando quelli che sono emigrati non vogliono tornare? Così, nello stesso modo in cui Colombo andò a cercare nuove terre per la corona spagnola, il presidente invia una spedizione antropologica per trovare alcuni bulgari rimasti da qualche parte nel mondo e riportarli a casa. In breve tempo gli antropologi riferiscono con orgoglio che in una remota regione dell’Asia centrale, nel territorio dell’ex Unione Sovietica, hanno trovato una popolazione che assomiglia ai proto-bulgari che hanno lasciato questa parte del mondo circa 70 generazioni fa. Il presidente è entusiasta. In primo luogo, se queste persone otterranno passaporti bulgari, significa che il paese tornerà ad avere 7,5 milioni di persone; in secondo luogo, ha fatto un accordo con il leader autoritario locale che questo mezzo milione di nuovi cittadini voteranno per lui alle prossime elezioni presidenziali.
Questa è la trama del romanzo satirico di recente pubblicazione Misia Turan di un importante autore bulgaro, Alek Popov. Alla fine del libro, le cose non vanno come il presidente si aspettava. I “nuovi bulgari” – dopo aver ottenuto i loro passaporti UE – volano in Francia e Germania e non si preoccupano di votare alle elezioni presidenziali, causando così la sconfitta del presidente. Il tentativo del presidente di mettere insieme un corpo elettorale che lo elegga è fallito.
Il romanzo di Popov coglie tre problemi che sono centrali per dare un senso all’ascesa del populismo di destra oggi in Europa.
In primo luogo, il romanzo rivela l’importanza della demografia nell’attuale trasformazione delle democrazie occidentali. A parte Israele, non c’è nessun paese ricco al mondo la cui popolazione non sarebbe – senza la migrazione – sulla buona strada per ridursi. È questa ansia demografica delle nazioni piccole e in contrazione che è alle radici del successo elettorale dei populisti nell’Europa dell’Est. Negli ultimi tre decenni, i paesi dell’Europa centrale e orientale nel complesso hanno perso una popolazione pari a quella dell’Ungheria e della Repubblica Ceca messe insieme.
In secondo luogo, rivela la problematica relazione tra la paura della perdita di popolazione e l’apertura all’immigrazione. In assenza di un’immigrazione su larga scala, gli stati sociali europei sono condannati. Ma i governi che sostengono le frontiere aperte sono in difficoltà nella maggior parte degli stati membri dell’UE, e in particolare nell’Europa orientale. In breve, l’Europa ha disperatamente bisogno di migranti per preservare il suo modello sociale, ma gli elettori non sono pronti ad aprire le frontiere. Nel 1965, le persone oltre i 65 anni negli stati membri dell’UE erano presenti in un numero pari al 15 per cento delle persone tra i 20 e i 64 anni. Nel 2015, questa cifra era quasi raddoppiata al 29%. Entro il 2050, almeno la metà degli europei avrà più di 50 anni. Le politiche pro-nataliste, anche se in parte riuscite, non possono invertire questa tendenza, né il ritorno di alcuni emigranti recenti. L’invecchiamento della popolazione sta restringendo l’orizzonte temporale della società e cambia drammaticamente la natura del corpo elettorale. Dovremmo stupirci che l’Europa sia infettata dal virus della nostalgia se sappiamo che oggi in Germania i giovani con meno di 30 anni costituiscono solo il 14,4% dell’elettorato, gli ultracinquantenni il 57,8%, e le scelte politiche dei vecchi e dei giovani – come dimostrano le elezioni del 2021 – differiscono notevolmente?
In terzo luogo, il romanzo ci aiuta a capire che in democrazia le persone eleggono i loro governi, ma i governi cercano anche di eleggere il loro popolo, stabilendo le regole sulla cittadinanza e le leggi elettorali e impiegando pratiche come il gerrymandering e la soppressione degli elettori. E mentre la tentazione dei governi di eleggere “il popolo” è una caratteristica costante della politica democratica, è nei momenti di drammatico cambiamento demografico, sociale e culturale che il modo in cui i governi cercano di eleggere il loro popolo diventa di importanza critica. È in momenti come questo che la politica delle migrazioni e della cittadinanza diventa la questione centrale della politica elettorale e il migrante buono è quello che voterà per il partito di governo.
Comprendere la nuova frattura post-pandemica
La paura del depopolamento non è un problema nuovo. In Francia, per esempio, le conseguenze militari del cambiamento demografico sono state discusse costantemente dalla guerra franco-prussiana fino alla seconda guerra mondiale. La bassa fertilità era interpretata come un segno di declino morale e politico. Nel Medioevo era l’impotenza del re che segnalava problemi alla comunità; nei tempi moderni è la bassa fertilità della nazione. Una cartolina francese dell’epoca mostra una scena di cinque tedeschi che prendono a baionettate due francesi; un’altra mostra grossi bambini tedeschi che guardano dall’alto in basso le loro più piccole controparti francesi 1. Il declino nazionale – così come il declino di classe – è spesso illustrato nella letteratura come l’impossibilità di avere figli o attraverso le generazioni della famiglia. La paura del declino demografico della propria nazione va di pari passo con la paura che all’interno della stessa siano le classi e i gruppi etnici sbagliati a mostrare una maggiore fertilità. Il demografo politico Teitelbaum insiste sul fatto che l’eugenetica dovrebbe essere vista come il “movimento dei professionisti della classe media e dei piccoli proprietari che hanno trovato un linguaggio biologico per esprimere le loro paure della rivoluzione o della proletarizzazione” 2.
Ciò che è nuovo nell’attuale dibattito caratterizzato dal “disfattismo poetico e dal razzismo elegante” è il ruolo delle proiezioni demografiche nel suscitare sentimenti pubblici. Le ansie demografiche sono alimentate, in Europa e altrove, non solo dalle proiezioni dei demografi, ma anche dalle impressioni pubbliche sui rapporti e le dinamiche etniche. Queste possono essere imprecise. Come riporta Suketu Mehta:
“Uno studio recente ha scoperto che gli americani, in media, pensano che i nati all’estero costituiscano circa il 37% della popolazione; in realtà, sono solo il 13,7%… I francesi pensano che una persona su tre nel loro paese sia musulmana. Il numero reale è uno su 13” 3.
Gli europei sono ancora numericamente predominanti in Europa, ma cominciano a immaginare un futuro in cui sono minoranze perseguitate e la democrazia potrebbe diventare il loro peggior nemico. La ricerca di Jennifer Richeson, psicologa sociale dell’Università di Yale, e di Maureen Craig, psicologa sociale dell’Università di New York, ha dimostrato il potere politico dell’immaginazione demografica. Hanno capito che nelle società democratiche, la dimensione del gruppo è un marcatore di dominanza e che un gruppo che sta diventando più piccolo potrebbe sentirsi minacciato e depotenziato. I loro risultati, pubblicati per la prima volta nel 2014 4, hanno mostrato che gli americani bianchi a cui erano stato dato da leggere – su base casuale – il rapporto Census che sosteneva che entro il 2044 i bianchi non saranno un gruppo di maggioranza negli Stati Uniti erano più propensi a riportare sentimenti negativi verso le minoranze razziali rispetto a quelli che non lo erano. Erano anche più propensi a sostenere politiche restrittive sull’immigrazione e a dire che i bianchi avrebbero probabilmente perso status e affrontato la discriminazione in futuro 5.
Non è un caso che i partiti dell’estrema destra siano diventati i profeti dell’apocalisse demografica delle società occidentali. La politica europea post-Covid non è più strutturata dalla tradizionale opposizione tra sinistra e destra; è strutturata dallo scontro di due immaginari apocalittici.
Uno è l’immaginario ecologista, che è innescato dalla prospettiva del prossimo disastro ecologico. Esso galvanizza la sensazione che se non facciamo nulla per cambiare il modo in cui viviamo e produciamo – se non domani, dopodomani – non ci sarà più vita umana sulla Terra.
Come sostiene un recente rapporto di riferimento, “fino a 3 miliardi della popolazione mondiale prevista di circa 9 miliardi potrebbero essere esposti a temperature pari a quelle delle zone più calde del Sahara entro il 2070”. 6
L’altro immaginario è quello demografico. È guidato dalla paura che il “mio popolo” scompaia e che il nostro modo di vivere venga distrutto.
Il poeta e pensatore politico tedesco Hans Magnus Enzensberger ha catturato al meglio la natura dell’immaginario demografico europeo quando ha diagnosticato che l’Europa soffre di “bulimia demografica” – il panico represso scatenato dalla paura “che troppe e troppo poche persone possano esistere contemporaneamente nello stesso territorio” 7 – troppo pochi di noi e troppi di loro. Gli europei si guardano attorno nel mondo e vedono la loro quota di popolazione globale crollare, mentre i non europei migrano in Europa in gran numero. Una previsione è che entro il 2040, un terzo della popolazione della Germania non vi sarà nata. Nel 2019, scrive Stephen Smith, le persone di origine africana che vivevano in Europa erano circa nove milioni. Entro il 2050, continua, ci potrebbero essere “circa 150-200 milioni di afro-europei – contando gli immigrati e i loro figli” se si verificherà una “sostenuta ondata migratoria africana”, in cui le persone si sposteranno a nord da un’Africa altamente (e sempre più) popolosa verso un’Europa sempre meno popolosa. 8.
L’immaginario ecologista è cosmopolita; si basa sul presupposto che l’umanità potrebbe essere salvata solo se agiamo insieme. L’immaginario demografico è un’immaginario nativista; agisce sotto il presupposto che gli altri vogliono sostituirci e noi dovremmo fermarli.
Gli attivisti del clima dubitano della moralità di fare figli in un mondo spinto all’autodistruzione. I nazionalisti vedono qualsiasi famiglia con meno di tre figli come traditori.
Ma entrambi gli immaginari sono segnati da un senso di estrema urgenza. Sia gli attivisti del clima che i nazional-populisti condividono la sensazione di stare vivendo negli ultimi giorni del mondo.
La frattura Est/Ovest in Europa
Accettiamo che la politica europea oggi sia una gara tra coloro che vogliono “salvare la Vita” e coloro che vogliono salvare “il nostro modo di vivere”. In questo contesto, quanto è importante la divisione Est/Ovest in Europa? Come influenzerà il futuro dell’UE, e come dovremmo pensarci?
La nostra argomentazione è che mentre sia l’immaginazione ecologica che l’immaginazione demografica sono presenti in tutte le società europee, è l’immaginazione ecologica che modella principalmente la politica dell’Europa occidentale, dove i partiti verdi e le sensibilità verdi sono in crescita, mentre l’immaginazione demografica è quella che modella la politica dell’Europa orientale.
Ma il divario Est/Ovest non è il più importante divario di valori in Europa, perché se si vogliono conoscere i valori e le preferenze politiche delle persone, non è necessario sapere in quale paese vive una persona, ma se una persona vive in un grande centro urbano o in una zona rurale (Varsavia è più vicina in termini di valori a Berlino che alla campagna polacca). La frattura Est/Ovest è importante perché non è semplicemente una divisione tra cittadini, ma anche tra governi e stati. Gli attuali conflitti tra Bruxelles da una parte e Polonia e Ungheria dall’altra sono la classica illustrazione di questo punto. La frattura Est/Ovest è esistenzialmente importante per l’UE perché è il conflitto che più probabilmente porterà alla disintegrazione dell’Unione.
La frattura Est/Ovest è anche centrale per il fatto che rafforza gli stereotipi culturali esistenti e riflette le reali e diverse traiettorie storiche dei processi di costruzione dello Stato nelle due parti del continente.
Nel suo classico lavoro “Inventing Eastern Europe“, Larry Wolff dimostra chiaramente che la cortina di ferro fu disegnata molto prima del discorso di Churchill a Fulton nel 1946. La frattura Est/Ovest è stata costitutiva per l’identità dell’Europa in ogni momento storico a partire dall’Illuminismo. A partire dal XVIII secolo, attraversare il confine tra Prussia e Polonia significava passare dall’Europa civilizzata all’Europa barbara. Nei giorni della Guerra Fredda, i dissidenti hanno combattuto duramente per sostituire la nozione di “Europa dell’Est” con quella di “Europa Centrale”, nella speranza che questo avrebbe permesso all’Occidente di vedere i polacchi, gli ungheresi e i cechi come fratelli perduti piuttosto che come i naturali alleati della tirannia orientale. Nella geografia filosofica dell’Occidente, l’Europa dell’Est era allo stesso tempo Europa e non Europa.
Non sono solo i retaggi intellettuali, ma anche le esperienze storiche divergenti a cementare la centralità della divisione Ovest/Est nella politica dell’UE.
Il mito più pericoloso dell’Europa, sostiene lo storico americano Timothy Snyder, è quello per cui l’Unione Europea sarebbe stata fondata da Stati-nazione di piccole e medie dimensioni. In realtà, Snyder scrive che “l’Unione Europea è la creazione di imperi europei falliti o in crisi. All’inizio c’è la Germania. I tedeschi sono stati sconfitti nel 1945 dopo la più decisiva e più catastrofica guerra di colonialismo di tutti i tempi. La ricordiamo come la seconda guerra mondiale. Anche l’Italia nel 1945 perse una guerra coloniale in Africa e nei Balcani. Non molto tempo dopo, nel 1949, l’Olanda perse una guerra coloniale nelle Indie Orientali. Il Belgio perse il Congo nel 1960. La Francia, dopo essere stata sconfitta sia in Indocina che in Algeria, fa una svolta decisiva verso l’Europa all’inizio degli anni ’60. Queste sono le potenze che hanno iniziato il progetto europeo. Nessuna di loro era uno stato nazionale all’epoca. Nessuna di loro era mai stata uno stato nazione”.
Se Snyder ha ragione – e secondo me ha ragione – è solo con l’allargamento a Est che gli Stati-nazione classici si sono uniti in modo massiccio al progetto di integrazione dell’Europa. Ma perché le società dell’Europa orientale si integrino con successo nell’Unione europea post-nazionale, esse devono disimparare quella che molte di loro vedono ancora come la principale lezione del ventesimo secolo: che la diversità etnica e culturale è una minaccia alla sicurezza.
Nel ventesimo secolo, rivoluzioni, guerre mondiali e ondate di pulizia etnica hanno cambiato la mappa etnica dell’Europa. Tutti questi traumi e sconvolgimenti si sono lasciati alle spalle un’Europa orientale i cui Stati e società erano diventati più – e non meno – etnicamente omogenei. Nel ventesimo secolo, l’omogeneità etnica era vista come un modo per ridurre le tensioni, aumentare la sicurezza e rafforzare le tendenze democratiche. Le minoranze erano viste con diffidenza. Non solo i nazionalisti ma anche i comunisti (autoproclamatisi internazionalisti) credevano nell’importanza cruciale dell’omogeneità etnica. All’indomani della seconda guerra mondiale, il leader comunista polacco Wladislaw Gomulka istruì i funzionari del partito: “Dobbiamo espellere tutti i tedeschi perché i paesi sono costruiti su basi nazionali e non multinazionali”.
Gambe e radici
Come sottolinea lo studioso israeliano Liav Orgad nel suo importante libro La difesa culturale delle nazioni, “mai nella storia dell’umanità è stata data così tanta attenzione al movimento umano.” Nel 2019, nel mondo ci sono 272 milioni di migranti, 51 milioni in più rispetto al 2010. Attualmente, il 3,5% della popolazione mondiale è composto da migranti. Nel 2010 era il 2,8%. L’aspettativa è che queste cifre aumentino. Come scrisse una volta George Steiner, “mentre gli alberi hanno radici, gli uomini hanno gambe”, e le persone usano le loro gambe per spostarsi verso quelli che vedono come luoghi migliori dove potranno vivere meglio. Come sostiene Ayelet Shachar nel suo libro The Birthright Lottery, l’appartenenza a uno Stato (con il suo particolare livello di ricchezza, il grado di stabilità e la situazione dei diritti umani) ha un impatto significativo sulla nostra identità, sicurezza, benessere e sulla gamma di opportunità realisticamente disponibili. Secondo questa lettura, i beni più preziosi che i tedeschi hanno sono i loro passaporti; non sorprende quindi che i tedeschi temano la svalutazione dei loro passaporti non meno di quanto temano l’inflazione. Tutti i beni perdono valore quando diventano troppo diffusi e condivisi. Se vista in questo contesto, la piena appartenenza a una società benestante diventa una forma complessa di eredità patrimoniale: un diritto prezioso che viene trasmesso – per legge – a un gruppo ristretto di beneficiari a condizione che essi perpetuino a loro volta il trasferimento di questo prezioso diritto ai loro eredi. Questa eredità porta con sé un insieme immensamente prezioso di diritti, benefici e opportunità. Il 97% della popolazione mondiale – più di sei miliardi di persone – è assegnata come membro a vita dalla lotteria della propria nascita e sceglie o è costretta a mantenerla tale.
È questa lotteria dei diritti di nascita che sfida la principale promessa della politica liberale e definisce il ruolo centrale della migrazione negli affari globali. Nel mondo connesso di oggi, la migrazione è la nuova rivoluzione – non la rivoluzione delle masse del ventesimo secolo, ma una rivoluzione che guida l’inizio del ventunesimo secolo, messa in atto da individui e famiglie. È ispirata non da immagini ideologicamente dipinte di un futuro radioso e immaginario, ma dalle foto di Google Maps della vita dall’altra parte del confine. Come garantire il diritto degli individui di attraversare le frontiere alla ricerca di libertà e felicità senza violare il diritto degli Stati-nazione di proteggere i propri confini è un problema insormontabile del liberalismo moderno.
Secondo la Banca Mondiale, i migranti che si spostano da paesi a basso reddito a paesi a reddito più elevato guadagnano in genere da tre a sei volte di più di quanto guadagnavano a casa. Se vieni da un paese sottosviluppato e cerchi un futuro economico sicuro per i tuoi figli, la cosa migliore che puoi fare è assicurarti che nascano in Canada, negli Stati Uniti o nell’Unione Europea. L’impatto politico di questo massiccio movimento di persone non è facile da prevedere, in particolare nel contesto dell’incombente crisi ecologica, ma ha già catturato l’immaginario politico delle società. L’immaginario ecologico spaventa le persone con la crescente minaccia che saranno costrette a lasciare le loro terre, mentre l’immaginario demografico le spaventa con la prospettiva che altri verranno a popolare le loro terre natìe, che sono state svuotate dai bassi tassi di fertilità delle società europee.
La scioccante ostilità verso i rifugiati mostrata dai governi e dalle società dell’Europa orientale durante la crisi dei rifugiati del 2015 non potrebbe essere spiegata se non fossimo pronti a riconoscere che è stata scatenata non solo dalla paura dell’arrivo degli stranieri, ma anche dal trauma delle decine di milioni di europei dell’est che hanno lasciato la regione negli ultimi 30 anni. Gli europei dell’est non sanno parlare di frontiere aperte all’interno dell’UE perché la libertà di movimento è sia la cosa migliore che la cosa peggiore che è capitata loro. È la cosa migliore perché le persone possono viaggiare, studiare e lavorare all’estero; è la cosa peggiore, perché il medico del villaggio o il loro vicino più prossimo può decidere di partire per l’Occidente.
Nell’Europa dell’Est, la retorica nazionalista dei governi populisti non ha semplicemente lo scopo di impedire agli stranieri di entrare nei loro paesi. È intesa a cercare di impedire ai propri cittadini di voler lasciare le loro terre natìe. Affermando che l’Europa occidentale è stata invasa dai migranti del Medio Oriente e che l’Occidente non è più l’Occidente, i leader populisti dell’Europa orientale speravano di convincere i propri giovani a smettere di sognare di andare in Occidente.
Ma se, come abbiamo sostenuto, la divisione Est/Ovest non è stata inventata da leader populisti come Kaczynski o Orban, sono stati questi tipi di leader politici che hanno fatto la loro strategia per essenzializzare le differenze tra l’Est e l’Ovest e per trasformarle in armi. Il paradosso è che, ora, alcuni dei leader politici dell’Europa centrale e orientale stanno combattendo in favore di ciò contro cui prima hanno combattuto. Negli anni ’80, i nazionalisti anticomunisti dell’Europa orientale combattevano contro l’idea che l’Europa orientale fosse fondamentalmente diversa dall’Occidente. Ora sono i maggiori sostenitori di queste idee.
I leader populisti hanno colto rapidamente il fatto che, due decenni dopo la fine del comunismo, le società dell’Europa orientale si erano stancate di imitare l’Occidente. Quando i populisti dell’Europa centrale inveiscono contro l’Imperativo dell’Imitazione percepito come la caratteristica più insopportabile dell’egemonia del liberalismo dopo il 1989, essi assumono giustamente che l’imitazione significhi superiorità morale degli imitati sui loro imitatori; che essa implichi un modello politico che pretende di aver eliminato tutte le alternative valide e una presunzione che i rappresentanti dei paesi imitati (e quindi implicitamente superiori) abbiano un diritto continuo di monitorare, supervisionare e valutare il progresso dei paesi imitatori.
A differenza del prestito di tecnologie, l’imitazione di ideali morali ti fa assomigliare a quello che ammiri, ma simultaneamente ti fa assomigliare meno a te stesso in un momento in cui la tua unicità e la fedeltà al tuo gruppo sono al centro della tua lotta per la dignità e il riconoscimento.
Ma quello che i leader populisti non sono riusciti a cogliere è che, per le società dell’Europa orientale, l’UE e l’Occidente sono ancora l’unico riferimento di valore.
In Bianco, la seconda parte della famosa trilogia cinematografica Tre Colori di Krzysztof Kieslowski prodotta nei primi anni ’90, Karol, un parrucchiere polacco che vive a Parigi, viene lasciato divorziato, disperato e umiliato dalla sua più giovane moglie francese, Dominique, con la motivazione che non è in grado di fornire prestazioni sessuali. La sua impotenza diventa il simbolo dell’Oriente intrappolato nelle eccessive aspettative dell’Occidente nell’Europa post-1989. Infelice, senza un soldo, ma ancora ossessionato dalla sua ex moglie, Karol torna a Varsavia nascosto nella valigia di un compatriota e passa il resto del film cercando di vendicare la sua umiliazione facendo sentire la sua ex moglie impotente e sola come lui si sentiva a Parigi. Il suo piano ha successo; la fa imprigionare in Polonia, solo per rendersi conto che è ancora innamorato di lei e la sua vita non ha senso senza di lei. L’Est si è vendicato dell’arroganza e dell’insensibilità dell’Ovest solo per rendersi conto che l’Ovest rimane il suo unico punto di riferimento.
La politica del determinismo demografico e le ultime elezioni americane
L’ansia demografica sfida le democrazie in più di un modo, ma la sfida più grande è l’ascesa del determinismo demografico.
Come Fox News ha doverosamente riportato il 14 novembre 2020, decine di migliaia di sostenitori del presidente Donald Trump – arrabbiati e determinati a salvare il loro paese – si sono riuniti a Washington DC rivendicando brogli elettorali e hanno esortato Donald Trump a non concedere al presidente eletto Joe Biden.
“Questa elezione ci è stata rubata”, ha detto alla folla Courtney Holland, un’attivista conservatrice del Nevada. “Se rubano le elezioni del 2020” – ha annunciato l’altoparlante – “non ci saranno le elezioni del 2024!”.
Le proteste di massa contro le elezioni truccate non sono nulla di eccezionale nella storia della democrazia. Quindi, ciò che lasciava perplessi nei raduni post-elettorali pro-Trump non era l’affermazione che le elezioni erano truccate, ma l’affermazione che non sarebbero mai più state giuste. I sostenitori di Trump non erano arrabbiati per il conteggio dei voti in sé, ma per gli elettori che venivano contati. Ai loro occhi, le elezioni americane erano state truccate non dalla manomissione dei voti, ma dalle frontiere aperte e dai bassi ostacoli alla naturalizzazione degli stranieri illegali; politiche introdotte dai democratici che cercano così di bloccare la loro futura preminenza (in modo simile al presidente bulgaro che importa gli elettori dalla Turchia) rimodellando l’elettorato a loro vantaggio. Hanno accusato il loro avversario di rubare il loro paese attraverso le elezioni. Hanno accusato i democratici di voler sciogliere il popolo americano ed eleggerne uno nuovo.
“Penso che questa sarà l’ultima elezione che i repubblicani avranno la possibilità di vincere”, avvertiva Donald Trump in un comizio elettorale nel 2016, “perché avrete gente che scorre attraverso il confine, avrete immigrati illegali che entreranno e saranno legalizzati e potranno votare e una volta che tutto questo accadrà potrete dimenticarvelo” 9.
Con più forza di qualsiasi altro politico, Donald Trump ha dato voce alla paura degli elettori del gruppo demograficamente dominante di essere politicamente emarginati dal cambiamento demografico e generazionale. Il rifiuto di Trump di concedere e l’affermazione dei suoi sostenitori che questa potrebbe essere l’ultima elezione cattura il momento in cui le paure demografiche hanno trasformato una parte considerevole degli elettori repubblicani spingendoli a essere contro la democrazia.
In democrazia, chi perde oggi concede la sconfitta per due motivi principali. Primo, perché perdere un’elezione in una democrazia significa non perdere troppo; chi perde non teme di essere arrestato o derubato dei suoi beni. In secondo luogo, ha buone ragioni per credere di poter vincere le prossime elezioni. La convinzione che coloro che perdono oggi hanno una buona possibilità di diventare i vincitori di domani è una precondizione per la durata della democrazia. In una democrazia, piuttosto che scendere in strada o barricarsi nei loro uffici, i perdenti incanalano la loro delusione nella preparazione del prossimo turno. I perdenti scommettono su quello che Clauzewitz ha chiamato “l’istinto di rivalsa e di vendetta” tra le truppe che hanno subito battute d’arresto. “È un istinto universale” scrive Clauzewitz, “condiviso dal comandante supremo e dal più giovane tamburino; il morale delle truppe non è mai più alto di quando si tratta di ripagare quel tipo di debito… C’è quindi una propensione naturale a sfruttare questo fattore psicologico per riconquistare ciò che è stato perso” 10.
Ma cosa succede se i sostenitori di un partito sconfitto credono di essere condannati e di non poter più vincere? E se il loro pessimismo è alimentato dall’ansia che il loro numero si sta riducendo mentre quello dei loro avversari sta aumentando a causa delle migrazioni e del prossimo cambiamento di una nuova generazione che si sente estranea come i migranti? In una guerra l’eroismo delle truppe può rivelarsi più importante del numero dei soldati, ma non in una democrazia. In una democrazia sono i numeri a decidere. E qui viene la domanda: i partiti, perseguitati dalla paura del declino demografico, saranno ancora pronti a fidarsi della democrazia e delle sue regole?
La demografia non è il destino, ma “il cambiamento demografico plasma il potere politico come l’acqua plasma la roccia”. La democrazia è un gioco di numeri. Quando i numeri cambiano, il potere cambia di mano. La narrativa democratica insiste sul fatto che il potere cambia di mano perché gli elettori cambiano idea. Ma in realtà, il potere può anche cambiare di mano quando la popolazione cambia. Questo potrebbe essere perché una nuova generazione con forti preferenze collettive diventa maggiorenne, come è successo nelle democrazie occidentali negli anni ’60 e ’70. Potrebbe anche essere perché un gruppo considerevole di nuovi elettori entra in politica e la rimodella. Questo è quello che è successo in molti paesi quando è stato introdotto il suffragio universale. È anche ciò che Israele ha sperimentato sulla scia della guerra fredda, quando numerosi ebrei sono arrivati dall’ex Unione Sovietica per diventare cittadini israeliani. L’Europa centrale e orientale ha visto un’altra forma di questo fenomeno. Milioni di persone si sono trasferite, soprattutto in Occidente, e le forze politiche liberali dell’Europa centrale e orientale hanno visto il loro potere diminuire, dato che molti dei loro elettori sono tra coloro che sono partiti.
La paura delle migrazioni in questo contesto non è la paura della diversità culturale o la paura che i migranti ti prendano il lavoro; è la paura della perdita di potere. Essere maggioranza è la vera identità degli elettori bianchi di Trump; è una vera identità dei populisti dell’Europa orientale.
Quattro volte nel corso della loro storia, gli Stati Uniti hanno assistito all’ascesa di potenti movimenti nativisti il cui obiettivo principale era la limitazione dell’emigrazione nel paese. Le ragioni dell’ascesa di questi movimenti in tutti e quattro i casi sono state “un volume molto elevato di arrivi e forti cambiamenti nelle origini degli immigrati”. Gli storici hanno capito da tempo che gli ex immigrati erano pronti a tenere la porta aperta solo se i nuovi arrivati erano della loro stessa razza. Ma c’è stata una grande ondata migratoria che non ha portato contraccolpi nativisti e questo è stato l’arrivo non volontario degli afroamericani. Gli afroamericani furono “accolti” negli Stati Uniti non a causa delle loro somiglianze culturali con la parte predominante della società americana; allora non ci fu un contraccolpo, perché gli afroamericani privati di tutti i diritti politici non erano percepiti come una minaccia al potere politico della maggioranza.
Il determinismo demografico è una falsità, ma può diventare una profezia che si autoavvera. Solo ieri i repubblicani erano pronti ad abbracciare il cambiamento demografico dell’America come una promessa per una nuova maggioranza repubblicana. Nel suo libro Future Right: Forging A New Republican Majority, lo stratega repubblicano Donald T. Critchlow ha sostenuto che “il presupposto che la demografia favorisca i democratici come partito del futuro è sbagliato”. A suo parere, la base democratica – una coalizione scomoda di donne, minoranze e giovani elettori – è vulnerabile alla presa di potere da parte dei repubblicani. La configurazione della razza in America apre al partito repubblicano l’opportunità di conquistare ispanici e asiatici-americani. Gli asiatici-americani – che tradizionalmente eccellono nei risultati accademici – sono nemici naturali dei programmi di azione affermativa. Il fatto che la maggior parte degli ispanici si consideri bianca e che la maggior parte viva in quartieri non segregati, razzialmente e di reddito misto, li rende aperti agli argomenti repubblicani. Ma nel momento in cui il nativismo diventa un’ideologia repubblicana, rischiano davvero di perdere il sostegno dei gruppi minoritari.
Il determinismo demografico espresso dai sostenitori di Trump e dai suoi ammiratori dell’Europa dell’Est mina la democrazia con il suo presupposto che sappiamo – o almeno possiamo prevedere – come voteranno le persone solo conoscendo la loro identità etnica e razziale. Ai loro occhi, in un’epoca di politica identitaria le elezioni hanno iniziato ad assomigliare a dei censimenti. Ma se le elezioni assomigliano a dei censimenti, il più alto dovere del vero patriota è quello di impedire che la politica del corpo si inquini etnicamente. I governi nazionalisti possono tollerare i lavoratori stranieri, ma non sono inclini a dar loro la cittadinanza e a cercare di integrarli nella società politica.
Nella sua famosa conferenza del 1949 “On the Development of Citizenship“, il sociologo inglese T.H. Marshall distingueva tra dimensione civile, politica e sociale della cittadinanza. Secondo lui, ci sono voluti tre secoli perché l’Occidente vincesse la sua guerra per i diritti. Il XVIII secolo fu segnato dalla lotta per i diritti civili, la libertà di parola e di religione, e l’uguaglianza di fronte alla legge. Il XIX secolo fu fondamentale per la lotta dei cittadini per ottenere i diritti politici. Fu in questo secolo che il diritto di voto fu concesso a una parte molto più grande della popolazione. Il voto, una volta un privilegio, divenne un diritto. Infine, l’ascesa dello stato sociale nel XX secolo ha esteso il concetto di cittadinanza alla sfera sociale ed economica, riconoscendo le condizioni minime di salute, istruzione e standard di vita di base. Secondo Marshall, il moderno stato liberale è una combinazione di questi diritti e i diritti sociali sono quelli più contestati.
Ciò che è distintivo per il momento attuale è che gli illiberali del XXI secolo hanno spezzato il trio dei diritti di Marshall. Sono pronti ad aprire i loro mercati agli stranieri (come l’Australia del secondo dopoguerra, l’Europa dell’Est si trova oggi di fronte a una situazione “popola o perisci”) e a dare loro diritti sociali, ma non sono disposti a dare loro diritti politici. Il diritto di voto rimane un privilegio basato sull’origine. È un dominio riservato alla maggioranza etno-culturale e alle minoranze nazionali tradizionali, se esistono.
La paura dei piccoli numeri
Il famoso studioso americano-indiano Arjun Appadurai ha scritto un libro intitolato The Fear of Small Numbers, La paura dei piccoli numeri, pubblicato nel contesto della guerra al terrorismo, il quale pone una domanda estremamente interessante: come è successo che minoranze molto piccole possano alimentare un tale odio e impulsi genocidi in una società, quando stiamo parlando di gruppi che sono il 3-4 per cento della popolazione? La sua argomentazione è che il problema delle minoranze è che minacciano l’idea di interezza del gruppo di maggioranza. E in secondo luogo, che ricordano alla maggioranza che anche loro possono essere minoranze. Questa paura della maggioranza minacciata è uno dei fattori più importanti nella politica europea.
L’Europa dell’Est rappresenta questa paura dei numeri che si riducono. Rappresenta lo scontro tra due significati molto diversi di “maggioranza” inerenti alla politica democratica.
È la promessa della maggioranza etnica e culturale permanente nata nel contesto della lotta per l’autodeterminazione e associata all’emergere degli stati post-imperiali in Europa nel XIX e XX secolo, e la nozione di maggioranza come viene definita nella politica democratica.
Simile alla monarchia, descritta dal famoso libro di Kantorowicz I due corpi del Re, anche la democrazia ha due corpi. Fa nascere una maggioranza che muore in ogni giorno di elezioni e allo stesso tempo parla della maggioranza come sinonimo di nazione, quella che è immortale e che rimane immutata mentre i governi cambiano continuamente. È questo corpo immortale che i leader nativisti di oggi pretendono di incarnare. L’odierno scontro tra liberalismo e illiberalismo è lo scontro tra la nozione di maggioranza nata con la nascita dello stato nazione, che ha caratteristiche etniche e culturali mai mutevoli, che ha un odore e una forma, e la nozione di maggioranza adottata nella politica elettorale dove la maggioranza è Barbapapa, l’amato personaggio francese dei film per bambini che cambia continuamente forma. Le democrazie europee si perdono nel gioco costante tra queste due nozioni di maggioranza che l’ansia demografica mette in conflitto tra loro.
Nel 1995, il grande antropologo americano Clifford Geertz accettò l’invito dell’Istituto di Scienze Umane di Vienna per tenere una conferenza sul significato del mondo dopo la Guerra fredda. Contrariamente al consenso prevalente all’epoca, Geertz tendeva a vedere il neonato ordine internazionale non come segnato dalla convergenza e dall’adozione di modelli occidentali, ma come ossessionato dall’identità, in cui “un flusso di oscure divisioni e strane instabilità” è venuto in superficie.
Geertz credeva che per comprendere questo mondo, è importante capire “come la gente vede le cose, risponde ad esse, le immagina, le giudica, le affronta” e adottare “modi di pensare che rispondono alle particolarità, alle individualità, alle stranezze, alle discontinuità, ai contrasti e alle singolarità”.
È giusto riconoscere che viviamo in questo nuovo mondo. E secondo Geertz, il modo in cui rispondiamo alle due domande “cos’è un paese se non è una nazione” e “cos’è una cultura se non è un consenso”, determinerà il futuro dell’Europa. Sono queste due domande che oggi stanno lacerando l’Europa.
Note
- Teitelbaum, the fear of population decline, p.22
- P.57
- Suketu Mehta, “Immigration Panic: How the West Fell for Manufactured Rage,” Guardian, 27 Agosto 2019, www.theguardian.com/uk-news/2019/aug/27/immigrationpanic-how-the-west-fell-for-manufactured-rage
- Maureen A. Craig and Jennifer A. Richeson, More Diverse Yet Less Tolerant? How the Increasingly Diverse Racial Landscape Affects White Americans’ Racial Attitudes, in Personality and Social Psychology Bulletin 1 –12 © 2014 by the Society for Personality and Social Psychology, Inc, SAGE, 2014
- Sabrina Tavernise, “Why the Announcement of a Looming White Minority Makes Demographers Nervous”, NYT, November 22, 2018
- FT
- Hans Magnus Enzensberger, Civil Wars: From L.A. to Bosnia, trans. Piers Spence and Martin Chalmers (New York: New Press, 1994), 117.
- Stephen Smith, The Scramble for Europe: Young Africa on Its Way to the Old Continent (Cambridge: Polity, 2019), 7. See also Noah Millman, “The African Century,” Politico Magazine, 5 May 2015, www.politico.com/magazine/story/2015/05/africa-willdominate- the-next-century-117611
- Harper Neidig, “Trump says 2016 is the GOP’s last chance to win,” The Hill (9 Settembre, 2016).
- Carl von Clausewitz, On War (Princeton University Press, 2008), 244.