Annientare : una lettura del nuovo romanzo di Houellebecq
Andrea Marcolongo ci racconta come ha letto il nuovo romanzo di Houellebecq.
Quasi niente nella vita mi ha mai resa più infelicemente felice di deprimermi come i libri di Houellebecq. Non posso limitarmi a definirmi una semplice fan: il piacere che provo a incattivirmi tra le sue pagine è talmente smisurato e perverso da sfiorare l’idolatria. Essendo donna lo dico con un certo orgoglio, quasi fosse un onore militare: essere fino ad oggi uscita viva dalla lettura dei suoi romanzi senza cedere alla tentazione di suicidarmi è un’impresa non scontata e di cui anzi vado fiera. Eppure ho cominciato a leggere l’autore di La possibilité d’une île (il mio preferito tra i suoi romanzi) relativamente tardi, da meno di un paio d’anni – non si tratta però di un ritardo, credo invece che aver superato l’età di Gesù Cristo sia un prerequisito per leggere Houellebecq, autore tanto trascurabile quando si è nel pieno della giovinezza quanto necessario quando si comincia ad invecchiare e, come tutti, ad aver paura di morire.
Per prepararmi all’uscita di Anéantir con uno sguardo più sincero, nei giorni scorsi ho ascoltato il podcast in tre episodi proposto da France Inter, che ripercorre le critiche a tutti i romanzi di Houellebecq proposte negli anni dall’emissione “Le masque et la plume”. Tra posizione estreme, polari, di amore o di odio – e in questo senso mi sento più che mai vicina all’infatuazione di Frédéric Beigbeder -, si è comunque costretti a riconoscere come i romanzi di Michel Houellebecq siano forse i soli ad avere una dimensione europea, non solo per la loro ambizione di essere totali, un po’ come La montagna incantata di Thomas Mann, ma per l’attesa da parte dei lettori di tutto il continente. Se Anéantir il 7 gennaio è stato pubblicato contemporaneamente anche in Italia dalla Nave di Teseo, non c’è stato giornale europeo che non ne abbia parlato – Michel Houellebecq è diventato per me all’estero un oggetto di discussione franco, un po’ come la cucina italiana, visto che posso chiederne conto praticamente a chiunque in ogni angolo di Europa.
Ho dunque vissuto l’attesa della pubblicazione di Anéantir come una passione sivigliana, con tanto di rituali solo miei e infinite conversazioni/interrogatori con chi mi sta accanto. Il 7 gennaio mi sono persino scandalizzata quando in libreria mi è stato chiesto se cercassi ‘qualcosa di particolare’: che cosa mai dovrebbe volere un lettore il giorno dell’uscita del nuovo romanzo di Houellebecq?
Va detto che in quanto prodotto-libro me lo aspettavo più bello, Anéantir, almeno per gli annunci che l’hanno preceduto e per il suo prezzo, 26 euro: una copertina (fin troppo) rigida bianco latte senza alcuna illustrazione, solo nome dell’autore in nero e titolo in rosso, come a segnalare che ciò che dà senso al denaro speso è tutto al suo interno. In effetti, il primo capoverso che apre il libro è più sofisticato e tagliente che mai: quel « la proximité du néant est inhabituelle » mi rassicura e mi corrobora come un primo bicchiere di vino di molte bottiglie – Houellebecq è tornato a spogliarci delle nostre nevrosi, anzi a scorticarci vivi, meglio mettersi comodi per lasciarsi scandalizzare meglio.
Il tema centrale di Anéantir mi è particolarmente caro, avendo recentemente perso mio padre: siamo nel futuro prossimo, nel 2027, e Paul Raison, un alto funzionario del gabinetto del ministro dell’Economia Bruno Juge (riferimento diretto all’attuale ministro Bruno Le Maire), ha ormai raggiunto « une sorte de désespoir standardisé ». Da più di dieci anni senza alcun contatto né fisico né emotivo con la moglie Prudence pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto, Paul sta indagando un video deep fake che vede il suo ministro brutalmente ghigliottinato. E mentre altri attentati ancora più inquietanti, reali ma non rivendicati, colpiscono la Francia ecco che suo padre, anch’egli a suo tempo al Ministero come responsabile della sicurezza di Stato e ora un settantaseienne poco incline allo stile di vita salutistico con cui tutti siamo quasi stalkerizzati dai media, ha un AVC che lo lascia in coma. È dunque un percorso in ginocchio lungo il sentiero del fine vita, squallido come la corsia di un ospedale che, malgrado tutti gli sforzi per risultare architettonicamente accettabile, resta un luogo fatto per morire, quello che attende Paul – insieme alla campagna presidenziale, ancora più impazzita di un embolo.
In Anéantir c’è una metafora con cui Houellebecq sintetizza lo scandalo supremo della morte: a bordo di un mini van di lusso che percorre le strade solitarie dell’Ovest americano, un uomo dal volto satanico si diverte a gettare dal finestrino uno a caso tra i passeggeri attempati che, malgrado il terrore e lo sgomento, non osano ribellarsi: quel signore è Dio e l’assoluta irrazionalità con cui sceglie di porre fine all’esistenza degli impotenti viaggiatori è la sintesi della meschinità della morte. C’è in effetti – e per fortuna – molta religione in Anéantir, tra lo yoga e la meditazione della moglie di Paul al cristianesimo incrollabile di sua sorella Cécile, che fin da quando era bambina di fronte a un problema ha sempre risposto “chiedo a Dio” con la stessa evidenza con cui si passano a ritirare le camicie in tintoria. E ovviamente c’è molta politica, essendoci una campagna elettorale in gioco, ma di grandi ideologie o almeno di rimedi al populismo imperante non se ne vedono in una società in cui ormai esistono solo ricchi o poveri senza più traccia di una classe media. Stranamente c’è un po’ meno sesso del solito, i desideri dei personaggi rimangono quasi sempre frustrati (anche se le prime prostituite compaiono già a pagina 50), e un po’ più d’amore, o almeno un grande bisogno di amore come unica speranza di senso – « coucher seul est difficile lorsqu’on en a perdu l’habitude, on a froid et on a peur ».
Come sempre – è questa la ragione suprema per cui tanto amo Houellebecq -, c’è tantissima sociologia, un resoconto spietato del nostro modo di vivere contemporaneo, tra un certo ecologismo idiota buono solo a riempiere d’ipocrisia le coscienze e di orti condivisi certi giardini parigini, tra un femminismo di facciata che talvolta nasconde perversioni sessuali e una più generale infantilizzazione del linguaggio pubblico che ci vuole ormai ridotti al rango di bebè smarriti in attesa del prossimo ordine da parte del nostro genitore/Stato – mentre scrivo queste righe, a bordo di un TGV che da Nantes mi riporta a Parigi, il controllore sente la necessità di illustrare ai passeggeri quali spuntini sono permessi a bordo in questo contesto di crisi sanitaria, frutta sì, patatine no, e allora mi chiedo se non sia uscito anche lui da un romanzo di Houellebecq.
Infine, ciò che mi resta dopo aver letto Anéantir è un profondo sentimento di vergogna. Non solo per amare a tal punto il suo autore (il complesso della lettura perversamente alla moda l’ho superato da tempo), ma soprattutto per dover riconoscere come sempre che ha ragione: coloro di cui parla in Anéantir sono i miei amici, i miei colleghi, i miei amanti, sono io stessa – per fortuna da fuori non si vede, nessuno lo saprà mai, e io continuerò ipocrita come tutti a fingere di essere migliore dei personaggi narrati da Michel Houellebecq.