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Nell’andare a votare alle prime elezioni legislative della storia del Qatar, tenutesi nel Paese lo scorso 2 ottobre, qualcuno a Doha potrebbe essersi imbattuto in un edificio che non aveva mai visto prima. Uno dei nuovi stadi in cui si terrà il Mondiale di calcio l’anno prossimo, ad esempio, è stato inaugurato nemmeno un mese dopo, alla fine di ottobre. Si chiama Al Thumama, si trova nella parte meridionale della città. L’architetto per costruirlo dice di essersi ispirato al gahfiya, un copricapo tradizionale diffuso in Medio Oriente. Adesso che la sua costruzione è completa sembra che qualcuno abbia messo un’enorme cassa Bluetooth tra due autostrade. In una città che ha reclamato un’isola artificiale dal mare di fronte a sé e l’ha chiamata “la perla”, comunque, non deve essere parso così strano. Molto più strano è che le persone in Qatar si spostino per andare a votare e che nel farlo si imbattano in stadi di calcio che dominano l’orizzonte come baobab nella savana. Eppure che tra le due cose ci sia un collegamento è un’idea suggerita da molti. «Pensate a tutti i dibattiti sui diritti umani e sul benessere dei lavoratori» ha dichiarato qualche anno fa il presidente della FIFA, Gianni Infantino «Senza il Mondiale questi dibattiti e i miglioramenti che ne sono derivati non ci sarebbero mai stati». In un pezzo di France24 a commento delle elezioni dello scorso mese si legge che “la decisione di tenere le elezioni arriva con il Qatar sotto stretta osservazione mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 2022”. La prima volta questa decisione era stata presa nel 2013 per poi essere ritardata di anno in anno per i motivi più disparati fino ad arrivare a oggi. Sono stati gli stadi, quindi, a portare le elezioni?
C’è da dire che chiamarle “elezioni” fa un torto al significato che siamo abituati a dare a questa parola. Innanzitutto non si eleggeva un parlamento ma un’assemblea consultiva, che per far approvare una legge ha bisogno del voto dei due terzi dei suoi membri. Sembra facile ma non lo è perché un terzo dell’assemblea è nominata direttamente dall’Emiro, che alla fine si riserva anche un potere di veto. Il Consiglio della Shura, come viene anche chiamata, al massimo può sfiduciare un ministro, rifiutarsi di approvare la finanziaria redatta dal governo, ma poco altro. A queste elezioni non si eleggevano nemmeno dei partiti, perché tutti i candidati potevano presentarsi solamente come indipendenti. E poi poteva votare (e farsi votare) solamente una porzione piccolissima della popolazione, più precisamente i discendenti di chi veniva considerato un cittadino del Qatar nel 1930, quando ancora faceva parte della corona britannica. Una definizione di cittadinanza talmente ristretta da escludere persino una delle tribù arabe che storicamente costituiscono la popolazione del Qatar, gli Al Murrah. Sono state vere elezioni, quindi? La notizia si può decostruire proprio come lo stadio Al Thumama, che dopo i Mondiali del prossimo anno sarà smontato nei suoi spalti più alti perdendo 20mila posti. Al loro posto un hotel di lusso che si affaccerà direttamente sul campo, che sarà costruito da quelle stesse persone così escluse dalla società qatariota che probabilmente nemmeno lo sapevano che a pochi metri dalle proprie vite si stava votando per la prima volta.
Il Qatar si regge su uno squilibrio talmente evidente e sfacciato che ha costretto chi questo Mondiale lo guarderà o ci giocherà a chiedersi se ne vale davvero la pena. In realtà, la domanda è nata solo quando abbiamo visto il sintomo più evidente e drammatico di questo squilibrio, e cioè gli abusi sui lavoratori migranti che hanno costruito le infrastrutture senza cui questo Mondiale non sarebbe possibile e infine la loro morte per via delle condizioni disumane a cui sono sottoposti. Tutto è iniziato alla fine di febbraio, quando un’importante inchiesta del Guardian ha quantificato il numero di questi morti, raccontando alcune delle loro storie. Sono stati circa 6750 dall’assegnazione dei Mondiali a oggi, tra i lavoratori provenienti da India, Nepal, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka. Quel numero ha cambiato la percezione di un Mondiale che già era stato macchiato dagli scandali legati alla sua assegnazione, che avevano portato all’azzeramento dei vertici della FIFA. E chissà se senza conoscere quel numero avrei notato lo stesso su Google Maps che lo stadio Al Thumama è precisamente in mezzo tra l’ambasciata dello Sri Lanka e il Centro di Cultura Indiana.
Non è solo il mio occhio ad essere cambiato, ovviamente. Il dibattito acceso dall’inchiesta del Guardian aveva già costretto alcune Nazionali europee ad esporsi pubblicamente poche settimane dopo, durante le prime partite valide per le qualificazioni ai Mondiali dell’anno prossimo. Germania, Olanda, Belgio, Danimarca e Norvegia si sono presentate in campo con magliette che in maniera diversa chiedevano un generico rispetto dei diritti umani – il riferimento a Qatar 2022 verrà esplicitato solo nelle interviste successive. Tra queste, la situazione più seria è quella che ha riguardato la Norvegia, dove il Tromso, con l’aiuto di altri 6 club e 14 associazioni di tifosi, era riuscito a portare in federazione la proposta di boicottare il Mondiale del prossimo anno. La federazione, contraria a una proposta così radicale adesso che poteva contare su una Nazionale competitiva e uno dei due talenti più luminosi del calcio mondiale (Erling Braut Haaland), ha comunque voluto dimostrare di star ascoltando le richieste che le venivano fatte. E così, dopo aver messo addosso ai suoi giocatori una t-shirt bianca con scritto “Human Rights – on and off the pitch”, ha preso tempo, spostando il voto sulla mozione del Tromso dal 14 marzo al 20 giugno. Quando il 20 giugno è arrivato, il tempo aveva effettivamente raffreddato le cose. Nonostante secondo un sondaggio condotto in quei giorni il 49% dei norvegesi fosse a favore del boicottaggio, la mozione è stata bocciata con 368 voti contrari (contro i 121 a favore). Dopo il voto, Ole Kristian Sandvik, portavoce di una delle organizzazioni di tifosi che hanno supportato l’iniziativa (la Norwegian Supporters Alliance), ha dichiarato che partecipare al Mondiale del 2022 sarà come “giocare su un cimitero”.
Se i gesti simbolici si sono fermati alla prima metà di quest’anno, la discussione sui Mondiali qatarioti è continuata. Anche in questo caso una parte del merito va data a un’inchiesta, questa volta di Amnesty International. In un report dal titolo evocativo – In the prime of their lives – l’organizzazione non governativa che si occupa di diritti umani ha analizzato i casi di 18 lavoratori morti in Qatar, tutti tra i 30 e i 40 anni, che evidenziavano l’incapacità e la mancanza di volontà da parte della monarchia del Golfo di fare chiarezza sulle cause e di compensare economicamente le famiglie, e quindi di dare applicazione concreta della nuova “significativa” legge introdotta a maggio sulla protezione dei lavoratori che operano in situazioni di calore estremo. Uno di questi, Yam Bahadur Rana, è improvvisamente venuto a mancare dopo essere stato per ore sotto il sole come guardia di sicurezza all’aeroporto. Per la moglie, che sopravvive con i sussidi donati dal governo nepalese (e spesso utilizzati per ripagare i debiti contratti per ottenere un visto di lavoro per il Qatar), “la vita è diventata come uno specchio rotto”. Amnesty International è tornata sulla questione solo pochi giorni fa, dichiarando che nonostante le riforme “la realtà quotidiana di molti lavoratori immigrati rimane difficile”.
Il giorno dopo la pubblicazione del report in Qatar si è presentato il segretario generale della federazione olandese, Gijs de Jong, con l’intenzione di parlare con organizzazioni e persone che si occupano delle condizioni dei lavoratori migranti nella monarchia del Golfo. Prima ancora di toccare con mano la situazione, però, anche lui ha voluto rinsaldare l’idea che tra gli stadi e il miglioramento della vita umana intorno a loro ci fosse una correlazione. «Il Qatar ha fatto dei progressi negli ultimi tre anni e questo ha totalmente a che fare con la Coppa del Mondo». Alla stessa conclusione arriverà anche un gruppo di parlamentari europei, sbarcato nel Paese quasi esattamente un mese dopo, secondo cui «il processo di riforme di cui siamo stati testimoni è positivo».
Non tutti, però, sembrano disposti a consolarsi con questa idea, che ci mette poco a rivelare la sua contraddittorietà. Perché se da una parte il calcio vuole convincere (e convincersi) che tenere un Mondiale in Qatar alla fine stia facendo del bene, dall’altra però a chi crede che un boicottaggio sia più efficace risponde, come ha fatto la premier danese Mette Frederiksen a chi le chiedeva conto di un possibile boicottaggio della sua Nazionale, che “la politica estera e il calcio dovrebbero essere separati”. In Danimarca, il successo della Nazionale sembra andare di pari passo con la forza che ha assunto il dibattito intorno a questo Mondiale. E di fronte a una squadra che ha vinto 8 partite di qualificazione su 8 subendo zero gol c’è già chi chiede a Kjaer e Delaney di fare un gesto di protesta di fronte all’Emiro del Qatar. Di fronte a questa pressione, la Danimarca sta provando a non mostrarsi indifferente e pochi giorni fa ha annunciato una serie di misure in vista dei Mondiali del prossimo anno. La Nazionale di Hjulmand, in questo modo, non parteciperà ad attività commerciale in Qatar e durante la sua permanenza toglierà gli sponsor dalle maglie d’allenamento in favore di slogan per i diritti umani. Nonostante questo, il governo di Copenaghen sembra voler rinunciare a quello stesso potere che ha portato il Qatar – un Paese in cui il calcio e la politica estera sono tutt’altro che separati – ad ottenere un Mondiale. «Il peggio che possiamo fare è creare qualche bel documento di strategia, che significa che la prossima volta in cui le fasi finali saranno ospitate da un paese controverso non avremo dibattito, perché avremo già la strategia pronta», ha dichiarato la ministra della cultura danese Ane Halsboe-Jørgensen a chi le chiedeva se il governo avrebbe adottato delle linee guida per il futuro “dobbiamo fare dibattito ogni volta che questo succede perché altrimenti il prezzo non sarà abbastanza alto: cercare di fare sport washing deve avere un prezzo”.
Il Qatar sembra ancora molto lontano dal pagarlo, però, anche perché anche in Europa non sono molti quelli che ne chiedono davvero il conto. C’è l’autorità norvegese per il contrasto ai crimini economici e ambientali, che ha chiesto a tutto il mondo del calcio di boicottare il Mondiale. O anche Tim Sparv, capitano della Nazionale finlandese che in una lettera aperta su The Player’s Tribune ha invitato a tenere acceso il dibattito e a “non pensare nemmeno per un minuto che le cose stiano andando bene in Qatar, nonostante le ultime positive riforme”. O ancora la federazione svedese, che ha cancellato il tour che avrebbe dovuto tenere a Doha a gennaio dell’anno prossimo specificando che non ci tornerà nemmeno negli anni successivi.
Forse, però, quelli che più hanno alzato il prezzo da pagare per questo Mondiale sono i tifosi del Bayern Monaco, per quanto possano apparire lontani dalle questioni che riguardano questi Mondiali. Da settimane, infatti, contestano la loro stessa società per gli accordi firmati con Qatar Airways (e in questo contesto non bisognerebbe dimenticare che il fondo sovrano della monarchia del Golfo possiede una parte della Volkswagen, che a sua volta, attraverso Audi, controlla una parte del club bavarese). In una delle ultime partite di campionato, contro il Friburgo, hanno alzato un enorme striscione in cui Oliver Kahn, ex portiere e oggi CEO del Bayern, e Herbet Hainer, presidente, sono intenti a lavare dei vestiti sporchi di sangue mentre delle valigette piene di soldi sono appoggiate sulla lavatrice. Sopra una scritta a caratteri cubitali: “Laveremo qualsiasi cosa in cambio di soldi”. Dopo la partita, stizzito, l’ex CEO del Bayern, Karl Heinz Rummenigge ha risposto ai tifosi che “quei soldi sono necessari per i giocatori di qualità che abbiamo in campo”. Le parole di Rummenigge hanno una sfumatura grottesca alla luce di quella coreografia, soprattutto dopo che il dirigente tedesco si è difeso a sua volta citando i miglioramenti nella condizione dei lavoratori in Qatar che senza il calcio non sarebbero mai avvenuti. Lo striscione alzato dentro l’Allianz Arena ha il merito di mettere uno specchio di fronte ai dirigenti europei che cercano di uscire dal dito dietro cui si sono nascosti usando come scudo le riforme gentilmente concesse dall’Emiro. Perché forse più che darci una pacca sulla spalla per quanto il calcio europeo stia cambiando il Qatar dovremmo riflettere su quanto il Qatar nel frattempo stia cambiando il calcio europeo.
Proprio in questi giorni l’ECA, l’associazione dei club europei, sta pensando di tenere la sua prossima assemblea generale a Doha. D’altra parte, dopo il temporaneo fallimento del colpo di stato tentato dai club promotori del progetto della Superlega, da pochi mesi al suo vertice c’è il presidente del PSG, Nasser al Khelaifi, che lo gestisce per conto del Qatar.
Dopo aver salvato la UEFA da quell’attacco, sarebbe l’occasione perfetta per lui di mostrare ai suoi colleghi l’ultimo gioiello della città: lo stadio Al Thumama.