L’altra pandemia: il paradosso svedese e il futuro del buongoverno ai tempi del coronavirus

Nella sua controversa risposta alla pandemia di Covid-19, la Svezia è andata in direzione contraria non solamente alla maggior parte dei paesi occidentali, ma anche ai propri paesi scandinavi: una scelta che ha messo in evidenza, secondo Fabrizio Tassinari, il lato oscuro del modello nordico basato sul consenso. Che conclusioni trarne sul futuro del buongoverno?

Fabrizio Tassinari , La Stella Polare: Dispacci dal futuro del buongoverno, Rubbettino, 2021, URL https://www.store.rubbettinoeditore.it/la-stella-polare.html

In realtà mi sento abbastanza a mio agio a New York. Mi spaventa, tipo, la Svezia “, mormora Lou Reed, il leggendario frontman dei Velvet Underground, mentre interpreta un fricchettone  nel film del 1995 Blue in the Face. “È tutto desolato, sono tutti ubriachi, funziona tutto. Se ti fermi al semaforo e non spegni il motore, ti si avvicinano persone che te ne vogliono parlare. Apri il mobiletto dei medicinali e trovi una piccola targa con la scritta: “In caso di suicidio, telefona a…”. Accendi la televisione e trovi un’operazione all’orecchio. Queste cose mi mettono paura. New York, no” 1.

Questo buffo monologo suggerisce come le società nordiche siano diverse, o almeno come siano percepite diversamente. Sono caratteristiche in ​​modi che rasentano l’inumano, o forse il post-umano. Alcuni anni fa, due autori svedesi scrissero persino un libro intitolato “Sono umani questi svedesi?“.

Quando si tratta degli stessi paesi nordici, l’osservatore ignaro è istintivamente attratto dalla loro apparente perfezione. Condizioni materiali invidiabili come l’assistenza sanitaria, la capacità dello Stato e la stabilità politica rendono queste terre un modello universale di buongoverno. 

Quando allora arriva un cataclisma come il Covid-19, si potrebbe ragionevolmente presumere che ciascuno dei paesi nordici sia ugualmente ben preparato e perfettamente pronto. 

Finora, tuttavia, l’evidenza non è confortante: paesi come Svezia da un lato e Danimarca, Finlandia e Norvegia dall’altro hanno adottato approcci drasticamente diversi nelle loro risposte al coronavirus. Il bastian contrario dell’immunità di gregge nel primo caso e lockdown draconiani nei secondi. Simile nelle strutture sociali e politiche, affine nella mentalità, rigorosa nella gestione della cosa pubblica, la Svezia ha seguito una strategia completamente differente. Perchè? Con quali conseguenze? E soprattutto: cosa suggerisce questo caso così anomalo sul futuro del buongoverno?

Deploriamo giustamente l’incompetenza e l’arroganza che hanno caratterizzato la gestione del Covid in Stati autoritari o populisti come Brasile, India e Stati Uniti sotto Trump. Leadership ondivaghe, improvvisazione e centinaia di migliaia di morti rappresentano accuse schiaccianti sui fallimenti di questi regimi.

Ma la performance di paesi presumibilmente modello come i nordici è stata tutt’altro che impeccabile. La pandemia ha messo sotto pressione i loro meccanismi ad orologeria; ha rivelato incongruenze e messo a nudo alcune delle contraddizioni più plateali che accomunano tutti i governi democratici.

I pionieri e la pandemia

I cinque paesi nordici – Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda e Finlandia – sono spesso indicati come quelli in cui la governance democratica ha raggiunto i suoi livelli più sublimi. La regione è una frontiera geografica, definita da un clima spietato e inverni bui. Ma è anche una sorta di frontiera esistenziale: un paradiso del benessere, dell’assistenza sanitaria universale e dell’istruzione gratuita. 

L’Europa settentrionale è regolarmente in cima a tutti i tipi di classifiche globali: dalla competitività alla trasparenza alla felicità. Per i politologi di tendenza liberal-democratica, questi paesi sono una metafora della società virtuosa, comunità politiche che anticipano le tendenze e che molti vorrebbero imitare. 

Studiosi  quali  Francis  Fukuyama,  il  predicatore  della democrazia come “fine della Storia” nell’evoluzione ideologica del  genere  umano,  usano l’espressione “arrivare in  Danimarca” come metafora di buongoverno. Persino Beppe Grillo anni fa scrisse un blog intitolato “Sognando  la  Danimarca.” Mario Monti, da Presidente del Consiglio, disse di ammirarne la mentalità e Mario Draghi l’ha citata nel suo discorso programmatico al Parlamento. 

Tuttavia, gli stati nordici hanno sperimentato approcci e risultati molto diversi durante la  pandemia da Covid-19. Si prendano i casi di Danimarca e Svezia. Il governo danese, non diversamente da Finlandia e Norvegia, è stato tra i primi a imporre drastiche restrizioni. Non si è mai trattato di un lockdown totale come nel caso dell’Italia; per mesi dopo che il virus ha cominciato a girare, un visitatore straniero sarebbe rimasto più che perplesso dall’assenza di mascherine nella maggior parte dei luoghi pubblici.

Allo stesso tempo, Copenaghen ha introdotto alcune delle chiusure dei confini e delle restrizioni di viaggio più radicali. Tornando in Danimarca, ad esempio, gli agenti di frontiera mi chiedono prove sempre più dettagliate del motivo per cui voglio entrare nel paese in cui ho vissuto per la maggior parte degli ultimi due decenni. Le misure del governo di Copenaghen sono così radicali che il direttore generale dell’Autorità sanitaria danese, Søren Brostrøm, si è sentito in dovere di dissociarsi dal divieto di viaggio, dichiarandolo una misura politica piuttosto che scientifica.

La giustificazione del primo ministro Mette Frederiksen ha lasciato poco all’immaginazione: “Se dobbiamo aspettare una conoscenza basata sull’evidenza in relazione al coronavirus, semplicemente arriveremo troppo tardi”. L’approccio danese ha comportato l’imposizione di restrizioni e l’espansione dell’autorità statale in modi che ricordano più posti come Taiwan o Singapore, che hanno appiattito la curva del contagio mediante sorveglianza di massa, tracciamento dei contatti e rigorose misure di quarantena.

Quando fu annunciata l’uscita dal primo lockdown, la maggior parte dei paesi europei optarono per una graduale riapertura delle attività industriali, con l’obiettivo di riavviare le catene di montaggio e  approvvigionamento interrotte. Il governo danese, guidato dai Socialdemocratici, ha scelto una strada diversa, riaprendo asili e scuole elementari prima di ogni altra cosa.

Al contrario, l’approccio della Svezia potrebbe facilmente essere scambiato per il negazionismo populista di un Jair Bolsonaro in Brasile o di un Donald Trump negli Stati Uniti. A parte pochissime chiusure mirate, come le scuole per gli ultimi due anni di superiori, il governo di Stoccolma ha deliberatamente lasciato la vita sociale a procedere il più normalmente possibile. 

Con implicito riferimento al controverso approccio dell’”immunità di gregge”, il governo svedese ha permesso che bar, palestre, negozi e ristoranti rimanessero aperti, contando su un servizio sanitario moderno ed efficiente per fornire protezione. Allo stesso tempo, ha messo in conto abitudini sociali e culturali: anche prima che la pandemia colpisse, si stima che due terzi della popolazione svedese lavorasse già da casa almeno part-time e oltre la metà dei nuclei familiari svedesi siano composti da una sola persona. Come ha scherzato l’ex primo ministro Carl Bildt: “Gli svedesi, soprattutto della vecchia generazione, hanno una predisposizione genetica al distanziamento sociale”. 

La differenza nei risultati tra l’approccio danese e quello svedese è stata dirompente. Con oltre 1200 morti per milione di abitanti a causa del Covid-19 (nello stesso periodo, a inizio gennaio, l’Italia ne aveva 1500), il macabro bilancio della Svezia è il quadruplo della Danimarca e quasi dieci volte peggiore della Finlandia. Teoricamente l’economia avrebbe dovuto giovarsi più dell’approccio di Stoccolma. Ma i risultati della Svezia sono stati finora leggermente peggiori della Danimarca (l’economia svedese si è contratta dell’8,6% e quella della Danimarca del 7,4% nel 2020) e peggiori della Norvegia e della Finlandia. Anche il calo dei consumi è stato simile in Svezia e Danimarca (rispettivamente 25% e 29%).

Anche se questo potrebbe sembrare un pesante j’accuse a Stoccolma, dall’autunno del 2020 il tasso di nuove infezioni in Svezia è risultato simile a quello della Danimarca e di alcuni altri paesi europei che hanno imposto blocchi. Nelle parole di Anders Tegnell, l’epidemiologo dietro l’approccio controverso della Svezia: “Alla fine, vedremo quanta differenza farà avere una strategia più sostenibile, che puoi mantenere per lungo tempo, invece della strategia che significa che chiudi, apri e chiudi più e più volte.”

Tutte le incertezze scatenate dal Covid-19 sconsiglierebbero di trarre conclusioni premature. Ma a un anno dall’inizio della pandemia in Europa, è difficile rimanere agnostici di fronte a dati come il tasso di mortalità svedese, che è paragonabile a paesi come il Brasile, la cui gestione della crisi è stata universalmente derisa.

Più di tutto, fa rabbrividire come i funzionari del governo svedese giustifichino questi risultati, con uno che spiega che rimanere aperti era necessario affinché le persone potessero continuare a vivere una “vita normale”. Non c’è bisogno di essere cinici per concludere che il governo svedese ha deciso che migliaia di vittime, per lo più anziani, fossero un prezzo che valeva la pena pagare per risparmiare il resto della popolazione dalle interruzioni e dalle incertezze di un lockdown.

Questa storia dei diversi approcci nordici al Covid-19 mostra come paesi simili possano fare scelte radicalmente diverse su come bilanciare il compromesso tra libertà e sicurezza. In modo paradossale, tuttavia, queste strategie così radicalmente diverse riflettono una somiglianza di fondo più profonda. Si tratta infatti di paesi le cui popolazioni mostrano una fiducia cieca nello Stato e nelle sue istituzioni. Il dibattito pubblico ha discusso gli usi e gli abusi dell’evidenza scientifica, i costi sanitari e le conseguenze economiche, ma alla fine i cittadini hanno accettato qualsiasi scelta fatta dal loro governo.

Le misure dei governi nordici hanno sollevato perplessità, soprattutto in Svezia. Lo stesso in Danimarca quando il governo ha deciso l’abbattimento di 1.5 milioni di capi di visone, per poi ammettere che forse non era necessario. Eppure non c’è stato niente in questi paesi di minimamente comparabile alle proteste e gli scontri che nell’ultimo anno hanno sconvolto paesi dalla Germania agli Stati Uniti all’Italia.  

Per dirla con un’esagerazione: la coesione sociale è così profonda a queste latitudini che i governi svedese e danese avrebbero potuto scambiarsi le loro strategie. Gli svedesi avrebbero pututo attuare il lockdown e i danesi l’immunità di gregge. La popolazione avrebbe accettato tutto. In questo senso il Covid-19 ha rivelato ciò che rende il modello nordico così perfetto e, allo stesso tempo, ne ha messo a nudo il lato più oscuro.

La via di mezzo come un noir 

Anche la Scandinavia ha il suo Tocqueville. Poco più che trentenne, Marquis William Childs, corrispondente per la United Press International a cavallo fra le due guerre mondiali e vincitore del premio Pulitzer, intraprese all’inizio degli anni Trenta  un  lungo  viaggio  in  Svezia.  

Un  po’  come  il  giovane diplomatico francese nell’Ottocento riuscì meglio di qualunque americano a carpire lo spirito dei nascenti Stati Uniti, l’americano Childs ha definito i termini del modello svedese meglio di qualunque scandinavo. A ritorno dal viaggio, nel 1936, pubblicò un bestseller che ancora  oggi  rimane  il  testo  di  riferimento  per  ogni  discussione sul modello nordico.  Sweden:  The  Middle  Way anticipa di oltre sessant’anni l’ossessione delle democrazie di mezzo mondo di conciliare visioni sempre più  divaricate della politica; la chimera che statisti come Tony Blair e Bill Clinton negli anni Novanta chiamarono non a caso «la terza via».

Non c’è una battaglia ideologica aperta nel 21° secolo. Eppure, in Occidente, i cittadini si rivolgono sempre più alle forze populiste per cercare una facile tregua alla frustrazione causata dai fallimenti della democrazia. Altri modelli, come il capitalismo autoritario cinese, si basano su metodi tecnocratici, il cui fascino globale sta crescendo principalmente grazie alla loro capacità di portare a casa risultati. 

Indipendentemente da dove e come vengono praticate, queste alternative sembrano offrire solo risposte parziali e insoddisfacenti a questioni di governance sempre più complesse. Il Covid-19 suggerisce che una rigida imposizione di regole impartite dall’alto o semplificazioni populiste rigurgitate dal basso possono solo rappresentare gli estremi di una tavolozza più sofisticata di processi decisionali.

La “via di mezzo” del 21° secolo non è tra visioni opposte del mondo, né si tratta di trovare un terreno comune tra diverse inclinazioni ideologiche. Si tratta di praticare formati di governance flessibili, un’operazione di bricolage politico complessa ma imprescindibile.

Allora come oggi, il collante è nella cultura del consenso e del compromesso. In Italia, il compromesso ha quasi sempre connotati negativi. E’ un qualcosa “al ribasso”. I nordici invece vedono il compromesso come una cosa estremamente positiva. “Forse non ci incontreremo a metà”, mi disse una volta lo storico danese Bo Lidegaard. “Forse il 30% sei tu e il 70% io”, ma il risultato è accettabile per entrambi. La lingua svedese ha anche una parola per questo, lagom, che racchiude la loro filosofia di una vita che rifiuta gli eccessi, che cerca la giusta misura tra ciò che è troppo e ciò che è troppo poco. I paesi nordici tendono ad essere realistici riguardo alle loro aspettative e trovano l’equilibrio nella moderazione.

C’è, tuttavia, un lato oscuro in questa storia di consenso e compromesso, forse meglio incarnato dal genere di romanzi gialli noto come Scandinoir, reso famoso dalla trilogia Millennium dello scrittore svedese Stieg Larsson. Le tensioni all’interno dei romanzi noir nordici emergono dal contrasto tra l’apparenza blanda e conformista delle società in cui sono ambientati e gli orribili racconti di omicidio, misoginia o razzismo in agguato sotto quelle superfici.

Alcuni si sono chiesti perché una regione caratterizzata da una tale presunta armonia sociale abbia prodotto storie di fantasia così cupe. Ma è proprio questo il punto: uno dei motivi per cui lo Scandinoir è così popolare è a causa di questa dissonanza. Un contesto apparentemente idilliaco e persino noioso maschera una realtà nascosta di crimini atroci e depravazione morale.  Non a caso, in società che giustamente si vantano dei loro elevati standard di parità di genere, il romanzo di Larsson di maggior successo si intitola Uomini che odiano le donne.

Il buongoverno al tempo del Covid-19 incarna questo stesso paradosso: la Svezia è generalmente considerata tra i paesi meglio governati al mondo, eppure ha intenzionalmente imposto alla sua gente un compromesso che poche altre nazioni avrebbero accettato. 

Negli anni ’70, il giornalista britannico Roland Huntford arrivò a denigrare i nordici definendoli “i nuovi totalitari”. Cittadini che accettano ordine e controllo in modi e in misura fin troppo simili alla sottomissione. Dopo un viaggio in Svezia negli anni ’60, Susan Sontag la definì conflittofobia: “non essere competitivo senza essere sinceramente cooperativo”. 

La premessa per raggiungere un tale compromesso non è il desiderio di risolvere i disaccordi, ma di nasconderli sotto il tappeto. Peggio ancora, i conflitti sono anticipati da valori preconfezionati. In altre parole, non è la civiltà a essere al centro del buongoverno nordico, ma piuttosto il conformismo, che definisce le precondizioni necessarie per essere accettati nella società.

C’è consenso, sì, ma è consenso artificiale. Le scelte sono limitate, lo Stato raramente commette errori e, come disse una volta l’economista svedese Gunnar Myrdal, “protegge le persone da loro stesse”. E anche quando lo Stato commette errori, le persone non mettono in dubbio la sua competenza e benevolenza.

Da questo punto di vista, la strategia libertaria svedese di gestire il Covid-19 assume connotazioni molto diverse. Non si tratta di volontarismo e  responsabilità individuali ma di un governo, la sua burocrazia e il suo capo epidemiologo che decidono come proteggere le persone da loro stesse.  E’  un metodo e una prassi di governo che si accontenta di una via di mezzo, quasi a prescindere dai risultati che produce.

I limiti della tecnocrazia

Il Covid-19 ha fornito una cartina tornasole unica sull’idoneità delle nostre istituzioni ad adattarsi e resistere agli shock. Se c’è una lezione fondamentale da trarre da questo racconto nordico è che la capacità operativa dello Stato e la fiducia dei cittadini sono risorse cruciali quando si affrontano sfide complesse.

I paesi nordici ci ricordano che esperti e funzionari pubblici sono essenziali per garantire la continuità al processo decisionale e per attuare politiche bipartisan in uno spirito di trasparenza e responsabilità. Allo stesso tempo, quando i risultati in paesi così ben governati sono così divergenti e controversi, è legittimo interrogarsi sui limiti della tecnocrazia nel fornire risultati efficaci a problemi reali. 

Non esiste un’equivalenza morale tra tecnocrazia e alternativa populista. Il Covid-19 ha confermato che, ovunque siano al potere, i sovranisti  fanno danni assecondando i pregiudizi, mistificando i fatti e mettendo in dubbio certezze scientifiche. Eppure, anche alcuni governi altamente efficienti come i nordici hanno esagerato e hanno spinto le loro politiche a eccessi idiosincratici.

Quando visto in questa luce, il tratto distintivo della mentalità nordica non è il governo tecnocratico o il consenso: è il pragmatismo, lo spirito del bicchiere mezzo pieno. Ho sempre sospettato che questa capacità di trovare la via di mezzo e accontentarsi di ciò che c’è sia  la ragione principale per la quale i nordici sono sempre in testa nelle classifiche mondiali delle nazioni più felici del mondo.

Il poeta Paul Valéry una volta scrisse: “Speriamo in modo vago, abbiamo paura in modo preciso”. Nel bene e nel male, i governi nordici e la loro gente sembrano aver trovato la maniera di sperare in modo molto preciso. 

Note
  1. Una versione di questo articolo, adattato dal libro di Fabrizio Tassinari “La stella polare”, è apparsa in inglese su Noema: https://www.noemamag.com/a-tale-of-two-pandemics/
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