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La (de)militarizzazione, il disarmo, e il controllo di armi e mezzi della violenza rappresentano questioni sociali ed economiche centrali rispetto agli eventi che in questi ultimi giorni (ma forse sarebbe meglio dire da almeno dieci anni) scuotono il Myanmar. Tali questioni sono centrali perché forniscono molteplici chiavi di lettura degli eventi legati al cosiddetto colpo di stato e la dichiarazione (incostituzionale) dello stato di emergenza, e al contempo rappresentano potenziali arene socio-economiche tramite cui scardinare e ripensare le relazioni tra società e istituzioni (statali e non-statali) su basi trans-etniche ed intersezionali.
Mentre per le strade di città come Yangon, Mandalay e Naypyidaw assieme ai manifestanti sfilano anche veicoli blindati dell’esercito e della polizia del Myanmar, non bisogna scordare quello che accade nei territori di confine. Qui, oltre a gran parte dei soldati e delle basi militari del Tatmadaw – un esercito che conta 406.000 truppe attive 1 – sono presenti anche centinaia di milizie e formazioni paramilitari ad esso collegate (con alcune stime riportate tra 107.250 e 180.000 membri 2) che si vanno a sovrapporre a circa 18 organizzazioni etniche politico-armate. Oltre alle armi, alle architetture e alle comunità militarizzate collegate a questi attori, i territori di confine sono contaminati da mine di produzione industriale e artigianale così come da residuati bellici esplosivi, eredità di 73 anni di conflitti armati.
In effetti, le dispute politiche di questi giorni, che dai media internazionali vengono soprattutto lette tramite il prisma delle contestazioni rispetto ai risultati elettorali del 2020 o quello delle dispute di potere tra Aung San Suu Kyi e il comandante in capo del Tatmadaw, Min Aung Hlaing, tendono ad offuscare le lotte di classe e per l’autonomia delle minoranze etniche presenti nel paese. Un dato illumina in modo immediato questa complessità: non solo in molti territori abitati dalle minoranze etniche – in cosiddette zone “di conflitto” – la Commissione Elettorale dell’Unione (CEU) aveva anticipatamente cancellato le elezioni, ma anche laddove le elezioni si erano svolte i partiti politici delle minoranze avevano preferito non protestare davanti ad alcune irregolarità. Come un amico giornalista dallo Stato Mon ha osservato: “alcuni partiti etnici non erano contenti dei risultati elettorali ma sono stati buoni per questo, perché erano preoccupati che l’esercito prendesse il potere.”
Nel mezzo delle voci e delle manifestazioni di dissenso di questi giorni ce ne sono due che credo aiutino a mostrare elementi sociali e materiali dello stato di militarizzazione capitalista in cui versa il Myanmar.
La prima voce è quella di Aye Min Thant, giornalista basata a Yangon, che ha sottolineato una sorta di discrasia tra le percezioni delle giovani generazioni urbane e quelle delle generazioni precedenti, che hanno vissuto le repressioni dei regimi militari negli anni ’80, ’90, e 2000. Molti tra i giovani abitanti delle zone centrali del paese e delle principali città non si aspettavano che le minacce velate (o meno) dell’esercito alla vigilia dell’insediamento del nuovo parlamento divenissero realtà. Le precedenti generazioni invece erano ciniche e sentivano quello che sarebbe successo. Con questo non si vuole tracciare una linea fra generazioni diversamente rimosse da realtà fattuali complesse – giovani immersi in una cultura digitale interconnessa e precedenti generazioni bloccate nel passato – ma piuttosto rilevare due aspetti della militarizzazione del Myanmar.
In primo luogo, tale militarizzazione, negli anni 2000 ed in particolare dal 2011, è andata di pari passo con un’espansione capitalistica nelle frontiere ai confini con Cina e Thailandia, in particolare tramite investimenti di capitale straniero nell’agricoltura intensiva e nell’estrazione di risorse naturali. Questi processi, come sottolineato da Soe Lin Aung, si sono dispiegati attraverso accordi politici ed economici tra élite “democratiche”, élite commerciali dell’esercito e, talvolta, élite dei movimenti politico-armati delle minoranze etniche 3. Tutto questo ha portato ad una semi-democratizzazione del Myanmar fortemente connessa ad aspetti economici. Mentre l’influenza economica delle alte gerarchie del Tatmadaw e le élite ad esse collegate è andata crescendo, le nuove generazioni hanno beneficiato di una parziale apertura.
In secondo luogo, la militarizzazione del paese non passa solo attraverso aspetti materiali e strutturali, ma naviga anche attraverso i modi di pensare e gli usi, e la diffusione della disciplina e dell’autorità, tanto quanto della paura e della violenza, come metodo di governo. Lo stupore di parte delle giovani generazioni da un lato, e l’ammonimento in senso contrario da parte di quelle più anziane dall’altro, evidenziano sia possibili elementi alla base degli eventi dello pseudo-golpe, sia il livello di militarizzazione dello stato e di parte delle società.
La seconda voce è quella di Tar Ho Plan – il comandante in capo del Ta’ang National Liberation Army (TNLA), uno dei 18 movimenti politico-armati delle minoranze etniche che popolano i territori di confine. A fine 2019, a distanza di un anno dalle elezioni, in una risposta a tratti profetica alla domanda “come pensi che il processo di pace evolverà nei prossimi anni?” Tar Ho Plan risponde: “Penso che il futuro del processo di pace possa evolversi in due modi. Prima di tutto, il processo di pace, se portato a compimento, potrebbe mettere in una buona luce il governo dell’NLD, ma il Tatmadaw impedirà che questo accada giocando militarmente e politicamente perché non vogliono che l’NLD venga dipinto come l’attore che è riuscito a portare a compimento il processo di pace. In secondo luogo, dato che le elezioni del 2020 si avvicinano, il Tatmadaw sarebbe interessato a negoziare un accordo con noi (organizzazioni etniche armate) così da poter trarne un vantaggio politico e raggiungere più potere alle elezioni. A quel punto sarebbero in grado di lavarsi il capo da tutte le atrocità e crimini commessi nel passato e dichiarare che hanno raggiunto la pace nel paese. Ma a quel punto, se il Tatmadaw fosse in grado di ottenere più potere politico, non ci potrebbe essere alcuna modifica alla costituzione del 2008, almeno non finchè l’ex dittatore Than Shwe è in vita”.
Il commento di Tar Ho Plan mostra come la politica sia la continuazione della guerra per il Tatmadaw e come le sue logiche di governo, oltre che da elementi strutturali di tipo economico e politico, siano informate anche da logiche militari. Di questo è espressione chiara il rilievo che da molti viene ancora dato alla figura dell’ex dittatore Than Shwe. Al di là del personalismo e delle aspirazioni individuali di potere, il meccanismo rimane: l’ordine viene dall’alto ed è il dittatore a nominare il prossimo dittatore. In tutto questo, spesso le organizzazioni sociali e politiche delle minoranze etniche non potrebbero essere più alienate tanto dall’NLD quanto dal Tatmadaw – senza voler con questo nascondere che alcune élite di tali minoranze in tempi recenti hanno stretto accordi economici e politici con il “centro” del Myanmar.
Collegato alle logiche e tecniche di disciplina militare del Tatmadaw c’è poi un ulteriore aspetto che Tar Ho Plan mostra: il fatto che la militarizzazione del paese è strettamente connessa ad una sorta di razionalità etnonazionale.
Il Tatmadaw non è l’esercito della Repubblica dell’Unione del Myanmar. Il Tatmadaw è l’esercito del Myanmar (inteso come maggioranza etnica Bamar). Il Tatmadaw nacque al tramonto della Seconda guerra mondiale e all’alba della riorganizzazione del governo coloniale britannico prima dell’indipendenza del 4 Gennaio 1948. L’esercito era espressione della necessità di riorganizzare in una sola forza armata diverse formazioni emerse durante il conflitto mondiale. Secondo uno schema di smobilitazione dei gruppi armati della resistenza e reclutamento individuale basato sull’appartenenza etnica, il Tatmadaw venne strutturato in unità composte da differenti “gruppi etnici” presenti nell’allora colonia Birmana. Nei decenni a seguire, la maggioranza Bamar tramutò il Tatmadaw in un’istituzione militare, e militarmente politicizzata, posta a difesa della nazione. Laddove “nazione” va inteso come la maggioranza etnica Bamar posta a difesa di uno stato-nazione basato sui principi di “Amyo, Batha, Thatana”, vale a dire: etnia Bamar (o Myanmar), lingua Birmana (o Myanmar-batha-ska) e religione Buddista (o Myanmar-thatana). In linea con questi tre principi, il Tatmadaw ha portato e porta avanti le sue tre cause principali: la non-disintegrazione dell’Unione (vale a dire lo Stato del Myanmar); la non-disintegrazione della solidarietà nazionale (vale a dire soprattutto solidarietà tra la maggioranza etnica Bamar); e la perpetuazione della solidarietà nazionale.
Tali principi e tali cause hanno colorato di diverse sfumature i regimi civili (1948-1962) e le dittature militari (1962-1988; 1989-2011) che si sono susseguiti negli ultimi 73 anni. Sebbene con connotati diversi, sia il governo democraticamente eletto del periodo 1948-1962 che i regimi militari guidati dal Tatmadaw si sono caratterizzati anche attraverso progetti di assimilazione forzata (armata e non) delle diverse società etniche e religiose presenti nei territori definiti come Myanmar. Il Tatmadaw in particolare ha sempre assunto il ruolo di difensore e garante della formazione e preservazione della nazionalità Bamar tanto quanto dell’assimilazione di altre nazionalità “all’interno” del Myanmar. Un’assimilazione che ha portato con sé la militarizzazione delle aree di confine tra India, Cina, Laos, Thailandia e Myanmar, così come delle istituzioni statali che fino al 2011 sono state interamente e direttamente controllate dall’esercito. Questa differenza tra il Tatmadaw come esercito della Repubblica dell’Unione del Myanmar e il Tatmadaw come esercito del Myanmar fornisce un elemento in più per comprendere quello che ha portato agli eventi del primo febbraio 2021.
Facile da dire a posteriori, ma guardando bene, la dichiarazione illegale dello stato d’emergenza non è arrivata proprio dal nulla, come molti ricercatori ed analisti hanno fatto presente. Dal passaggio di testimone avvenuto nel 2015 tra il governo Thein Sein e quello di Aung San Suu Kyi, le istituzioni statali civili hanno posto in essere una serie di escamotages politici, amministrativi e costituzionali per ridurre l’autorità del Tatmadaw negli apparati statali. Primi fra questi, in particolare: la presa di controllo della Commissione Elettorale dell’Unione (CEU); il ruolo del presidente dell’Unione all’interno del Consiglio per la Difesa e Sicurezza Nazionale (CDSN) nella nomina del comandante in capo dell’esercito; e il passaggio del dipartimento di amministrazione generale da braccio burocratico del regime militare a prerogativa del governo civile (GAD).
Non di minor rilievo, una serie di tessere erano state mosse nel contesto dei conflitti armati nelle zone transfrontaliere. Negli ultimi mesi del 2020 il Tatmadaw si era adoperato per raggiungere una sorta di tacita tregua con l’organizzazione etnica armata dell’Arakan Army nello stato Rakhine. Allo stesso tempo l’esercito si era mostrato proattivo nell’ingaggiare trattative con altre organizzazioni nel nord-est del paese, tra le zone del Kachin e lo Stato Shan del nord, marginalizzando il ruolo dell’organo governativo deputato alle negoziazioni di cessate il fuoco e accordi di pace. Questi territori di confine, entro il 2023, dovrebbero vedere realizzarsi una serie di infrastrutture ferroviarie e stradali che essenzialmente connetteranno lo Yunnan Cinese con la baia del Bengala. Nelle zone a sud-est invece, al confine con la Thailandia, negli stessi mesi si registravano movimenti di truppe, scontri armati e un generale innalzarsi della tensione. Inoltre, a fine gennaio una visita del ministro della difesa russo Shoigu aveva chiuso una serie di contratti per la fornitura di sistemi missilistici, droni e radar. Questi contratti vanno visti come parte di un lungo processo di differenziazione delle fonti di acquisizione di armamenti convenzionali che il Tatmadaw ha iniziato negli anni ’90, al fine di ridurre la sua dipendenza dalla Cina. In questo senso, l’esercito è divenuto invece autosufficiente in ambito di armi leggere e di piccolo calibro, le quali vengono prodotte tramite il Direttorato delle Industrie di Difesa (DDI) posto direttamente sotto il controllo del Tatmadaw.
L’affronto arrecato dalla CEU nel negare audizione alle richieste di accertamenti avanzate dal partito collegato all’esercito (lo Union Solidarity and Development Party) e nel rifiutarsi di consegnare copia delle liste di voto e dei risultati elettorali – atto peraltro costituzionalmente legittimo, dato che le richieste pervenivano dagli organi militari – ha rappresentato, agli occhi del Tatmadaw, l’esempio di una minaccia alla propria autorità. Lo pseudo-colpo di stato e la dichiarazione dello stato d’emergenza sono difficilmente comprensibili da un punto di vista meramente razionale. Infatti, la costituzione varata dal regime militare stesso nel 2008 gli garantisce il privilegio di restare al comando dello stato mentre osserva le istituzioni civili assumersi gli oneri di governo. Tuttavia, il Tatmadaw è da intendersi prima di tutto come un esercito che si sente investito della missione di preservare e realizzare la nazione Bamar e l’assimilazione delle società multi-etniche nello Stato del Myanmar. Le minacce e i nemici possono essere molteplici, dalle ingerenze occidentali all’influenza cinese, ma certamente i più immediati sono già in casa: il governo civile, le organizzazioni etniche armate e quelle della società civile.
Gli eventi degli ultimi cinque anni di mandato semi-democratico in certa misura hanno rappresentato dei potenziali affronti al ruolo del Tatmadaw. Da un lato un lento, ma reale, ridursi dell’autorità dell’esercito in alcuni ambiti di governo e istituzioni statali a favore della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), la quale rappresenta di fatto l’altra forza politica espressione della maggioranza etnica Bamar, seppur democratica. Dall’altro una sorta di minaccia rivolta al futuro: ovvero il consolidarsi di generazioni future che nell’ultima decade e in particolare negli ultimi cinque anni hanno sviluppato e proposto lenti diverse per interpretare la realtà politica, economica e sociale del paese. Generazioni che, soprattutto tramite lo sviluppo di forme di associazionismo, attivismo politico, e organizzazioni della società civile sviluppatesi in contesti transfrontalieri e trans-etnici, hanno cominciato a costituire delle piattaforme socio-politiche che vanno oltre i binari ideologici della democratizzazione e del militarismo politico a stampo Bamar-centrico.
La “Myanmarizzazione” e l’assimilazione forzata tramite militarizzazione comportano non solo il monopolio da parte del Tatmadaw della produzione di armi; l’industrializzazione geograficamente sbilanciata tra centri e periferie statali; l’espropriazione forzata di terreni per la costruzione di basi militari che spesso includono più terreno per attività commerciali che per caserme e zone addestramento; la contaminazione da mine antiuomo; la formazione di milizie locali, integrate direttamente o indirettamente nel Tatmadaw. L’assimilazione forzata tramite militarizzazione comporta anche il reagire ad un insulto o lesione dell’autorità tramite la disciplina militare, piuttosto che attraverso strumenti costituzionali. Non ha unicamente a che fare con un puro esercizio coercitivo ed impositivo del potere, ma anche con il diffondersi di razionalità, logiche, e tecniche di disciplina militare nei rapporti socio-politici.
Guardando allo pseudo-golpe, alla dichiarazione dello stato di emergenza e alle manifestazioni di dissenso dai territori di confine, si può vedere come la demilitarizzazione, il disarmo e il controllo di armi e mezzi della violenza, ora più che mai, costituiscano un’arena sociale e politica dal forte potere trasformativo. Questioni legate alla mancanza di scrutinio pubblico sull’allocazione di risorse statali, alla produzione di armamenti e al suo monopolio da parte del Tatmadaw sono spesso state centrali rispetto ai conflitti armati che coinvolgono i movimenti per l’autonomia e l’autodeterminazione delle minoranze etniche.
Il 7 febbraio, il controverso programma dell’Unione Europea (UE) “Mypol”, tramite il quale un consorzio di agenzie di cooperazione e ONG portava avanti attività di addestramento e fornitura di equipaggiamento alle forze di polizia del Myanmar, è stato interrotto a seguito della presa di potere da parte del Tatmadaw. Tale interruzione, a fronte delle manifestazioni pacifiche di questi giorni nelle città principali del Myanmar, da un lato conferma percezioni diffuse tra le minoranze etniche riguardo ad un certo differenziale di importanza mediatica e diplomatica tra quanto succede nelle zone transfrontaliere e quanto invece investe il centro del paese, soprattutto nella figura di Aung San Suu Kyi e dell’NLD. Dall’altro, ricorda il potenziale trasformativo insito in azioni di disarmo e demilitarizzazione che sono in grado di fornire una base trans-etnica e di democrazia orizzontale al dissenso politico (ed economico) nei confronti del regime militare. Demilitarizzazione e disarmo possono rappresentare un campo di lotta e strategie politiche per de-etnicizzare la politica e l’economia del Myanmar.
Note
- Vedi Michael Picard, Paul Holtom, e Fiona Mangan. 2019. Trade Update 2019, Small Arms Survey, http://www.smallarmssurvey.org/fileadmin/docs/S-Trade-Update/SAS-Trade-Update-2019.pdf
- Min Zaw Oo. 2014. Understanding Myanmar’s Peace Process: Ceasefire Agreements’, Catalyzing Reflection, Swiss Peace Foundation, p.33.
- Soe Lin Aung. 2021. Until the End of the World. Chuǎng, https://chuangcn.org/2021/02/until-the-end-of-the-world-notes-on-a-coup/