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Le sue opere sono attraversate da un interrogativo sul tempo, che si presenta in diversi termini: inquietudine, impermanenza, «confessioni di un giovane dissidente», difficoltà ad «abitare il XXIesimo secolo». Che cosa significa appartenere al proprio tempo, essere del proprio tempo, e abbiamo altra scelta che vivere à contretemps (in controtempo)?
Credo che l’atto dello scrivere comporti sempre una ricerca che muove da una doppia domanda: da dove si scrive e per chi? Da un lato, il tempo e il luogo dell’enunciazione, dall’altro, ciò verso cui si tende, ciò a cui ci si indirizza (orizzonte d’indirizzo).
Nel mio primo libro, scritto come mosso dall’energia di una rabbia, da una sete di rottura con la mia stessa genealogia, ero abitato dall’insieme dei pensieri mortiferi che aleggiano intorno a noi e ci limitano: è un libro in cui ha prevalso la prospettiva di un contro; ed è per questo che l’ho in un certo senso abbandonato. Dopo questo inizio quasi rabbioso, i miei sforzi si sono concentrati sulla ricerca di un diverso luogo di enunciazione e di un nuovo indirizzo. Di opera in opera, sospinto anche da un corpo che cedeva poco alla volta, mi sono avvicinato alle nozioni di: fragilità, ferita, incrinatura, scarto, vertigine, caduta… è ciò che si sente emergere in Vies pøtentielles (Seuil, 2011), Oublier, trahir, puis disparaître (Seuil, 2014) o ancora in L’inquiétude d’être au monde (Verdier, 2012). Ma ho anche cambiato orientamento per aprirmi alla promessa, per rivolgermi ai miei figli. Oggi mi pongo costantemente la domanda: scrivere, ma per lasciare loro quale traccia? Ecco allora che il luogo dell’enunciazione, in Thésée, sa vie nouvelle, è diventata la ferita. Ciò che la attraversa. Ciò che emerge dalle sue infinite sfaccettature. In quest’ultimo libro, il corpo dell’io narrante, per il tramite del quale faccio transitare le sofferenze del vecchio secolo appena trascorso, sprofonda. Ma si tratta anche di quella che chiamo, nella mia tesi di dottorato – una tesi tardiva – la vertigine. Vertigine narrativa nell’opera di Cervantes, vertigine del doppio, delle riproduzioni nell’opera di Borges, vertigine della caduta alla fine del Novecento nell’opera di Claudio Magris, vertigine delle prospettive nell’opera di Faulkner, vertigine dei nomi nell’opera di Pessoa, vertigine del tempo nell’opera di Sebald… Altri lo definirebbero forse turbamento o disordine. Per parte mia, lavoro con, su e a partire dalla vertigine.
A quali tradizioni o figure letterarie si rifà il suo pensiero dell’impermanenza?
In un lavoro di dottorato, come dicevo assai tardivo, ho tentato di costruire una genealogia di ciò che chiamo vertigine. Ne scaturirà un libro, il cui titolo è ancora provvisorio: Storia della vertigine o Vite vertiginose. Mi chiedo: qual è il senso della vita di Don Chisciotte e per estensione delle nostre vite? Che cosa sottende, qual è il senso più profondo della mappa dell’Impero immaginata da Borges? Che cosa rimane delle mappe alla fine del XX secolo nel vagabondare di Claudio Magris lungo il Danubio? Che cosa ci suggerisce la follia prospettica di William Faulkner sul modo in cui esasperiamo le nostre soggettività? Che cosa ci suggerisce l’eteronimia di Fernando Pessoa della vertigine dei nomi e, più in generale, di questa natura instabile del linguaggio, dell’erosione della loro forza? O ancora, come sono intrecciati gli strati del tempo nell’opera di Sebald, e in che modo il suo romanzo Vertigini traduce un’angoscia del segno?
Sono alcune opere, rilette il più possibile ancorato al testo, come un esegeta, a dar forma alle nostre vite vertiginose. Noi sapiens viviamo nelle pieghe del linguaggio, dei codici, degli alfabeti. La nostra semiosi traccia i contorni di luoghi narrativi. Viviamo all’interno di narrazioni che intessono parole e codici. Ci siamo, in questo senso, distaccati dai nostri habitat, dalla Terra, dalle foreste, dai laghi e dai fiumi… È questo gap traduttivo tra le parole e il mondo che appare a colui che si interessa alla vertigine. Vertigine come cedimento, come quando le fondamenta cedono, si sfaldano. Nel mio lavoro vedo operare concretamente questa struttura vertiginosa. In Le Hêtre et le Bouleau (Seuil, 2009) tutto ruota attorno a un’assenza, a un vuoto – l’assenza della lingua, i morti del XX secolo, gli scomparsi –, che sfociano nella necessità di una pedagogia della vertigine. In Thésée, sa vie nouvelle (Verdier, 2020), emerge l’introvabile intersezione tra corpo e linguaggio, ma anche una vertigine del tempo, scaturita dall’intreccio delle generazioni. Nel Livre de la faim et de la soif (Gallimard, 2017), a operare è la vertigine delle storie che si intersecano le une nelle altre, una vertigine di leggende e miti che incontra la vertigine delle micro-finzioni presenti in Vies pøtentielles.
In Thésée, sa vie nouvelle, lei pone questa domanda fondamentale: «Che cosa sa la materia che noi non sappiamo ancora, che non riusciamo a tradurre in linguaggio?». Cicatrici del corpo ereditate nel lungo corso della nostra storia familiare e collettiva, storia letteraria della vertigine: che cosa ha scoperto sul mistero della memoria silenziosa o inconscia, che sembra motivare il suo lavoro intellettuale e letterario?
Thésée si presenta come un’indagine a partire dai traumi che attraversano il lungo corso della storia. Enumero qui alcuni di questi traumi: il marranismo, l’abbandono della preghiera, le guerre, gli esili, i cambi di lingua, i suicidi. Nell’avviare la sua indagine, Thésée deve affrontare l’indecifrabile. Il collasso del corpo di Thésée si nutre della mia esperienza personale: uno shock alla cervicale in giovane età che si è come svegliato portandomi alla paralisi quasi totale… La ripetizione di date caratterizza inoltre la genealogia di Thésée – ciò che Jung chiamava le «sincronie» –, suggerendo un possibile collegamento tra i corpi. È con questi enigmi che la narrazione procede. Ma tengo a dire che, ancora oggi, molte cose sfuggono alla mia comprensione. Mi limito a delineare i contorni di un sapere che si è fatto strada in questi anni di morte-nella-vita che ho attraversato. Esprimo, in particolare, ciò che la psicoanalisi mi ha appreso – l’esistenza di questi strani legami che intrecciano corpo e linguaggio; mi baso su ciò che ho imparato dalla psicologia transgenerazionale. Ho fatto mia la prodigiosa conoscenza che deriva della traumatologia, la quale ci insegna che le regioni limbiche del cervello sono inaccessibili al linguaggio. Sono andato avanti, esitante, partendo da ciò che non sapevo, da ciò che si mostrava a me, ma che non capivo pienamente.
In Thésée, sa vie nouvelle, parlo di «materia umana», di memoria-corpo. Cerco di trovare delle parole, una grammatica. Avrei potuto anche parlare di corpo-scrittura, di corpo-cripta, di corpo-sintomo. E il mio doppio nel libro cerca di decriptare questa materia, di decifrare ciò che è criptato. È questo tentativo di deciframento – di decodifica di ciò che la materia sa – che porta Thésée a leggere il testo errante. In psicogenealogia – ma anche nelle «costellazioni familiari» – si parla di intricazione: di vite interconnesse. Ho indagato, tramite lo strumento del romanzo, casi di interconnessione tra vivi e morti.
Chi è Thésée? È un doppio eteronimo o un simbolo?
Simbolo, eteronimo, non saprei… il primo mi sembra troppo astratto e il secondo troppo concreto. Sappiamo che gli scrittori producono dei doppi. Come Chisciotte che crea un doppio letterario che fa fronte alle difficoltà che incontra. O la mappa dell’Impero di Borges, la quale si sovrappone un po’ per volta allo spazio che rappresenta. È proprio al romanzo, di mappare, riprodurre persone e cose. Ritroviamo qui l’idea del cuore vertiginoso. La parola come sdoppiamento della cosa. Il romanzo come doppio del territorio che indaga. Il labirinto di Thésée, sa vie nouvelle è forse un palinsesto della storia dell’Europa, di un’Europa delle Nazioni che disfa e scompone. Il tema del doppio è ovunque nel libro. Ci sono Talmaï e Nissim, i due fratelli esiliati, venuti a vivere in Francia. I due fratelli, Jérôme e Thésée, che rispecchiano, ossessionati dal passato, i due fratelli venuti dall’Impero ottomano. C’erano due fratelli e dei due uno solo è rimasto. Un doppio era presente anche nelle Vies pøtentielles. In Thésée, sa vie nouvelle, il nome Thésée si è affermato poco per volta. Traduce, grazie al mito, ciò che il libro nel suo insieme cerca di operare: una ricerca sulla paura genealogica nella quale si punta a smascherare il mostro.
Nella graphic novel Herzl, une histoire européenne (Denoël, 2018), il duo formato da Theodor Herzl e Ilia Brodsky mette a confronto il destino di un esiliato senza patria con quello di un ricco viennese, integrato nella società borghese, che decide di rinunciare a tutto, per dedicare la sua vita alla lotta per la fondazione di uno Stato ebraico. In Thésée, sa vie nouvelle si tratta, sebbene in modo più intimo, di lei. Il libro «errante» si apre sulla sua partenza dalla Francia per la Germania in seguito a una triplice tragedia familiare. Thésée nasce dall’impossibilità di restare geograficamente a Parigi. Come si articolano l’inquietudine temporale e l’erranza geografica?
La scelta di prendere il cognome di mia nonna, Marguerite de Toledo, e il nome di un antenato morto suicida ha cambiato il corso della mia vita. Ho in qualche modo proseguito il cammino di mio padre che, costantemente in cerca della propria identità, non ha mai smesso di interrogarsi, parallelamente al suo lavoro, sulla storia del ramo dei Toledo, che chiamava la sua «diaspora». Nel 1993, avevo 17 anni, ricordo quando andammo in Spagna con il fratello di mio nonno, in occasione del 500esimo anniversario dell’«espulsione». Ci andammo con un anno di ritardo, ma l’intento era quello: indagare l’origine del nome. Gli offrirono la «chiave» di Toledo, un simbolo per coloro che sono dovuti partire secoli or sono. Questo percorso verso l’ebraismo di mio padre mi ha profondamente segnato. Tanto è vero che quando tutti i miei sono morti, sono rimasto solo con tutte queste domande. E quando ho iniziato a perdere le forze, dopo il suicidio di Jérôme, tutto è tornato in superficie. Così ho cercato, cercato… La scrittura della graphic novel, Herzl, une histoire européenne, è legata a questa ricerca. Per me, scrivere significa in primo luogo imparare. E ho imparato molto da questo lavoro. Strada facendo, mi sono immedesimato con il mio personaggio, Ilia Brodsky. Non sapevo più dove abitavo, se fossi tra i morti o tra i vivi. Non sapevo più se parlare tedesco, francese o inglese… La mia ricerca si iscriveva nel cammino aperto da mio padre, intorno anche alla questione dell’espulsione. Il libro che racconta con più lucidità il vicolo cieco in cui mi sono trovato a un certo punto della mia vita è Oublier, trahir, puis disparaître. E così, per anni, ho condotto una vita di morto vivente, con i miei figli, a Berlino, perso tra le lingue, tra le epoche, perdendo terreno, immerso nel pozzo senza fondo della vita, dove il linguaggio sprofonda.
La sua scrittura ha assunto molte forme: romanzi, saggi, prosa o versi più intimi, libro musicale con Keren Ann, libro illustrato con Alexander Pavlenko, tesi di dottorato in letteratura comparata, regia di film; allo stesso tempo, la sua identità di autore si è frammentata tra i nomi di Alexis Mital, Camille de Toledo, Oscar Philipsen… questa frammentazione dell’io narrante è in rapporto con ciò che lei chiama «vite potenziali»?
Nel corso degli anni, questa rete di nomi è diventata dolorosa. Perso tra i nomi, ho sfiorato la follia. Nella mia tesi, parlo di Fernando Pessoa e della sua eteronimia, della follia che minaccia il soggetto quando accelera il movimento di esplosione dell’io. Dopo il suicidio di mio fratello, la morte di mia madre e di mio padre, gli assenti hanno cominciato a vivere in me. Ero abitato da una molteplicità interiore, dalle voci dei morti che continuavano a vivere in me e non riuscivo più a proiettarmi nei vari eteronimi. Le micro-finzioni, in Vies pøtentielles, spiegano il passaggio dalla proiezione narrativa – l’età dell’onnipotenza? – alla ricomposizione – l’età delle ferite e delle fragilità. Scritto dopo la morte di mio padre, vi descrivo esseri scissi, smembrati tra le narrazioni che essi stessi proiettano. Laddove il narratore, Abramo, cercava di rileggerli-rilegarli fra loro, intuendo l’orizzonte di esplosione della materia umana. E capendo che l’ora del ricongiungimento era giunta. Oggi, sì, a volte mi dico, sorridendo, che la mia vita è un po’ come il destino della Germania. Sto tentando una ri-unificazione. In un movimento che è proprio alle cose che sono andate in frantumi. Per quanto si lavori a ri-unire, la cicatrice resta visibile.
Questo rapporto così profondo e intimo con la nozione di ibridismo permea profondamente molti aspetti della cultura ebraica (si pensi al Centauro con cui Primo Levi si identifica, oppure ancora alla memoria del marranismo etc.). È anche questo, essere Europei?
In Herzl, une histoire européenne, con l’illustratore russo Alexander Pavlenko, abbiamo cercato di mostrare il tormento che attraversa la fine del XIX e l’inizio del XX secolo: da un lato, la speranza di un ricongiungimento con la terra, con la terra promessa, e questo è Herzl; dall’altro, l’erranza, la storia ripetuta dell’espulsione e dell’esilio, e questo è Ilia Brodsky. Il luogo dell’enunciazione è rappresentato da Ilia Brodsky, il figlio della Russia. Una scrittura che nasce dal dramma, dall’afasia indotta dal trauma. Tramite questo narratore do voce à ciò che dovrebbe essere per me il cuore dell’esperienza europea: una vita tra le nazioni, caratterizzata dalla necessità di tradurre; una sorta di dimensione tra-le-lingue, di cui Le Hêtre et le Bouleau tratta. Ilia Brodsky è un Luftmensch, un uomo senza radici, un funambulo. Questo è l’itin-errante: un punto oscuro, l’angolo cieco che le culture nazionali calpestano e ignorano.
Le Hêtre et le Bouleau (Il Faggio e la Betulla) è sottotitolato Saggio sulla tristezza europea. Potrebbe chiarire questa nozione di «tristezza» e la dialettica definita dalle figure vegetali del faggio e della betulla?
Ho cercato di cogliere in questo libro lo spirito del dopo caduta del Muro di Berlino, avendo in mente nell’interpretazione della caduta il sottotesto della Genesi. Cadere come uno sprofondare nella vertigine. Ciò che ci teneva in vita – una certa fede – non reggeva più. L’anno 1989 è il simbolo di una certa idea di progresso, un progresso verso una maggiore uguaglianza che crolla. Insomma, ho cercato di cogliere il momento in cui la marea del vecchio secolo si è infine ritirata. Ci chiediamo allora: che cosa resta? E quello che resta è esattamente il contrario della domanda di Lenin: che fare? Domanda che si è trasformata, nel corso delle tragedie, in che cosa abbiamo fatto? Viviamo in un’epoca che fatica a trovare il suo linguaggio, in un tempo ossessionato dal passato. Questo che cosa abbiamo fatto… è una domanda che apre la strada alla tristezza. Per cogliere questa tristezza – che rinvia a tutto ciò che è venuto a mancare, a tutto ciò che è stato cancellato, alla vita ebraica, alla speranza storica del marxismo – ho cercato di dare una forma a quelle che chiamo età memoriali. Come agisce la memoria, nei testi, nelle nostre vite? Ho distinto tre alberi-immagine: la betulla, l’albero-testimone, che va da Primo Levi a Imre Kertész; il faggio (hêtre), che si iscrive nell’eredità che va da Lacan (hontologia), a Jacques Derrida (hantologie): hêtre come h-essere con la h di hantise (ossessione); infine il terzo, l’albero degli esilii: il baniano, i cui rami si immergono nella terra per mettere nuove radici.
Thésée, sa vie nouvelle è un libro che si interroga sulla memoria lunga e silenziosa che è inscritta nei corpi e nella materia, oltre il mondo dicibile o visibile. Nel caso dell’Europa, la sua appartenenza a questo continente si traduce nelle ferite, nei segni del lungo corso della storia, nelle cicatrici appena rimarginate o anche in qualcosa di più luminoso?
Mi sembra che Le Hêtre et le Bouleau, come Vies pøtentielles, Le livre de la faim et de la soif o Thésée, sa vie nouvelle siano libri che si immergono nelle tenebre, per meglio immaginare, formulare, una scrittura per coloro che verranno dopo, una lettera da indirizzare ai posteri. La salvezza, una forma di salvezza, verrà dalla trasmissione. La morte non mi ha inghiottito del tutto; sono andato molto lontano in questo viaggio al termine della notte, ma sono in parte tornato alla vita. Questo è stato il mio modo di procedere: attraversare l’oscurità, la morte, per rimettermi in piedi. Non credo alla parola che rifugge il buio per offrire un orizzonte di redenzione. Una questione già affrontata in L’inquiétude d’être au monde, libro in cui, facendo riferimento a Stig Dagerman mettevo in guardia contro coloro che vendono facili consolazioni. Stig Dagerman ha ragione. È importante tenere la ferita aperta, dolente, aggrapparsi all’irreparabile: affermare che il bisogno di consolazione è impossibile da soddisfare. Non significa preferire il buio alla luce. Al contrario, ai miei occhi, l’oscurità si apre à ciò che c’è di più luminoso, come un sole nero trafitto dalla punta di un ago.