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Le recenti elezioni politiche italiane1 hanno assegnato ai partiti populisti oltre il 50 % dei voti e, in particolare, il Movimento 5 Stelle, movimento anti-politico e antiestablishment, ha ottenuto oltre il 32 % dei consensi, ma cosa ci si può aspettare da un movimento populista che va al governo ?
La storia recente fornisce alcuni indizi che permettono di sventare la possibilità di un governo populista tout court, cioè formato da politici dei movimenti anti-establishment. Al contrario ci si potrebbe aspettare un regime misto tra tecnici e politici con policies che potrebbero essere orientate ed influenzate dalla tecnocrazia nazionale e sovranazionale. Andiamo con ordine e partiamo da Roma, la capitale governata dai grillini.
Nel giugno 2016 il Movimento 5 Stelle ha espugnato la Capitale Italiana e la protesta anti-politica ha conquistato la maggioranza dell’aula Giulio Cesare, da cui si scorge un panorama mozzafiato dei fori imperiali, ed eleggendo Virginia Raggi allo scranno più alto del Campidoglio.
La storia recente fornisce alcuni indizi che permettono di sventare la possibilità di un governo populista tout court, cioè formato da politici dei movimenti anti-establishment. Al contrario ci si potrebbe aspettare un regime misto tra tecnici e politici con policies che potrebbero essere orientate ed influenzate dalla tecnocrazia nazionale e sovranazionale.
Andiamo con ordine e partiamo da Roma, la capitale governata dai grillini.
Il governo del Movimento 5 stelle a Roma è un caso politico-istituzionale interessante perché mostra plasticamente i due grandi pilastri intorno a cui si sta svolgendo il processo di riorganizzazione del potere potere politico : il populismo e la tecnocrazia. Da un lato, il Movimento 5 Stelle ha vinto le elezioni con una candidata costruita in laboratorio dalla Casaleggio & Associati, società di comunicazione dei pentastellati, e sfruttando il voto di protesta contro le élites partitiche corrotte che hanno governato la Capitale. Nella retorica elettorale grillina si è sviluppata una ricetta populista composta di giustizialismo, giacobinismo dell’onestà, periferie abbandonate, antipolitica e sovranismo. Dall’altro lato, una volta sbarcati al Campidoglio i grillini si sono accorti di non disporre di una classe politica in grado di affrontare l’intrinseca complessità del governo.
L’unica soluzione possibile è stata quella della costituzione di una giunta tecnocratica. Infatti, se si guarda agli assessori del sindaco Raggi non c’è traccia di politica pratica, non c’è un assessore eletto come consigliere comunale, i profili scelti sono quelli di alti burocrati, magistrati, accademici e professionisti mai avvistati in nessun meet-up grillino. Nonostante i 5 stelle abbiano sfiorato il 70 % dei consensi al ballottaggio che gli ha consegnato il governo di Roma non c’è stato segno alcuno della « politica classica », fatta di consenso e pragmatismo amministrativo. Virginia Raggi è un sindaco circondato esclusivamente da tecnocrati.
Si annida qui, nelle categorie politiche, tutta la contraddizione del messaggio grillino : sobillare la rivolta del popolo contro i vecchi partiti, i tecnici, i poteri forti e poi comporre proprio una giunta di tecnocrati perché il vero risultato della filosofia a 5 stelle, la sua conseguenza non intenzionale, è la distruzione di quella classe politica professionalizzata teorizzata da Max Weber un secolo fa. Cioè di personale politico che nelle democrazie mature è capace di gestire la macchina amministrativa, guidare i processi decisionali, mediare interessi e stabilire collaborazioni.
Nella campale lotta pentastellata alla mal-administration capitolina la rabbia è tutta canalizzata verso la politica tradizionale e non v’è strategia d’attacco al problema più complesso e grande di Roma: una macchina burocratica traboccante di privilegi, inefficienze e disfunzioni. E non è un caso se è proprio nelle nomine di sottogoverno, negli incarichi dei dirigenti pubblici e nell’esercizio del patronage burocratico, che si sono verificati i problemi maggiori per l’inesperta Raggi. Si evidenzia, dunque, un rischio legato all’affermazione populista e alla sua colonizzazione da parte degli interessi costituiti, di cui è spesso espressione la tecnocrazia, che è quello di avere le urne piene, ma il governo vuoto. Con una classe politica inesperta ed inadeguata sostituita da tecnici solo formalmente neutrali, ma nella realtà legati al precedente sistema di potere.
Se alziamo lo sguardo dalle vicende di cronaca il caso Roma spiega l’emergere di una nuova categoria della politica che si sta dispiegando in tutto il mondo occidentale: il tecnopopulismo, cioè la tensione e compenetrazione tra tecnocrazia e nuovi movimenti radicalizzati e anti-politici.
Nella crisi infinita dei partiti tradizionali cresce un messaggio di profonda contestazione alle classi politiche, amministrative ed economiche in nome della protezione e del riscatto del popolo mentre, al tempo stesso, il capitalismo globale non può fare a meno dei tecnici per gestire le sue complessità.
I segni e gli effetti su larga scala della tensione tecnopopulista sono evidenti: le contrattazioni del TTIP, l’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti d’America, si sono bloccate definitivamente per le proteste dei movimenti populisti e le indecisioni dei committees tecnocratici; il problema dell’immigrazione ha partorito molte risposte tecnico-amministrative e costituisce un capitale politico per molti dei nuovi partiti europei, ma non ha delineato risposte decise da parte dei governi, cioè della politica tradizionale; la Brexit è stata la risposta rancorosa del popolo alle regole della burocrazia europea, ma anche la rivolta contro un gruppo di professionisti della politica, guidato da David Cameron e George Osborne, da sostituire con un’altra squadra, maggiormente aggressiva e vicina alle istanze dell’uomo della strada; in Grecia Alexis Tsipras ha portato in piazza il popolo greco, conquistato un forte appoggio popolare e vinto i referendum sul programma di riforme proposto dall’Europa, ma una volta conquistato il governo ha, in poche settimane, ripiegato la propria azione politica sull’esecuzione delle volontà della Troika.
Ancora una volta: tensione e compenetrazione tra il politico schmittiano, con i suoi effetti disordinanti sull’ordine politico, e la tecnocrazia, con la sua logica dell’efficienza.
La stessa elezione in Francia del nuovo Presidente della Repubblica, che ha visto trionfare Emmanuel Macron, è un indizio di tecnopopulismo. L’ex ministro delle Finanze, infatti, ha rotto con il suo vecchio partito e avviato un movimento nuovo che in pochi mesi lo ha portato all’Eliseo sfruttando l’onda di malcontento nei confronti della politica tradizionale. Il nuovo governo francese appare, pertanto, un esperimento tecnocesarista con un Presidente della Repubblica, direttamente eletto dal popolo e che ha già mostrato una vena accentratrice nel policy-making, contornato da una serie di ministri tecnici, cioè di formazione tecnocratica prima che politica, volti ad implementare le decisioni dell’Eliseo più che contribuire alla formazione delle stesse.
In questo scenario, chi paga il prezzo della dialettica tecnopopulista sono proprio le classi politiche e le arti che queste rappresentano: mediazione, moderazione, prudenza, ricerca del compromesso. Tuttavia, il tecnopopulismo è una realtà politica che si va delineando, ma difficilmente costituirà la soluzione alla crisi di legittimazione delle istituzioni democratiche.
Il populismo non riesce a governare come vorrebbe perché teme di perdere il consenso nella complessità dell’amministrazione, proprio come insegna il caso Raggi, sia perché il rischio d’intraprendere policies scelte sull’onda emotiva e popolare è troppo elevato perché il sistema capitalistico globale e quello amministrativo dello Stato non reagisca sabotandone le intenzioni. Allo stesso tempo, la tecnocrazia può essere un accessorio importante per il governo, ma resta una funzione strumentale. Può esercitare azioni di implementazione e di controllo, ma non risolve il problema della discrezionalità politica che sta al cuore del governo perché, come scriveva Wilfredo Pareto : “si può peccare per ignoranza, ma si può peccare anche per interesse. La competenza tecnica può evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo.” In definitiva, la tecnocrazia non può neutralizzare la dialettica degli interessi contrapposti nella decisione politica.
E fu sempre Pareto nel suo libro Trasformazione della Democrazia del 1927 ad individuare, in quel contesto storico, una tensione tra “forze plutocratiche” e “politica demagogica” che mostra alcune affinità con il nuovo regime politico del ventunesimo secolo.
Il tecno-populismo appare come un cristallo dalle molteplici facce ed i tempi appaiono oggi maturi per una prima analisi relativa alle caratteristiche di questo nuovo regime politico che sta prendendo piede nel mondo occidentale.
Trasformazioni della democrazia postmoderna
Come si è visto, le trasformazioni sembrano essere numerose e sostanziali, ma prima di addentrarci nell’analisi è bene sviluppare brevemente un idealtipo che permetta di osservare e classificare questi avvenimenti. L’approccio qui utilizzato è, come evidenziato, realista ovvero volto a cercare, per citare Niccolò Machiavelli, “la realtà effettuale della cosa” senza aggiungere valutazioni morali o interpretazioni ideologiche rispetto a quanto derivi da fatti e accadimenti rintracciabili nella realtà.
In un altro lavoro2 questo regime politico, che ci apprestiamo ad analizzare, è stato definito “tecno-populismo” intendendo con questa espressione un’organizzazione del potere politico caratterizzata da interazioni fra democrazie nazionali, sistemi di capitalismo avanzato su scala globale, istituzioni sovranazionali, sistemi d’informazione e comunicazione tecnologica pervasiva, nuovi movimenti politici radicalizzati.
Se dal punto di vista economico e giuridico la globalizzazione ha avuto una forte accelerazione a partire dalla fine degli anni ottanta, i sistemi d’informazione e la tecnologia sono risultati particolarmente impattanti negli ultimi vent’anni e, per quanto riguarda la politica, negli ultimi dieci anni con lo sviluppo di internet e dei social network. Si è passati così da una prima fase della globalizzazione ad una globalizzazione 2.0, dall’homo oeconomicus all’homo cyberneticus.
La prima fase ha riguardato prevalentemente le trasformazioni dell’economia su vasta scala, della politica economica degli stati e il decentramento delle istituzioni su scala sovranazionale, mentre la seconda risulta maggiormente penetrante rispetto alle forme della politica e ai sistemi organizzativi.
La combinazione di questi fattori ha trasformato le democrazie contemporanee nel modo con cui vengono prese le decisioni politiche, il livello a cui queste vengono prese, e le modalità attraverso cui vengono implementate. Questo perché sono cambiate le forme partito, le forma di comunicazione, le relazioni tra rappresentanti e rappresentati, quelle tra informazione e politica, tra diritto e processi politici.
Quali sono le tendenze di questa trasformazione della democrazia liberale che, per alcuni aspetti, ne determinano la sua crisi ?
Possono essere sintetizzate nei seguenti punti: a) aumento della domanda di partecipazione dell’elettorato attraverso le nuove tecnologie alla vita pubblica, disintermediazione del rapporto tra leadership politiche ed elettori; b) polarizzazione o radicalizzazione dell’offerta politica dei nuovi partiti che sono arrivati sulla scena politica delle democrazie occidentali e hanno guadagnato consensi negli ultimi dieci anni, diffusione di uno stile populista e contestazione radicale del sistema di potere vigente a livello nazionale e sovranazionale; c) aumento della distanza tra le aspettative dei singoli cittadini e la capacità di soddisfarle da parte dei governi, con conseguente crisi dei sistemi di welfare; d) moltiplicazione dei centri di sovranità attraverso cui vengono prodotte decisioni politiche e regole con il conseguente passaggio da una sovranità monistica ad una pluralista; e) rafforzamento degli elementi di depoliticizzazione della democrazia ossia la crescente influenza degli incarichi non elettivi e ad alto tasso di specificità tecnica; f) crescente influenza delle decisione giudiziarie nella vita politica delle democrazie occidentali; g) crescente importanza del potere esecutivo rispetto agli altri poteri pubblici, in particolare rispetto al potere legislativo.
In questo saggio ci concentriamo prevalentemente su due aspetti che appaiono particolarmente importanti a chi scrive proprio perché correlati tra loro: la radicalizzazione dell’offerta politica e la depoliticizzazione delle democrazie. Tuttavia, nel trattare questi due megatrends toccheremo rapidamente, seppure senza un adeguato approfondimento già svolto in un precedente lavoro, anche gli altri cinque elementi della trasformazione dei regimi liberal-democratici3.
La tecnocrazia ovvero il processo di depoliticizzazione della democrazia
Come abbiamo visto, la democrazia liberale si regge sempre su un sottile equilibrio tra la logica della disciplina, data dagli ordinamenti giuridici e dalle burocrazie nazionali e sovranazionali, e la logica della democrazia, espressione delle manifestazioni della politica. Se volessimo aprire la discussione sul rapporto tra tecnocrazia e democrazia potremmo sostenere che la democrazia è una oligarchia in cui si vota periodicamente per cambiare o confermare gli oligarchi. Oppure, per dirla con Raymond Aron, le democrazie liberali sono dei regimi di esperti che operano sotto la direzione di dilettanti. Nonostante queste possano apparire delle brutali semplificazioni non siamo poi molto lontani dalla realtà perché, come notava Roberto Michels4, la sostanza della democrazia è permeata da elementi oligarchici. Da una lato, infatti, abbiamo un’aristocrazia, non elettiva, scelta per supposta competenza e legittimata dalle forme democratiche e dall’altro una democrazia dal contenuto aristocratico.
Questo perché, secondo il politologo elitista, dovunque esiste una forma di organizzazione vi è l’origine di una gerarchia spontanea. Anche nelle democrazie liberali è l’organizzazione che dà alla luce il governo degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei deleganti sui deleganti. Chi dice organizzazione, per Michels, dice tendenza all’oligarchia.
Anche nei regimi democratici, dunque, il corpo elettorale sceglie per un certo tempo i propri rappresentanti, ma la macchina del potere, sin dall’avvento del suffragio universale, è sempre stata molto più complessa. In ogni sistema democratico si dipana, infatti, una continua tensione tra la politica e la competenza, tra la democrazia e la tecnocrazia. Chi è il migliore, il politico o il tecnico, cioè il manager?5.
Se la democrazia è una delle forme di governo in cui il principio del primato della politica si esprime, la tecnocrazia è una delle forme di governo in cui si esprime il primato dell’economia. Lo sviluppo industriale caratterizza la società moderna proprio perché l’industria è il vessillo della modernità e chi guida il processo produttivo, pilastro fondamentale della società libera, è chiamato inevitabilmente a guidare l’intera società6. Democrazia e tecnocrazia sono l’espressione delle due grandi caratteristiche, divergenti ma dialoganti, della cultura politica occidentale: il primato del potere politico e il primato dell’organizzazione aziendale privata. Da questi due concetti, che nelle democrazie liberali contemporanee non possono che convivere, si originano due modalità diverse di selezione della classe dirigente: la scelta dei migliori in democrazia è affidata al voto, mentre in tutte le realtà in cui vige la competenza tecnico-scientifica la selezione non può che essere affidata alla cooptazione.
Si sono sviluppate così le burocrazie che eseguono le decisioni politiche, la magistratura che trasforma in diritto i prodotti del legislativo, la Corte Costituzionale che giudica sui parametri di costituzionalità, le magistrature contabili che valutano le decisioni di politica economica, le autorità indipendenti che regolano i mercati, le banche centrali che gestiscono l’offerta di moneta. Inoltre, a queste negli ultimi trent’anni si sono aggiunte numerose istituzioni sovranazionali.
Si pensi all’Unione Europea, oggi titolare di oltre il 70 % della produzione legislativa, e, in termini più generali, a quegli organismi che regolano i mercati internazionali. Questi ultimi risultano particolarmente interessanti: ci sono le norme che regolano internet, le telecomunicazioni, il trasporto ferroviario, aereo e navale, le attività di pesca ed estrazione, il commercio internazionale. Sono tutti organi con una governance mista: alcuni di essi sono interamente privati, altri alternano attori pubblici e privati, altri ancora hanno un assetto prevalentemente intergovernamentale.
Al di là della composizione questi hanno una serie di caratteristiche comune che impattano sulle democrazie contemporanee: sono composti da tecnici e specialisti, i componenti vengono nominati dai governi e non eletti dai cittadini, producono norme che vengono trasposte sugli ordinamenti interni degli Stati, e queste regole non sono giustiziabili dai tribunali nazionali. Con lo sviluppo del capitalismo globale, quindi a partire dalla fine degli anni ottanta, siamo di fronte ad una ramificazione dei centri di produzione del diritto.
Significa che, mentre in uno scenario bloccato e solo parzialmente integrato come quello della Guerra fredda governi, parlamenti e giudici nazionali erano essenzialmente sovrani su quasi tutto ciò che veniva regolato, oggi questo potere si è grandemente affievolito. Gli apparati di potere nazionale hanno perso, con la globalizzazione dei mercati, potere decisionale su molte materie che riguardano prevalentemente settori economici.
Questa situazione evidenzia due conseguenze: la crescente importanza dei tecnici e delle figure non elettive e un costante allontanamento delle istituzioni dal cittadino-elettore. Per quanto riguarda il primo aspetto, la crescita del numero di figure non elettive nelle democrazie non è un fatto nuovo. Se si prendono, ad esempio, i report del governo del Regno Unito dal dopoguerra a oggi sui Quangos, ovvero i Quasi-non governmental body, che sono quei corpi amministrativi locali e nazionali che si occupano prevalentemente della gestione dei servizi pubblici, si rintraccia un costante aumento di queste figure tecniche a discapito dei politici eletti7.
Inoltre, si pensi alla crescente importanza delle Corti Costituzionali che risultano un attore politico fondamentale nel dibattito pubblico e nelle decisioni politiche. La Corte Costituzionale italiana in presenza di governi deboli ha svolto una funzione di supplenza su molte istanze, la Corte Suprema americana è stata fondamentale nel decidere sulla legittimità della riforma sanitaria del Presidente Obama, quella tedesca nelle misure economiche d’emergenza a livello europeo tra il 2011 e il 2013.
Eppure, queste sono composte da giudici nominati da vari soggetti istituzionali a seconda delle prescrizioni costituzionali di ciascun paese, e restano in ogni caso organi non elettivi e tecnocratici. Lo stesso può dirsi delle banche centrali, anch’esse composte da tecnici di alto livello selezionati dai governi, ed esse stesse enormemente influenti nelle decisioni governative o, come nel caso dell’Unione Europea, per i destini del Continente.
Il giurista italiano Sabino Cassese8 ha rilevato lo sviluppo di una global polity, ovvero di un ordinamento giuridico non sistematico che nasce dall’esigenza di regolare alcune tematiche globali come la finanza, l’ambiente, il commercio internazionale che non possono essere affrontate singolarmente dai governi.
Si è avviato in questo modo un doppio meccanismo: i governi partecipano alle decisioni di questi corpi sovranazionali, in molti casi dotati di una governance mista tra pubblico e privato, e allo stesso tempo le regole prodotte affliggono gli Stati stessi.
Gli esecutivi dei governi del ventunesimo secolo diventano così, allo stesso tempo, promotori e oggetto delle regole internazionali. Una rete di poteri, pubblici e privati, elettivi e non, informa lo spazio giuridico-politico globale in cui si muovono gli Stati a livello governativo e quasi mai parlamentare. Una ragnatela che disarticola il concetto di sovranità politica, come più avanti vedremo, e che pone quesiti futuri riguardanti l’accountability e la responsabilità di questi organi non elettivi ma capaci quanto meno di influenzare la legislazione degli Stati nazionali. Ciò fa della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico due elementi di per sé portatori di trans-nazionalità nel diritto e nelle decisioni politiche così come di depoliticizzazione delle democrazie.
In alcuni casi, i tecnocrati si sono fatti politici assumendo la guida dei governi italiani come nel caso di Carlo Azeglio Ciampi a metà anni novanta e Mario Monti nel 2011. Profili accademici ed internazionali di alto livello così come una serie di ruoli di prestigio e alta burocrazia ricoperti a livello domestico ed europeo hanno favorito la loro ascesa alla testa del governo. Dunque, in momenti di crisi economica e politica la democrazia italiana si è affidata a figure non politiche per condurre l’esecutivo con i partiti che hanno compiuto un passo indietro sostenendo i governi tecnici in Parlamento. Un esempio di come la politica partitica, in momenti di crisi, può scegliere di auto-depoliticizzarsi, scaricando sulla tecnocrazia la responsabilità delle scelte politiche.
In questo scenario le istituzioni appaiono allontanarsi dai livelli decisionali a cui i cittadini si erano abituati, non ci sono più decisioni locali o nazionali ma locali, nazionali, sovranazionali, internazionali a cui si aggiungono corti nazionali, sovranazionali, internazionali, tribunali arbitrari.
L’allontanamento istituzionale sfocia in un problema di accountability: dove si decide, su cosa e chi lo decide sono spesso domande a cui i cittadini non riescono a dare risposta. Accettare scelte che riguardano la vita quotidiana prese da centri di poteri lontani e senza volto contribuisce a creare quelle tendenze che abbiamo già riscontrato nei paragrafi precedenti.
Queste sono istituzioni sovranazionali che nascono dalla logica della disciplina, una logica senza confini, improntata all’efficienza economica e uniformante per tutti i Paesi occidentali che ha supportato la costruzione del mercato globale. Una logica che oggi si scontra con la logica della democrazia, il ritorno del “politico disordinante” all’interno degli Stati nazionali che sta ridefinendo i confini della scena politica e parlamentare. Il tecno-populismo appare come il punto di contatto tra la piramide che si sviluppa dal basso verso l’alto del populismo e quella che si muove dall’alto verso il basso della tecnocrazia.
Fast democracy e radicalità
Con lo sviluppo delle reti di comunicazione di massa si è entrati nella seconda fase della globalizzazione. Dalla libera circolazione delle merci si è passati a condividere, soprattutto con l’avvento di Internet, un’enorme quantità di informazioni e connessioni. Inoltre, sono cambiate le modalità d’interazione tra esseri umani affiancando al rapporto visivo e verbale quello virtuale, immediato e diretto.
Queste trasformazioni della società sommariamente descritte hanno travolto le forme tradizionali della politica. I sociologi contemporanei hanno individuato nella disintermediazione tra leadership politiche ed elettori il tratto caratterizzante del tempo presente. L’elettore viene coinvolto dalla rete e dai social network in un dibattito permanente e diretto, ha la possibilità d’interloquire in modo molto più agile e semplice con i propri rappresentanti, può apprenderne lo stile di vita, i costumi privati oltre che le dichiarazioni e i programmi dei politici9.
Dall’altro lato, per il politico ciò significa saltare i passaggi della rappresentanza tradizionale cioè scavalcare le organizzazioni partitiche e burocratiche. I leader possono dialogare e rivolgersi in continuazione ad una enorme platea di elettori, possono studiarne le reazioni, indagarne le preferenze, tracciare gli umori e muoversi di conseguenza. Il rapporto tra politica e pubblico si è fatto via via molto più intimo e confidenziale seppur attraverso fibre ottiche ed onde elettromagnetiche.
Oggi, in un certo senso, si intravede la soglia di una nuova fase che potremmo chiamare della « democrazia istantanea », la fast democracy10.
I social network combinati ai mass media già esistenti hanno accentuato il processo di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica. E fanno di essa una della cause dell’estremizzazione dell’offerta politica.
L’immediatezza è la caratteristica più penetrante che internet abbia fornito alle forme della politica. Il giurista Sunstein rileva quanto i social network abbiano aumentato il « rumore » delle informazioni a disposizioni del cittadino, ma le abbiano anche personalizzate creando all’interno della rete delle comunità dai confini molto solidi da cui è difficile uscire, perché gli algoritmi dei social ripropongono all’individuo solo contenuti verso i quali aveva già espresso interesse consolidando le convinzioni dello stesso. In altre parole, per il giurista americano i nuovi media frazionano e polarizzano la società riducendo la moderazione delle opinioni e il dialogo ragionevole.
Ciò ha determinato due effetti: da un lato i leader centrano tutta la propria azione politica sulla comunicazione tralasciando i programmi politici e puntando tutto sulle emozioni, dall’altro tendono a polarizzare, cioè a radicalizzare ed estremizzare, la propria offerta politica così da sfruttare i nuovi media per intercettare la varie frazioni e polarizzazioni da questi create11.
Questo fenomeno ha dato origine ad un cortocircuito tra la politica e l’opinione pubblica: l’ultima spinge sulla prima tanto attraverso i media quanto attraverso le organizzazioni di rappresentanza di interessi, questa pressione politica a soddisfare le pretese degli elettori porta i leader a promettere più di quanto non possano permettersi, si crea così un gap di aspettative tra quanto suscitato dai politici nell’opinione e quanto sia possibile realizzare tramite le strutture dello Stato, che produce sfiducia e protesta nei confronti della politica. Il meccanismo si ripete circolarmente verso i vari partiti politici ed alimenta una vera e proprio effetto a « montagne russe » che porta a successi e cadute repentine dei partiti politici12.
In questo modo, l’ipotesi weberiana del leader carismatico come figura caratterizzante delle democrazie torna a dominare la scena politica attraverso i canali della comunicazione di massa e del web, origina un metodo nuovo nella formazione del consenso basato sul rapporto interpersonale, faccia a faccia, tra il capo politico e i suoi followers che alcuni hanno interpretato come l’affermazione di una democrazia recitativa, una trasformazione che per ora si mostra più nella facciata che nelle fondamenta delle istituzioni politiche13.
La democrazia istantanea non lascia spazio ad altri attori che al leader di partito, proprio perché conta solamente l’immediatezza dell’opinione, la presa di posizione sui social e la storia con cui questa viene accompagnata riducendo i comunicati stampa, le assemblee, i dirigenti partitici a dei gusci vuoti.
Gli elettori sono passati dalla membership partitica alla leadership politica, mentre lo storytelling, il racconto del politico e della politica, si è erto a sovrano dispotico della politica contemporanea.
Negli ultimi anni, se si guarda all’Europa e agli Stati Uniti, hanno vinto quei candidati che si sono scagliati contro l’establishment di partito, contro quella classe dirigente che negli anni precedenti aveva promesso molto e realizzato poco. Le preferenze dei cittadini sono andate a candidati outsider, lontani dalla politica tradizionale, in alcuni casi novizi della politica e a nuovi movimenti che hanno saputo intercettare scontento, sfiducia e rabbia verso le istituzioni. Ha vinto chi ha costruito una contro-narrazione, con una forte personalità e un rapporto diretto, intimo, immediato con gli elettori. La personalizzazione è ritornata un elemento chiave della politica contemporanea superando, o comunque rompendo, quel processo di razionalizzazione che avevano fatto della spersonalizzazione statuale il pilastro dell’ordine politico e costituzionale della modernità14.
La « fabbrica del carisma » è diventata, in misura di gran lunga maggiore rispetto al passato, l’officina del successo politico. Gli elettori sono passati dalla membership partitica alla leadership politica, mentre lo storytelling, il racconto del politico e della politica, si è erto a sovrano dispotico della politica contemporanea. E ha fornito la materia prima, il carburante fondamentale, per l’estremizzazione dell’offerta politica.
Nell’era del tecnopopulismo
Come si è visto gli ultimi trent’anni con il progresso tecnologico, la globalizzazione, i cambiamenti sociali e la crisi economica, hanno oggi generato due grandi fenomeni in grado di trasformare la struttura delle democrazie liberali: la tecnocrazia e il populismo, al di là della vaghezza che questi termini, come si è visto, intrinsecamente possiedono.
Per tecnocrazia intendiamo tutti quei corpi non elettivi a livello nazionale, sovranazionale e globale i cui vertici e le cui strutture sono scelte senza un processo democratico, ma attraverso la selezione delle competenze più appropriate per lo svolgimento di funzioni di quel determinato organo.
Per populismo, o politica polarizzata/radicalizzata, intendiamo quei movimenti politici alternativi ai partiti tradizionali che contestano le scelte politiche di questi a livello nazionale e sovranazionale con l’intento di rimpiazzare la classe politica espressa dai partiti tradizionali con una classe politica nuova idealmente vicina alle istanze del popolo, avversa nel nome e nella rappresentanza di questi umori popolari alle azioni dei gruppi politici al governo fino ad oggi.
Questi due fenomeni che prendono corpo dentro e fuori le democrazie caricano di pressione l’attuale classe politica esponente dei partiti tradizionali al fine di ottenere un cambiamento delle politiche a livello nazionale e sovranazionale. Tuttavia, populismo e democrazia raramente condividono gli stessi obiettivi e la stessa logica, seppure è capitato, come nel caso della denuncia dei privilegi della classe politica italiana sia da parte del Movimento 5 Stelle che della lettera inviata dalla BCE al governo italiano nel 2011, che questi potessero coincidere.
La tecnocrazia, in particolar modo quella internazionale e sovranazionale, si fonda sul concetto di efficienza ed effettività per valutare l’operato dei governi. Si avvale di strumenti finanziari, di risorse economiche e soprattutto di regole per raggiungere i propri obiettivi secondo una logica prettamente razionale, quella che Alaisdair Roberts ha chiamato la logica della disciplina. Il tecnocrate sceglie come soluzione migliore quella che funziona, la quale non è sempre quella percepita come più giusta dalla dialettica democratica. Tuttavia, i tecnocrati che esercitano un potere decisionale non si cimentano con il dibattito ideologico né con le pratiche democratiche di formazione del consenso perché questi passaggi possono condurre a risultati inefficienti dal loro punto di vista15.
Per quanto riguarda la pressione populista questa condiziona l’agenda politica in due modi. Da un lato sposta l’asse della politica e del dibattito pubblico dai partiti tradizionali ai nuovi movimenti, alle leadership emergenti e alla “rivolta delle masse” contro le politiche dei governi, le istituzioni e le strutture sovranazionali. Dall’altro sfrutta la mediatizzazione della fast democracy spingendo sull’emotività e l’irrazionalità della massa attraverso scandali, disastri naturali, complotti e dietrologie per rinfocolare la protesta e aumentare la disaffezione verso l’ordine costituito.
Possiamo, quindi, definire il tecno-populismo come una serie di trasformazioni politiche derivanti dalla pressione esercitata, dalla tecnocrazia internazionale/sovranazionale e dai nuovi movimenti politici polarizzati all’interno delle democrazie, sugli esecutivi nazionali al fine di ottenere cambiamenti nelle politiche pubbliche e sostituzione della classe politica nelle istituzioni. In questo contesto si determina l’attrito tra le proposte efficienti, razionali e impopolari della tecnocrazia e la proposta di cambiamento democratico, perciò a tratti istintivo, umorale, irrazionale, dei nuovi partiti contro le politiche e le istituzioni della classe politico-burocratica espressione dei partiti tradizionali.
Ora la domanda è come poter cercare di controllare questo attrito tra tecnocrazia e populismo indirizzandolo verso trasformazioni che non pregiudichino le libertà dei cittadini e lo sviluppo economico delle democrazie occidentali.
La risposta al problema dei tecnocrati, fino ad oggi, è stata quella di imbrigliare con le regole di bilancio, produzione e organizzazione, i movimenti di protesta che arrivano al governo. Le regole che la politica sceglie di darsi attraverso costituzioni e leggi (nazionali e sovranazionali) sono importati per limitare il potere della politica stessa, l’intrusione del pubblico nella vita dei cittadini, per evitare scelte politiche avventate che possono distruggere la ricchezza delle nazioni o di azzerare la crescita del benessere (come è accaduto in molti paesi meridionali dell’Unione Europea).
Tuttavia, quando le regole vengono calate dall’alto verso il basso, ovvero svincolate dalla dialettica democratica, possono determinare reazioni e conflittualità politica. E questo, magari, non perché queste regole siano razionalmente sbagliate, ma perché prive della legittimità politica necessaria per essere sopportate dalla logica democratica, come è accaduto per alcune regolamentazioni del mercato unico europeo, per provvedimenti di disciplina fiscale come il fiscal compact o per i limiti al rapporto deficit/PIL.
Una struttura decisionale di questo genere rischia di avviare un cortocircuito crescente tra tecnica e politica che si estrinseca con la vittoria della proposta maggiormente polarizzata contro l’ordine costituito come è avvenuto, ad esempio, tra Bruxelles e Londra con il voto a favore della Brexit e nell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti tra le politiche, le logiche, le regole di Washington e la reazione delle periferie del paese.
Allo stesso tempo, però, si corre il rischio che il « populismo di governo » si trasformi, in termini di politiche pubbliche, nella fotocopia dell’establishment che l’aveva preceduto ai posti di comando a causa dei forti constraints che il capitalismo globale impone alla politica nazionale e per l’ancora debole visione alternativa all’ordine costituito elaborata dai nuovi movimenti politici.
Una terza via tra la tecnocrazia e il populismo sarà forse possibile quando le classi politiche decideranno di orientare sia il malcontento popolare delle democrazie occidentali, sia le crescenti competenze tecniche derivanti dal mercato globale, verso nuove forme istituzionali di rapporto tra politica e cittadini che possano soddisfare tanto la logica della disciplina quanto la logica della democrazia. Una sfida che oggi non sembra ancora trovare alcuna risposta soddisfacente né a livello europeo né a livello di Stati nazionali.
Conclusioni
Il tecno-populismo rappresenta, dunque, un nuovo regime politico che caratterizza le democrazia del ventunesimo secolo. È costruito da una tensione tra due vie di fuga alla crisi della democrazia parlamentare: una verso l’alto, la tecnocrazia, e una verso il basso, il populismo.
È probabile che i prossimi anni della politica europea saranno caratterizzati dal tentativo di amalgamare la “logica della disciplina” prodotta dai mercati globali e dal neoliberalismo con una “logica della democrazia” sempre più stressata dagli effetti disordinanti del “politico”.
Soltanto la ricerca di questo nuovo equilibrio permetterà alla democrazie liberali di salvarsi mantenendo sistemi capaci di produrre ricchezza diffusa e, allo stesso tempo, di conservare una forte legittimazione politica. Una ricerca che richiederà, necessariamente, la formazione di nuove élite e di nuove teorie politiche. Servirà un lavoro di riesame profondo delle democrazie contemporanee, dei loro vizi e delle loro disfunzioni. Formule migliori, più realistiche, più oneste e più funzionali delle democrazie andranno incessantemente ricercate nel prossimo futuro.
Note
- Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Le Grand Continent il 16 marzo 2018, a qualche giorno dalle elezioni legislative italiane
- Si vedano Castellani L. e Rico A. La fine della politica ? Tecnocrazia, populismo, multiculturalismo, Historica Edizioni, 2017 e Castellani L., Il potere vuoto. Le democrazie liberali e il ventunesimo secolo, Milano : Guerini e Associati, 2016
- Castellani L., Op.Cit., 2016
- Michels R., Op.Cit., 1911
- Burnham J. La rivoluzione manageriale, Torino : Bollati Boringhieri, 1993
- Fisichella D. Autorità e libertà. Momenti di storia delle idee, Roma:Carrocci, 2012
- Flinders M., Op.Cit., 2014
- Cassese S. Chi governa il mondo ?, Bologna : Il Mulino, 2013
- Salmon C. La politica nell’era dello storytelling, Milano:Fazi Editore, 2014
- Castellani L., Op.Cit., 2016
- Sunstein C. #Republic. Divided Democracy in the age of social media, Princeton: Princeton University Press, 2017
- Flinders M., Op.Cit., 2012
- Gentile E., Il Capo e la Folla, Roma-Bari : Laterza, 2016
- Sulla razionalizzazione come processo istituzionale nella storia della politica occidentale si vedano Miglio G. Le regolarità della politica. Scritti raccolti dagli allievi, Milano : Giuffrè, 1988 ; Rebuffa G. Il crepuscolo della democrazia, Bologna : Il Mulino, 1991 ; Weber M. Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e altri scritti politici, Torino : Einaudi, 1983
- Roberts A., The Logic of Discipline. Global Capitalism and the Architecture of Government, Oxford : Oxford University Press, 2010