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Lo scenario di extrema ratio, quello che ha condotto alla rielezione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha prevalso. Ogni altra mediazione tra partiti che riguardasse la spostamento del Presidente del Consiglio Mario Draghi al Quirinale o l’individuazione di una figura terza, super partes, è fallita. La vicenda che si è appena conclusa rappresenta l’epilogo di una legislatura quanto mai sofferta e la spia inequivocabile di un sistema politico in avanzatissimo stato di decomposizione, e non può essere compresa se non la si osserva all’interno di una prospettiva più ampia.
Le elezioni politiche del 2018 hanno ulteriormente destabilizzato il già fragilissimo sistema politico italiano. La crescita repentina di consenso per il populismo, ossia per il Movimento 5 Stelle fondato dal comico Beppe Grillo, e per il sovranismo – la Lega di Matteo Salvini – verificatasi in quell’elezione ha reso impossibile, per mancanza di numeri, l’ipotesi di governo che pareva più accreditata, quella di un accordo fra i due principale raggruppamenti di centro sinistra e centro destra, il Partito democratico e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Mentre in parlamento arrivavano centinaia di nuove leve, politici giovani e poco professionalizzati animati da parole d’ordine anti-politiche, euroscettiche e anti-establishment, quanto mai difficili da organizzare e disciplinare, o anche solo da ricondurre a una logica politica.
Sfruttando le vaghe e confuse emozioni progressiste diffuse nel Movimento 5 stelle, si è tentato allora di cucire un accordo a sinistra tra il raggruppamento di Grillo e il Partito democratico. E, una volta fallita quell’ipotesi, si è arrivati con una faticosa mediazione all’esperimento nazional-populista del primo governo Conte. Un forte elemento di perturbazione, nel quadro delle alleanze europee e internazionali dell’Italia. E una conferma dell’emergere di un clivage fra populisti ed establishment che non ha però sostituito quello fra destra e sinistra, ma gli si è sovrapposto. Anche perché la coalizione di centrodestra era andata unita alle elezioni, che si erano svolte con un sistema elettorale misto proporzionale-uninominale, e governava unita in numerose amministrazioni locali, e in particolare in tutte le importanti regioni del Nord Italia.
L’esperimento del governo Conte I è fallito dopo poco più di un anno. Ha pesato per un verso la torsione moderata ed europeista impressa da Giuseppe Conte al Movimento 5 Stelle, culminata nella decisione di votare a Strasburgo per Ursula von der Leyen a Presidente della Commissione Europea. Per un altro, la decisione del leader leghista Salvini, forte di un 34% raccolto alle elezioni europee del 2019, di tentare di incassare anche a livello nazionale, rompendo l’asse populista, rimettendosi a capo della coalizione di centrodestra e forzando le elezioni. A quel punto, pur di fermare Salvini, ha preso vita l’alleanza a sinistra tra PD e Movimento 5 Stelle ed è nato il governo Conte II. Un’anomalia istituzionale non da poco: lo stesso premier a capo di una maggioranza differente, anzi politicamente opposta alla precedente. Tuttavia, nemmeno questo nuovo assetto è riuscito a sopravvivere fin alla fine della legislatura. Il protagonismo del Presidente del Consiglio, la difficoltà nel portare a compimento le riforme, l’emergenza pandemica hanno condotto le forze centriste – su iniziativa dell’ex segretario del PD Matteo Renzi, uscito nel frattempo dal suo partito – a spegnere l’interruttore del governo Conte II.
Dopo settimane perdute nella vana ricerca di “responsabili”, ossia parlamentari indipendenti disposti a sostenere un Conte-ter, il sistema politico ha scelto di auto-commissariarsi. Il Presidente Mattarella ha incaricato Mario Draghi, appena congedatosi dalla presidenza della BCE, come Presidente del Consiglio. Il parlamento più anti-politico e anti-establishment della storia repubblicana è stato così costretto ad accettare il governo del maggior tecnocrate nazionale ed europeo: il segno ulteriore di una crisi istituzionale senza fine.
Draghi ha svolto una funzione di neutralizzazione e pacificazione del conflitto politico, agendo come una sorta di podestà, aiutato dal mutato contesto europeo in termini di politica sia monetaria sia economica, con la sospensione del Patto di Stabilità e l’approvazione del Next Generation EU. Per quasi un anno, grazie alla propria auctoritas e sfruttando anche le maglie larghe concesse all’esecutivo dall’emergenza pandemica, ha governato indisturbato e con scarsi problemi di convivenza tra le forze politiche. Sgravati dal compito di gestire l’emergenza, i partiti a loro volta avrebbero dovuto approfittarne per rimettersi in sesto e ricostruire un sistema istituzionale minimamente funzionante. In realtà, tutti i movimenti degli ultimi dodici mesi sono andati nella direzione non di rimettere ordine, ma, al contrario, di accrescere l’entropia.
La Lega, per riscattare la propria immagine di partito anti-sistema e in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica, ha deciso di entrare nella maggioranza e al governo. Dopo il processo di “normalizzazione” del Movimento 5 stelle, così, complice la pandemia ha preso avvio anche quello del partito di Salvini. Ma la crescita costante nei sondaggi, a destra, di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, l’unico partito rimasto all’opposizione, ha costretto Salvini a un doppio gioco equivoco: al governo con una maggioranza di unità nazionale, ma a tutte le elezioni con la coalizione di centrodestra. La resistenza elettorale e parlamentare di Forza Italia, attratta dalle spinte centripete e da un rapporto sempre più stretto con Renzi e altre componenti moderate, ha complicato ulteriormente lo schema. Mentre Meloni punta a un sistema elettorale maggioritario e alla ricostruzione della vecchia alleanza di centrodestra, con l’obiettivo di arrivare a elezioni quanto prima, il partito di Berlusconi e la galassia centrista hanno virato verso il proporzionale e cercano a tutti i costi il proseguimento della legislatura. Salvini si è mosso a fatica fra queste due spinte senza riuscire a guidarle né dar segno di avere una propria strategia chiara.
Non meno complessa è l’intelaiatura del polo di sinistra. Il Pd ne resta il perno principale, ma continua a essere diviso tra una componente cattolica (Letta, Franceschini, Gentiloni) e una socialista (Orlando, Provenzano), mentre il Movimento 5 Stelle si divide tra una leadership mai decollata, quella di Giuseppe Conte, e una che per il momento – ma chissà ancora per quanto – preferisce rimanere implicita, quella di Luigi Di Maio. Quest’ultimo è convintamente governista, vicino a Draghi, fautore della stabilità della legislatura e ambiguo sull’alleanza con il Pd. Conte invece Draghi l’ha subìto, è l’artefice dell’asse con i democratici e sa che la sua leadership nel Movimento può essere consolidata soltanto con le elezioni. Sia Di Maio sia Conte faticano a controllare un gruppo parlamentare, quello dei 5 stelle, che resta radicato nell’anti-politica e nel giustizialismo, e ha rifiutato perciò molti dei possibili candidati al Quirinale. C’è poi il partito che ha fondato Matteo Renzi uscendo dal Partito democratico, Italia Viva: quasi inesistente sul piano del consenso, ma fondamentale per il centrosinistra sul piano parlamentare. Nel corso del 2021, in Parlamento, Italia Viva ha votato spesso con Lega e Forza Italia. Renzi vorrebbe che la legislatura arrivasse alla sua fine naturale nel 2023 e che si andasse al voto con un sistema elettorale proporzionale, cosicché nel prossimo Parlamento Italia Viva possa far da ago della bilancia fra i due poli. Da ultimo, sul Parlamento pende una riforma costituzionale originata dall’anti-politica. Dalla prossima legislatura i membri del Parlamento passeranno da 945 a 600, con notevole riduzione di possibilità di essere rieletti per un gran numero di parlamentari.
Queste le condizioni di partenza della corsa alla presidenza della Repubblica. A cui va aggiunto l’attivismo degli ultimi mesi di Mario Draghi, il quale ha chiaramente lasciato intendere di avere come obiettivo l’ascesa al Quirinale, avviando perfino contatti e incontri con i gruppi politici. Ma l’aula di Montecitorio è un girone infernale, una palude insondabile. I parlamentari di basso rango, i peones, di tutti i partiti non vogliono mandare Draghi al Quirinale perché ritengono che sia un’operazione troppo rischiosa, temono che possa mancare un accordo sul nuovo governo e che si apra così una via alle elezioni anticipate. Nelle prime tre votazioni, dove è richiesto un quorum di due terzi per eleggere il Presidente, le difficoltà per l’operazione Draghi iniziano ad essere subito evidenti con l’emersione di decine di voti per Mattarella. Indizi che si rafforzano alla quarta tornata, la prima che non richiede una maggioranza qualificata, quando i partiti sono ancora in stallo sui candidati e i voti per il Presidente uscente crescono esponenzialmente. Il “Parlamento profondo”, quello dei deputati e dei senatori che temono di non essere rieletti e di terminare la legislatura prima del tempo, manifesta segnali chiari: lasciare tutto com’è o, in ogni caso, non mettere a rischio maggioranza e governo.
Alla quinta votazione, dopo aver bruciato una serie di personalità d’area per il fuoco incrociato tra alleati e la tattica ostruzionistica seguita dal Partito democratico, Salvini decide di tentare una mossa improvvida, anche su pressione dell’alleato-concorrente Giorgia Meloni: abbandonare per il momento l’idea di una convergenza della maggioranza che sostiene il governo Draghi per forzare la mano con una personalità proposta dal centrodestra. L’idea è quella di contarsi in aula, dare una prova di unità e portare poi quel pacchetto di voti al tavolo negoziale con gli altri leader del parlamento per eleggere un candidato proposto dal centrodestra. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia puntano sulla Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, un candidato di profilo alto da un punto di vista istituzionale ma debole sul piano politico. Il centrosinistra diserta l’aula e non rilancia altri nomi per la difficoltà di accordarsi tra PD e Movimento 5 Stelle. Il centrodestra nel contarsi mostra le sue fatali divisioni: la Casellati non arriva a 400 voti (il quorum è 505), sicuramente almeno settanta, più probabilmente novanta parlamentari di centrodestra non la votano, e cinquanta di questi scrivono Mattarella sulla scheda. Salvini comprende che la via dell’autonomia non è praticabile e torna al tavolo delle trattative molto indebolito.
A quel punto Conte, che vuole scongiurare in ogni modo l’elezione di Draghi al Quirinale, propone a Salvini e Letta il nome di Elisabetta Belloni, diplomatica e dirigente pubblica di altissimo rango e molto stimata, attuale capo del DIS, l’agenzia di intelligence italiana. Salvini e Conte rivendicano l’accordo, mentre Letta si mostra ottimista ma più tiepido. I partiti minori insorgono: l’elezione di Belloni porterebbe quasi certamente alla fine del governo Draghi e a elezioni anticipate, e rappresenterebbe poi una pericolosa stortura istituzionale proiettare al Quirinale la direttrice in carica dei servizi segreti, priva per giunta di alcuna esperienza politica. I gruppi più piccoli di centro e di sinistra, fra i quali quelli di Renzi e Berlusconi, fanno muro, mentre anche nel Pd crescono le perplessità. I numeri in aula non ci sono. In serata Di Maio assesta il colpo finale alla proposta Belloni, costringendo il collega di partito Conte alla marcia indietro. Si ragiona su altri nomi, ma i veti incrociati sono troppi. Se il centrodestra è in panne, il centrosinistra non è meno dilaniato dalle divisioni.
Nel frattempo, al sesto scrutinio, Mattarella vola oltre le 300 preferenze. Se non si supera lo stallo, si corre il rischio che il parlamento elegga spontaneamente, dal basso, il Presidente uscente, senza che vi sia un accordo pregresso fra i partiti. Sarebbe un ennesimo disastro istituzionale, peggiore persino dei precedenti. Di fronte all’impossibilità di un accordo per l’elezione di Draghi, che presupporrebbe un’intesa già raggiunta sul nuovo governo, e bruciate tutte le altre carte, i partiti non possono che convergere sul bis di Mattarella e andare diritti verso un’altra anomalia istituzionale, trasformando l’eccezionalità della rielezione in una nuova convenzione costituzionale. Tutto rimane com’è, o almeno così sembra in superficie: un trionfo della stabilità che può andare bene ai mercati finanziari e all’Unione Europea.
La realtà, però, è ben più complessa dell’apparenza. Il Presidente della Repubblica è stato costretto ad accettare un secondo mandato, prassi ritenuta eccezionale e non consolidata, che lui stesso non avrebbe voluto, che lo trasforma suo malgrado in una sorta di monarca costituzionale a tempo, e che impone sulla Repubblica una nuova convenzione costituzionale. Le due coalizioni di centrodestra e centrosinistra sono in pezzi. A destra, Forza Italia si muove verso il centro, la Lega ridimensionata resta la destra di governo, mentre Fratelli d’Italia sfrutterà un anno di opposizione per intercettare tutto il voto anti-sistema. L’idea che alle prossime elezioni la coalizione di centro destra possa conseguire una vittoria piena appare sempre più illusoria, ed è al contrario possibile che nel prossimo futuro si determini una frattura tra destra di governo (Forza Italia e Lega, o parte di quest’ultima) e destra indisponibile al compromesso (Fratelli d’Italia).
A sinistra il sodalizio tra PD e Movimento 5 Stelle non decolla, e quanto è avvenuto sulle ipotesi di elezione al Quirinale di Draghi e Belloni ne è la testimonianza. I due partiti restano lontani nella cultura e nel metodo, il Movimento 5 Stelle è scisso tra Di Maio e Conte e nei sondaggi non raccoglie la metà di quanto ha avuto nel 2018. Lo stesso PD dovrà quasi certamente abbandonare l’idea illusoria del “campo largo” e dello schema maggioritario per avviarsi verso una stagione negoziale con altre forze politiche di destra, centro e sinistra. Renzi è oramai proiettato al centro, verso Forza Italia e gli altri centristi, con l’idea di costruire un polo moderato autonomo capace di sfruttare i vantaggi di posizionamento e la frammentazione dei due principali schieramenti. Il sistema corre veloce verso un esito proporzionalistico. È verosimile, infatti, che nei prossimi mesi si torni a discutere di legge elettorale. Il sistema politico avrà probabilmente una torsione centrista: gli italiani potranno dire addio alla possibilità di scegliere nelle urne una maggioranza di governo, possibilità che hanno avuto dal 1994 al 2008 e perfino, seppure in una maniera già molto distorta dalla presenza del Movimento 5 stelle, nel 2013 e 2018, e che non avevano mai avuto prima di allora in tutta la storia dell’Italia unita. Nei prossimi anni i governi si faranno in parlamento con accordi trasversali a trazione centrista che rischiano di avere ben poco a che fare con quel che è stato promesso al Paese in campagna elettorale. Il ruolo del Capo dello Stato, in questo contesto, sarà sempre più determinante.
Nelle prossime settimane, infine, verificheremo quanta forza sia rimasta al governo Draghi. L’immagine del Presidente del Consiglio è stata giocoforza indebolita dalla decisione di avanzare esplicitamente la propria candidatura al Quirinale e dal rifiuto dei partiti di votarlo. E ben probabile che l’ex Presidente della BCE cerchi a questo punto di rimediare al danno rilanciando con forza l’azione riformistica del governo e imponendo la propria leadership ai partiti. Potrebbe parere una buona notizia, quella di un gabinetto Draghi incisivo e determinato, pronto a superare i mille veti incrociati delle forze politiche. Il rischio però (o, per meglio dire, la quasi certezza), è che i partiti, in un anno pre-elettorale, semplicemente non riescano a sopportare la pressione, e che le tensioni, soprattutto dopo l’estate, si facciano insostenibili. Quanto al futuro più distante del Presidente del Consiglio, a oggi è più che mai avvolto nella nebbia. Con questo livello di disgregazione politica e istituzionale e con così tante variabili in gioco, fare previsioni di medio periodo è del tutto impossibile