Dopo il risultato delle elezioni legislative di ieri, la Francia si trova davanti a uno scenario singolare per i suoi standard politico-istituzionali. L’assenza di una maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale e la compresenza di tre blocchi parlamentari renderà necessaria la costruzione di una Grande Coalizione. L’Italia ha una certa esperienza in materia. Per questo in queste ore in Francia vengono rievocati, tra gli altri, i precedenti governi tecnici di Mario Monti e Carlo Azeglio Ciampi. Le Grand Continent ne parla con il professor Sabino Cassese, giudice della Corte costituzionale dal 2005 al 2014 e ministro per la funzione pubblica nel governo Ciampi (governo cosiddetto tecnico, composto da Dc, Psi, Psdi, Pli) dal 1993 al 1994. Giurista dalla penna raffinata (l’ultimo suo libro, per Solferino, è Miseria e nobiltà d’Italia. Dialoghi sullo stato della nazione), Cassese dice al Grand Continent che gli italiani sono abituati ad “andare d’accordo litigando”. Non è così sicuro che i francesi possano fare altrettanto.
Professore, come si costruisce una grande coalizione?
La premessa di una grande coalizione è che, scusi il gioco di parole, alle estreme non ci siano delle estreme troppo estremiste. La differenza chiarissima tra la situazione italiana e la situazione francese — ho appena trascorso dieci giorni a Parigi per ragioni di lavoro — è che le estreme sono molto più lontane fra di loro in Francia di quanto non siano più lontane in Italia. Quindi, la premessa di una grande coalizione è la fuga verso il centro. È la nostra prima caratteristica, come italiani. Le dico le due cose che mi hanno colpito di più nei miei colloqui parigini di questi giorni. La prima è la proposta Mélenchon sulle successioni, con una imposizione fiscale del 100 per cento oltre una certa soglia; significa dire al popolo francese di non costruire dei patrimoni, perché semplicemente gli saranno tolti. Le lascio immaginare come questa proposta venga presa dagli uffici di gestioni patrimoniali delle banche. All’estremo opposto, c’è la proposta di non far accedere ad alcuni settori della funzione pubblica i cittadini francesi che abbiano degli antenati stranieri. Sono due esempi per capire quanto i segnali dell’estremismo delle estreme in Francia siano così più forti delle estreme italiane. La seconda caratteristica italiana è che noi siamo abituati ad andare d’accordo litigando.
Un bell’ossimoro.
Siamo abituati alle coppie litigiose. Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Matteo Salvini vanno d’accordo ma tutti i giorni si punzecchiano. L’arte italiana che noi abbiamo ereditato dalla tradizione del Seicento, dalle scuole gesuitiche, è quella di dire e non dire, di andare d’accordo e di sorridere, ma allo stesso tempo di darsi un calcio negli stinchi; è un’arte sopraffina che senz’altro i francesi non hanno. Sono sempre stati, nella loro tradizione, molto più schietti. Basta leggere i commenti dei francesi alla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688 o i commenti degli inglesi alla Rivoluzione Francese del 1789. Ci rendiamo conto della diversità dei punti di vista. Nel bene e anche nel male l’arte compromissoria è una dote degli italiani. Certo, noi paghiamo un costo per questa arte compromissoria, perché abbiamo sempre dei programmi fatti a metà. Abbiamo sempre qualcosa che comincia con 100 e finisce con 20. Non riusciamo a realizzare niente appieno, mentre i francesi ce la fanno. Gestire un paese d’altronde significa amministrarlo. Se lei gira per Parigi, vede una città amministrata. Se gira per Roma vede una città abbandonata. E questo è anche il risultato della nostra grande capacità compromissoria.
È una capacità che si vede anche nell’esercizio del governo nazionale?
Dal 1946 al 1994 in Italia abbiamo avuto quella che un mio collega americano, T. J. Pempel ai tempi del suo insegnamento alla Cornell University, definiva uncommon democracy, la democrazia fuori dal comune. Abbiamo avuto questa caratteristica: governi che cambiavano ogni anno, ma sempre con un partito al governo, la Democrazia Cristiana. C’era quindi continuità nella discontinuità o discontinuità con una forte continuità. Questo ha costruito una caratteristica chiave della democrazia italiana, che in parte è proseguita anche nel periodo successivo. La democrazia era uncommon, cioè fuori dal comune, perché non c’era alternanza. Cambiavano i comprimari , ma il primario rimaneva sempre lo stesso, la Democrazia Cristiana. Dopo abbiamo avuto un’altra esperienza, molto diversa dalla Francia: i cosiddetti governi tecnici. Io stesso ho fatto parte di un governo tecnico. Ovviamente, un governo tecnico non è un governo tecnico. Se uno va al governo è un politico, punto e basta. I governi tecnici non vanno presi all’ingrosso, ma sono di due-tre tipi, completamente diversi l’uno dall’altro.
Ci può fare qualche esempio?
Prenda il governo tecnico Monti e il governo tecnico Ciampi. Il governo tecnico Monti aveva delle persone non estratte dal corpo politico. Il governo Ciampi, di cui ho fatto parte, era diviso in due. La prima parte era fatta di persone non estratte dal corpo politico: io, Piero Barucci, Luigi Spaventa, Paolo Savona. L’altra parte era composta da Rosetta Russo Jervolino, Nicola Mancino, eccetera; erano personaggi importanti della Dc, erano stati ministri a lungo. Quindi, primo punto: gli stessi governi tecnici non sono in realtà governi tecnici. E poi, secondo punto, ne esistono di composizione e caratura diversa. Il governo Ciampi con sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Maccanico è una cosa diversa dal governo Draghi con sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli. Lei sa che cosa è stato Maccanico e qual è il curriculum di Garofoli. Maccanico oltre a essere stato un bravissimo tecnico — aveva fatto esperienza ovunque dentro lo Stato italiano — dominava la politica, l’amministrazione, la giustizia, lo stato italiano e aveva consuetudine con tutti. Garofoli è stato un consigliere di Stato, aveva fatto il capo di gabinetto al Tesoro. Prenda i diari di Maccanico e capirà subito. Andava a cena con De Mita, con Spadolini, parlava con il presidente della Cassazione, parlava con i giudici della Corte costituzionale. È tutta un’altra cosa. L’impolitico, per adoperare un’espressione del giovane Thomas Mann, può essere accompagnato da un abilissimo politico oppure no.
Ma la Francia le sembra compatibile con le nostre formule politiche?
La nostra è una politica improntata soprattutto alla gestione del quotidiano, nella quale quella che il Bagehot definiva la parte theatrical prevale sulla parte efficient. Una politica in cui si inneggia alla Costituzione dimenticandosi di attuarne gli articoli. In una situazione del genere aggregarsi e disgregarsi è molto più facile. Per un cattolico fervente e un musulmano ortodosso aggregarsi è più difficile; già è più semplice fra un cattolico non praticante e un musulmano elastico. È come il mercurio, nel quale le parti di scindono e si riuniscono. In Italia, pur con tutti i problemi che abbiamo, esiste una capacità di aggiustamento e di dialogo che in Francia non c’è. In Francia, un avo di Tocqueville, Malesherbes, avvocato di Luigi XVI nel processo davanti alla Convenzione del 1792, non fu soltanto ghigliottinato; prima di ghigliottinarlo gli fecero vedere la famiglia mentre veniva ghigliottinata.