Un filo rosso che si espande
Quando il momento è critico, conviene darsi il tempo di riflettere. Il successo del Rassemblement National alle elezioni parlamentari europee e al primo turno delle elezioni legislative francesi di quest’anno ha fatto suonare a molti il campanello d’allarme. L’intero establishment francese ha reagito con manovre più o meno azzardate — a partire dallo scioglimento delle camere — e alleanze elettorali che sembravano impensabili anche solo qualche settimana fa.
Una maggioranza parlamentare di estrema destra in uno dei paesi cardine dell’Unione Europea sarebbe certamente un punto di svolta nella storia del continente. Ma c’è anche qualcosa di superficiale, e perfino velleitario, nell’idea condivisa che si tratti di un’ «emergenza democratica», come ha suggerito il Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron.
Un’emergenza è, come dice la parola stessa, qualcosa che «emerge» all’improvviso. Eppure, non c’era niente di inaspettato nell’avanzata elettorale del Rassemblement National. È un fenomeno che dura da decenni, e in quanto tale può e deve essere situato in un contesto più ampio.
In tutto l’occidente, i primi due decenni del XXI secolo sono stati caratterizzati da un susseguirsi montante di manifestazioni di rabbia collettiva nei confronti delle istituzioni politiche: dal movimento «No Global» dell’inizio degli anni 2000 alle più recenti proteste contro il sostegno internazionale all’operazione del governo israeliano a Gaza, passando per l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, la vittoria del «No» nel referendum sulla proposta di trattato costituzionale europeo e i roghi nelle banlieues francesi della primavera 2005, il «Vaffanculo-Day» di Beppe Grillo, il movimento spagnolo degli Indignados, Occupy Wall Street e l’«Oxi» greco alle politiche di austerità richieste dai creditori internazionali del paese dopo la crisi finanziaria del 2008-2011, il voto per Brexit, l’elezione di Donald Trump, #MeToo, #BlackLivesMatter, i discorsi di Greta Thunberg, il movimento dei Gilets Jaunes, quello dei «No Vaxx», e l’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021.
Ciascuno di questi eventi scaturisce da una storia particolare e vanta una propria specificità. Ma c’è anche un filo rosso che li attraversa, un umore di fondo che ha infuso tutti gli eventi più salienti degli ultimi vent’anni: la rabbia nei confronti delle istituzioni politiche. Come in Francia si parla dei «Trente Glorieuses» per descrivere il periodo di crescita economica compreso tra il 1945 e il 1975, e nel mondo anglosassone si parla della «fine della storia» per descrivere l’ottimismo trionfalistico del periodo immediatamente successivo alla fine della guerra fredda, si potrebbe quindi descrivere il primo ventennio del XXI secolo come un «ventennio di rabbia».
Ritorno al classici
Perché così tanto astio nei confronti dell’ordine costituito? Se è vero che la rabbia è l’elemento distintivo del nostro Zeitgeist, un ritorno al modo in cui quest’emozione è stata storicamente concepita e analizzata può contribuire a far luce sulla nostra congiuntura attuale.
La prima cosa da notare è che la rabbia non gode di buona fama nella storia del pensiero occidentale. Già in tarda antichità, nel suo trattato De Ira, Seneca la descriveva come una «brevis insania», cioè una follia di breve durata. Questa critica faceva parte di una più ampia condanna di tutte le emozioni, comune alla filosofia stoica e alla tradizione razionalista successiva.
Ma anche il cristianesimo ha storicamente concepito l’ira come uno dei «vizi capitali», incoraggiando invece alla misericordia, secondo il precetto di «porgere l’altra guancia». Poi, nella cultura terapeutica contemporanea, la capacità di reprimere la rabbia è diventata uno dei pilastri della salute mentale — al punto che nei paesi anglosassoni esistono corsi specifici di anger management, a volte prescritti dalle autorità cliniche o giudiziarie come misure di buona condotta personale e/o professionale.
L’eco di questa patologizzazione della rabbia è percepibile nella maggior parte dei giudizi sulle sue manifestazioni collettive nel corso degli ultimi vent’anni, spesso descritte come espressioni di un’emotività irrazionale o dell’ignoranza delle masse. Ma è troppo facile condannare ciò che non si capisce, o si teme. E l’irrazionale non può per definizione essere capito. Conviene quindi partire da una concezione meno altezzosa — e moralizzante — della rabbia per capire lo spirito del nostro tempo.
Nell’antichità classica la rabbia non era concepita come qualcosa di patologico ma come un sentimento naturale, quindi sano, per certi versi perfino nobile. Come indica già la prima parola dell’Iliade (e quindi della letteratura occidentale) menin, cioè «l’ira funesta» di Achille, è il sentimento principale che anima le azioni dell’eroe. Aristotele arriverà perfino a dire che l’incapacità a provare rabbia è una delle caratteristiche distintive dello schiavo. Il cittadino di una società democratica deve sapersi arrabbiare, di fronte all’ingiustizia, per difendere i propri diritti.
Ma perché si arrabbia l’Achille omerico? Qui possiamo trovare un primo indizio che illumina la contemporaneità. Quando Agamennone gli sottrae la schiava Briseide, che Achille si era conquistato in battaglia, quest’ultimo non è reso più povero. Il re degli Achei gli dice che può avere «qualsiasi altra schiava» in cambio. Ma Achille si sente offeso perché dice di essere stato trattato «come uno straniero qualunque». C’è dunque una mancanza di riconoscimento che tocca l’orgoglio, cioè in ultima analisi lo status sociale, alla radice della rabbia dell’eroe.
Lo stesso sentimento di base si può riscontrare negli slogan dei principali fenomeni di protesta e movimenti politici degli ultimi vent’anni. Si pensi ad esempio all’ «Uno Vale Uno» del Movimento 5 Stelle, il «Make America Great Again» di Donald Trump e il «Les Français D’Abord» del Rassemblement National, ma anche al concetto di stesso di «Black Live Matter» e di «Me Too». Nessuno di questi slogan punta a rivendicazioni di tipo economico. Viene invece tirata in causa la sfera del riconoscimento sociale, cioè in ultima analisi della «dignità» o del «valore» attribuito a un individuo o a un gruppo.
Partendo dall’archetipo classico della rabbia si può quindi arrivare all’ipotesi che non sia tanto la deprivazione materiale, né tantomeno l’irrazionalità delle masse, a spiegare l’animosità dilagante nei confronti delle istituzioni e dell’establishment politico, quanto un senso diffuso di mancanza di riconoscimento del proprio status sociale.
Ampi strati della popolazione — tra cui spiccano in particolare gli abitanti delle zone rurali o periurbane e i famigerati ‘maschi bianchi’ rimessi in causa dal politically correct, ma anche i membri delle minoranze etniche, le donne e i giovani — si sentono ignorati, offesi e quindi in ultima analisi invisibili. Per questo si arrabbiano, reclamando soprattutto attenzione, prima ancora che benefici materiali o diritti sociali.
La rivolta delgi «sfigati»
La sociologia elettorale degli ultimi vent’anni ha da tempo messo in luce questo fenomeno. Già nei mesi successivi alla vittoria del «No» nel referendum sulla proposta di trattato costituzionale europeo (solo il primo di una lunga serie di «No» nei confronti di tutto l’establishment politico) è stata coniata la categoria dei «losers of globalization» per identificare coloro che si sentivano — ed evidentemente si sentono ancora — esclusi e marginalizzati dal sistema di valori dominante nel mondo globalizzato.
A dire il vero, anche qui, l’accento era inizialmente posto sulla dimensione economica. Secondo il politologo che ha coniato l’espressione, Hanspeter Kriesi, i «losers of globalization» sarebbero coloro che non beneficiano materialmente dell’aumento dei flussi e di commercio internazionale nel mondo globalizzato. Ma il concetto di loser, in inglese, ha un significato più ampio, che punta anche alla dimensione simbolica del riconoscimento sociale.
Nel gergo giovanile il loser è colui che non viene riconosciuto come cool, cioè come degno di rispetto da parte degli altri. Per questo la sua traduzione più adeguata in italiano è «sfigato». Mentre il «figo» è colui che gli altri ambiscono ad essere, lo «sfigato» è colui che viene trattato con disprezzo, e perciò si sente umiliato.
Si può quindi concepire la rabbia odierna come una sorta di «rivolta degli sfigati»? È quello che suggeriva il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel suo provocatorio saggio del 2006 intitolato Ira e Tempo, in cui la figura cosmico-storica del loser è elevata a chiave interpretativa di tutta la contemporaneità.
Mentre, secondo la filosofia della storia hegeliana (e poi anche quella marxista), la figura chiave dell’antichità era quella dello «schiavo», definita dalla privazione di diritti giuridici, e quella della modernità il «proletario», definito dalla privazione economica, per Sloterdijk, i soggetti principali della rabbia contemporanea godono sia di diritti giuridici universali che di un grado di benessere materiale relativo. Soffrono invece per una presunta offesa al loro status sociale. Si sentono cioè degli «sfigati» e per questo si arrabbiano.
È importante tuttavia sottolineare che questo non vuole essere un modo di minimizzare il problema, né tantomeno di sottovalutare l’importanza della dimensione giuridica o di quella economica. Va invece interpretato come un tentativo di sciogliere un paradosso.
Dopo tutto, c’era anche qualcosa di vero nella narrazione autocompiaciuta della «fine della storia» come affermazione su scala planetaria del modello di società basato sul binomio capitalismo-democrazia. Gli individui odierni godono non di diritti giuridici e livelli di benessere materiale senza precedenti. Lo dimostrano i recenti tassi di crescita, ma anche i gradi di libertà e di consumo delle società contemporanee. Ma allora perché così tanta rabbia nei confronti del mondo globalizzato?
La tesi qui sostenuta è che non si possono capire i principali eventi e movimenti politici degli ultimi vent’anni senza prendere in considerazione la dimensione simbolica del riconoscimento sociale, cioè del modo in cui ambiti della popolazione si sono sentiti percepiti e umiliati dallo stesso ordine globale che hanno sempre più rimesso in causa.
Oltre il populismo e la tecnocrazia
Capire un problema non significa risolverlo. Ne è tuttavia una condizione necessaria in quanto permette di mettere a fuoco alcuni dei limiti delle principali strategie politiche adottate nel corso degli ultimi vent’anni per lenire la rabbia diffusa nei confronti dell’ordine costituito.
Il populismo e la tecnocrazia sono state le due formule politiche dominanti dei primi due decenni del XXI secolo. Invece che lenire la rabbia diffusa, esse hanno però contribuito a esacerbarla ulteriormente, per motivi diversi ma entrambe significativi.
Il populismo identifica correttamente la radice del problema, in quanto cerca di dar voce a un senso diffuso di esclusione, o almeno di marginalizzazione, dall’esercizio del potere politico. Tuttavia, la soluzione che propone si rivela controproducente perché consiste in una semplificazione dei princìpi e delle procedure della democrazia costituzionale che finisce per concentrare ancora più potere nelle mani della leadership, riducendo di fatto la «base» a un ruolo passivo di approvazione plebiscitaria del suo operato.
L’esperienza del Movimento 5 Stelle in Italia è illuminante da questo punto di vista. Lo slogan delle origini — «Uno Vale Uno» — coglieva in pieno un desiderio diffuso di riconoscimento, cioè di dignità e quindi in fondo di partecipazione all’esercizio del potere politico. Tuttavia, gli strumenti che sono stati messi in atto per dar seguito a quella promessa — dall’illusione della ‘democrazia diretta’ alla concentrazione di fatto di pieni poteri nella figura di un leader carismatico (prima Grillo e poi Conte) — hanno alla fine contribuito a farlo diventare un oggetto della stessa rabbia di cui si era inizialmente nutrito, come dimostra la disfatta del movimento a queste ultime elezioni europee.
Fallito questo esperimento di populismo «di sinistra» (o per lo meno, nelle intenzioni, democratico) il risentimento popolare si sta ora canalizzando, sia in Italia che anche in Francia, verso una forma di populismo identitario e nazionalista. Quest’ultimo offre una risposta ancora più facile al desiderio diffuso di riconoscimento, cioè di affermazione del proprio status.
Più ancora del mito della «democrazia diretta», tuttavia, il nazionalismo identitario soffre di una contraddizione interna, in quanto include alcuni solo al prezzo di escluderne altri. Invece che al consolidamento del «popolo» tende quindi alla polarizzazione della società in due gruppi avversi che si misconoscono e quindi odiano reciprocamente, aumentando sempre più i livelli di rabbia sociale. Non è forse questo il lascito principale della prima presidenza Trump, dall’altro lato dell’oceano?
La tecnocrazia, viceversa, pretende di praticare il «buon governo», ma prescinde completamente dalla dimensione della partecipazione collettiva. In questo senso, propone apertamente ciò che il populismo dice di combattere ma nei fatti riproduce: la riduzione del popolo al ruolo di ricezione passiva dell’operato di governo. Nella misura in cui la rabbia del nostro tempo deriva da un senso diffuso di esclusione o marginalizzazione dall’esercizio del potere politico, ciò non può che contribuire ad esacerbarla ulteriormente, indipendentemente dalla qualità delle decisioni così prese.
Ancora una volta, l’esperienza italiana può essere d’esempio a quella francese. Nel «Bel Paese» si sono susseguiti ben due «governi tecnici» nel corso degli ultimi vent’anni: quello presieduto da Mario Monti dal 2011 al 2013 e quello presieduto da Mario Draghi tra il 2021 e il 2022. Entrambe si sono applicati con solerzia a fare le riforme da tempo indicate come «necessarie» dagli esperti, conseguendo anche risultati abbastanza dignitosi: i conti pubblici sono stati migliorati, l’economia è tornata a crescere e anche i tassi di povertà e disoccupazione sono diminuiti. Eppure, alle prime scadenze elettorali, sia Monti che Draghi sono stati sonoramente bocciati dagli elettori, manifestando un malcontento diffuso nei confronti delle formule di governo tecnocratiche.
Ora, la maggior parte dei partiti politici francesi al di fuori Rassemblement National si sta adoperando per proporre qualcosa di simile sotto forma di un cosiddetto «fronte repubblicano». Date le enormi differenze politiche che sussistono tra i molteplici partecipanti a questa alleanza elettorale — dall’estrema sinistra di Jean Luc Mélénchon ai liberali di Macron fino alla parte più moderata del partito gollista — anche se l’operazione dovesse riuscire a sottrarre la maggioranza assoluta al Rassemblement National al secondo turno delle elezioni legislative, l’unica formula di governo successivo possibile (peraltro già in parte auspicata dal Presidente della Repubblica) sarebbe quella di un governo tecnico, guidato da «esperti» al di sopra delle parti. Ma che speranza di successo ci sono per una tale prospettiva?
Tenere fuori dal potere un partito politico che continua a crescere da più di vent’anni attraverso l’ingegneria elettorale, senza affrontare le ragioni di fondo del suo successo, è come mettere un tappo o una pentola che bolle. La pressione rischia di continuare ad aumentare e alla fine potrebbe anche esplodere in modo ancora più dirompente, ad esempio alle elezioni Presidenziali del 2027. Della rabbia si dice infatti che «monta» quando è repressa.
Non sembra quindi probabile che usciremo dal vortice di rabbia in cui siamo caduti finché rimarremo sedotti dalle false promesse del populismo, da un lato, e della tecnocrazia, dall’altro. Per uscire da questa duplice trappola servirebbe un nuovo progetto politico capace di canalizzare la rabbia diffusa in una direzione al tempo stesso più propositiva e inclusiva. Purtroppo, nulla di simile sembra essere all’orizzonte.
I vent’anni di rabbia che abbiamo appena vissuto potrebbero quindi facilmente diventare venticinque anche trenta, prima che l’inesauribile imprevedibilità della storia ci offra ancora qualche sorpresa.