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Questa intervista è anche disponibile in inglese sul sito del Groupe d’études géopolitiques.
Il 2020 sta volgendo al termine. Tra la gestione immediata delle emergenze e la visione a lungo termine, qual è oggi la rotta da seguire?
L’avete detto voi stessi: il 2020 è stato costellato di crisi. Quella, chiaramente, dell’epidemia di Covid-19 e quella del terrorismo, che negli ultimi mesi è tornato a colpire con grande forza in Europa, ma anche in Africa. Penso in particolare a quel terrorismo definito islamista, ma che in realtà è perpetrato in nome di un’ideologia che distorce una religione.
Queste crisi si aggiungono a tutte le sfide che stavamo già affrontando e che erano, direi, strutturali: il cambiamento climatico, la biodiversità, la lotta contro le disuguaglianze – e quindi l’insostenibilità delle disuguaglianze tra le nostre società e all’interno delle nostre società – e la grande trasformazione digitale. Ci troviamo in un momento della storia dell’umanità in cui, a ben vedere, raramente abbiamo avuto un numero così grande di crisi a breve termine, come l’epidemia e il terrorismo, e di transizioni profonde e strutturali che stanno cambiando la vita internazionale e che hanno persino un impatto antropologico: penso al cambiamento climatico, così come alla transizione tecnologica che sta trasformando il nostro immaginario – l’abbiamo visto di recente – e che scardina completamente il rapporto tra l’interno, l’esterno e le nostre rappresentazioni del mondo.
Di fronte a ciò, e avete ragione a parlare di rotta, sono profondamente convinto che ci sia un filo conduttore: dobbiamo reinventare le forme della cooperazione internazionale. Una delle caratteristiche di tutte queste crisi è che l’umanità le vive in maniera differente a seconda di dove si trova, ma tutti ci troviamo ad affrontare queste grandi transizioni e queste singole crisi tutte allo stesso momento. Per risolverle nel miglior modo possibile, dobbiamo collaborare. Non riusciremo a sconfiggere l’epidemia e questo virus se non collaboriamo. Anche se qualcuno dovesse scoprire un vaccino, se non è diffuso in tutto il mondo vuol dire che il virus tornerà in certe zone. Anche il terrorismo è un fenomeno che colpisce tutti: non dobbiamo dimenticare che oltre l’80% delle vittime del terrorismo islamista proviene dal mondo musulmano, come si è visto anche in Mozambico nei giorni scorsi. Abbiamo un destino comune di fronte a tutte queste crisi. E per me, la rotta principale nella vita internazionale è cercare le modalità di una cooperazione utile: quello che abbiamo fatto sul virus con il meccanismo dell’Act-A, quello che abbiamo cercato di fare sul terrorismo costruendo nuove coalizioni e quello che abbiamo fatto costantemente sui grandi progetti che ho appena citato.
Oltre a ciò, in questo momento ritengo che un’ulteriore rotta da seguire sia anche l’importanza – e l’uno per me è complementare all’altro – di rafforzare e strutturare un’Europa politica. Perché? Perché se vogliamo che si crei una forma di collaborazione, abbiamo bisogno di poli equilibrati che possano strutturarla intorno ad un nuovo multilateralismo, cioè ad un dialogo tra le varie potenze per decidere insieme. Ciò presuppone che si prenda atto del fatto che gli ambiti della cooperazione multilaterale oggi sono diventati fragili, perché sono bloccati: non posso far altro che constatare che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oggi, non produce più soluzioni utili; siamo tutti corresponsabili quando alcuni diventano ostaggio delle crisi del multilateralismo, come l’OMS.
Dobbiamo riuscire a reinventare forme utili di cooperazione, coalizioni di progetti e di attori, e riuscire a modernizzare le strutture e a riequilibrare questi rapporti. Per farlo, dobbiamo anche ripensare i termini del rapporto: per me, il secondo elemento della rotta da seguire è un’Europa forte e politica. Perché? Perché credo che l’Europa non dissolva la voce della Francia: la Francia ha la sua concezione, la sua storia, la sua visione degli affari internazionali, ma la sua azione risulta molto più utile e forte se portata avanti attraverso l’Europa. Penso addirittura che questo sia l’unico modo per imporre i nostri valori, la nostra voce comune, per evitare il duopolio sino-americano, la dislocazione e il ritorno di potenze regionali ostili. È quanto siamo riusciti a fare per preservare l’accordo di Parigi sul clima: è stata proprio l’Europa a dettare l’agenda dopo la decisione del presidente Trump, e poi a riuscire a tenere la Cina al tavolo dei negoziati. Ed è quanto abbiamo fatto per la lotta al terrorismo, in linea con l’appello di Christchurch – collaborando con i neozelandesi, ma un anno e mezzo fa abbiamo lanciato proprio qui una vera e propria azione europea.
Credo quindi che, in questo momento, non dobbiamo assolutamente perdere lo spirito europeo e l’autonomia strategica, la forza che l’Europa può avere per proprio conto. Se cerco di guardare oltre il breve termine, direi quindi che dobbiamo avere due assi forti: ritrovare le modalità per una cooperazione internazionale utile che eviti la guerra, ma che consenta di rispondere alle sfide contemporanee; costruire un’Europa molto più forte, che possa far valere la sua voce, la sua forza, mantenendo i suoi principi, in uno scenario così rifondato.
Lei parla di rotta, proiettandosi verso il futuro, ma si può capire questo momento di transizione anche guardando indietro, verso il passato, per chiedersi che epoca si conclude nel 2020. È un’epoca iniziata nel 1989, nel 1945?
È molto difficile da dire, perché non si sa se siamo in un momento in cui è possibile concettualizzare adeguatamente questo periodo. Non so se è ancora abbastanza buio perché la nottola di Minerva possa guardare dietro di sé a quello che si sta spegnendo per poterlo capire… Ma credo che i due elementi di cesura che avete evocato lo siano, e il 1968 ne è probabilmente un altro.
Vediamo che siamo di fronte ad una crisi del quadro multilaterale del 1945: una crisi della sua efficacia, ma, più grave a mio avviso, una crisi dell’universalità dei valori portati avanti dalle sue strutture. Questo è per me – ne abbiamo parlato poco fa, durante la conferenza del Forum di Parigi sulla Pace – uno degli aspetti più gravi di quello che abbiamo vissuto negli ultimi tempi. Elementi come la dignità della persona umana, che erano intangibili e a cui aderivano fondamentalmente tutti i popoli delle Nazioni Unite, tutti i Paesi rappresentati, vengono ora messi in discussione, relativizzati. Il relativismo contemporaneo che sta emergendo segna davvero una frattura e fa il gioco di potenze che non sono a proprio agio nell’ambito dei diritti umani delle Nazioni Unite. Su questo tema è evidente il gioco portato avanti dalla Cina e dalla Russia, che promuovono un relativismo dei valori e dei principi, e un gioco che cerca di ri-culturizzare, di rimettere questi valori in un dialogo di civiltà, o in un conflitto di civiltà, per esempio contrapponendoli alla dimensione religiosa. Sono tutti strumenti che frammentano l’universalità dei valori. È molto grave se accettiamo di mettere in discussione questi valori, che sono quelli dei diritti umani e civili, e quindi di un universalismo basato sulla dignità della persona umana e dell’individuo libero e ragionevole. Perché la scala dei valori non è più la stessa, perché la nostra globalizzazione è stata costruita su questo elemento: non c’è niente di più importante della vita umana. Qui, dunque, vedo una prima frattura. È molto recente; sta prendendo piede; è il frutto di scelte ideologiche portate avanti con convinzione da potenze che in esse vedono il mezzo per elevarsi, e di una forma di stanchezza, di collasso. Ci si abitua e si pensa che quello che è diventato un insieme di parole che si ripetono in continuazione non è più a rischio. Questa è la prima frattura, ed è molto preoccupante.
C’è poi una seconda frattura nel nostro concerto delle nazioni, che è, credo, la crisi delle società occidentali dopo il 1968 e il 1989. Siamo testimoni di un neoconservatorismo crescente, in tutta Europa peraltro, che è una rimessa in discussione delle idee del 1968 – sono i neoconservatori stessi a prenderlo come riferimento – cioè dello stato di maturità raggiunto dalla nostra democrazia – il riconoscimento delle minoranze, il movimento di liberazione dei popoli e delle società – e c’è il ritorno del potere della maggioranza e, in un certo senso, di una forma di verità dei popoli. Sta riemergendo nelle nostre società, ovunque. È una vera e propria frattura che non dobbiamo trascurare, perché è uno strumento di riframmentazione.
E credo che siamo a un punto di rottura anche rispetto al post-1989. Le generazioni nate dopo il 1989 non hanno vissuto l’ultima grande lotta che ha strutturato la vita intellettuale occidentale e le nostre relazioni: l’anti-totalitarismo. Queste si sono strutturate per molti, così come il loro accesso alla vita accademica e politica, sulla finzione che era la “fine della storia” e sul sottinteso che era l’estensione permanente delle democrazie, delle libertà individuali, ecc. Ci rendiamo conto che non è più così. Riemergono potenze regionali autoritarie, riemergono teocrazie. L’inganno della storia, inoltre, è arrivato senza dubbio al momento delle primavere arabe, in cui ciò che secondo questo stesso approccio viene visto come elemento di liberazione è risultato in realtà un indicatore del ritorno dello spirito di certi popoli e della religione all’interno della politica. Vi è infatti una straordinaria accelerazione del ritorno delle questioni religiose sulla scena politica in molti di questi Paesi.
Tutti questi elementi producono fratture molto profonde nella nostra vita, nella vita delle nostre società e nello spirito che è emerso in queste date di riferimento. Ed è per questo che voglio lanciare quello che potremmo chiamare il “Consenso di Parigi“, che però sarà il consenso di tutti, che abbiamo lanciato oggi, che consiste nel superare questi momenti storici importanti che hanno strutturato la realtà politica e intellettuale degli ultimi decenni per mettere in discussione l’elemento di concretizzazione del cosiddetto Washington Consensus, e quindi il fatto che anche le nostre società sono state costruite sul paradigma delle economie aperte, di un’economia sociale di mercato, come si diceva nell’Europa del dopoguerra, che però è diventata sempre meno sociale e sempre più aperta e che dopo questo Consenso, è entrata in un dogma in cui le verità erano: diminuzione del ruolo dello Stato, privatizzazioni, riforme strutturali, apertura delle economie attraverso il commercio, finanziarizzazione delle nostre economie, il tutto all’interno di una logica piuttosto monolitica basata sulla creazione di profitti. Quell’epoca ha avuto i suoi risultati, sarebbe troppo facile giudicarla con gli occhi di oggi. Ha consentito a centinaia di milioni di abitanti del mondo di uscire della povertà con la base della teoria dei vantaggi comparati, e molti Paesi poveri ne hanno beneficiato. Ma oggi la vediamo in modo diverso, e questo costituisce una profonda frattura rispetto alle precedenti transizioni che evocavo.
Innanzitutto, non consente di pensare e di interiorizzare i grandi cambiamenti del mondo, in particolare il cambiamento climatico, che rimane un’esternalità nel Washington Consensus. Stiamo però raggiungendo un punto in cui l’urgenza è tale per cui è impossibile chiedere ai governi di gestire una delle questioni prioritarie del momento, la questione probabilmente prioritaria per la prossima generazione, semplicemente come un’esternalità del mercato. È quello che stiamo cercando di fare dall’accordo di Parigi, ad esempio con il prezzo del carbonio, che non è comprensibile nel contesto del Washington Consensus, perché presuppone che si integri qualcosa di diverso dal profitto.
Poi ci sono le disuguaglianze. Il funzionamento dell’economia di mercato finanziarizzata contemporanea ha permesso l’innovazione e una via d’uscita dalla povertà in alcuni paesi, ma ha aumentato le disuguaglianze nei nostri paesi. Perché ha delocalizzato in modo massiccio, perché ha ridotto ad un senso di inutilità una parte della nostra popolazione, con profondi drammi economici, sociali ma anche psicologici: le nostre classi medie in particolare, e una parte delle nostre classi popolari, sono state la variabile di aggiustamento della globalizzazione; e questo è insostenibile. È insostenibile, e l’abbiamo indubbiamente sottovalutato. Le nostre democrazie vivono su una specie di superficie di sostentamento, dove abbiamo bisogno al contempo del principio politico della democrazia con le sue alternanze, delle libertà individuali, dell’economia sociale di mercato e del progresso per le classi medie. Questi elementi erano la base sociologica dei nostri regimi: è così sin dal XVIII secolo. Dal momento in cui la classe media non ha più possibilità di progresso e vive anno dopo anno il declino, sorgono dubbi sulla democrazia. Questo è esattamente quello che vediamo ovunque, dagli Stati Uniti di Donald Trump alla Brexit, passando per i segnali di avvertimento che captiamo nel nostro paese e in molti altri paesi europei, sono quei dubbi che emergono, per cui si comincia a dire: “Dal momento che non ho più alcun progresso, per tornare a progredire, beh, devo ridurre la democrazia e accettare una qualche forma di autorità oppure devo accettare un qualche grado di chiusura delle frontiere, perché il mondo non funziona più in questo modo”.
È per questo motivo che sono convinto che ci troviamo ad un punto di rottura, un punto di rottura molto profondo, al di là di questi incontri politici, che è soprattutto un punto di rottura del capitalismo contemporaneo. Perché è un capitalismo che si è finanziarizzato, che si è eccessivamente concentrato e che non ci consente più di gestire le disuguaglianze nelle nostre società e a livello internazionale. A ciò, possiamo rispondere solo ricostruendolo. Innanzitutto, non si può rispondere in un solo paese, la mia politica non va affatto in questa direzione, e me ne assumo pienamente le responsabilità. Se il socialismo non ha funzionato in un solo paese, è anche vero che la lotta contro questo tipo di capitalismo è inefficace in un solo paese. Non vi si risponde attraverso la tassazione, vi si risponde costruendo in modo diverso i percorsi di vita: attraverso l’istruzione e la salute quando si agisce a livello nazionale, ma poi attraverso un diverso funzionamento dei movimenti finanziari ed economici, cioè integrando nel cuore della matrice l’obiettivo del clima, l’obiettivo dell’inclusione e degli elementi di stabilità del sistema. Io la vedo così.
Siamo in un momento di frattura politica rispetto a molte cose che erano state realizzate in momenti chiave della storia. Allo stesso tempo, siamo in un momento di frattura del sistema capitalistico, che deve pensare allo stesso tempo alle disuguaglianze e al cambiamento climatico. A questo si aggiunge un fatto nuovo, ma che si sta strutturando in modo perverso: i social network e Internet. Questa formidabile creazione, nata inizialmente per scambiare conoscenze e farle circolare all’interno di una comunità accademica, è diventata uno straordinario strumento di diffusione dell’informazione, è diventata anche due cose pericolose: uno strumento di viralizzazione delle emozioni, qualunque esse siano – che fa sì che ognuno si veda nel mondo e nell’emozione dell’altro senza contestualizzazione, nel bene e nel male – e un elemento di de-gerarchizzazione di ogni discorso – e quindi di contestazione di qualsiasi forma di autorità, in senso generico, che permette di strutturare la vita in una democrazia e in una società, sia essa politica, accademica o scientifica – per il semplice fatto che su internet qualcuno ha affermato qualcosa, e ha lo stesso valore ovunque lo si dica. Non abbiamo ancora capito a sufficienza questa realtà. Non abbiamo organizzato un ordine pubblico per regolare questo spazio. Questo spazio virtuale oggi sovradetermina le nostre scelte, e allo stesso tempo trasforma la nostra vita politica. E così, antropologicamente, sconvolge le democrazie e le nostre vite.
L’ultimo punto di svolta è il cambiamento demografico, che spesso tendiamo a dimenticare. Ciò che caratterizza questa fase storica sono i grandi cambiamenti climatici, tecnologici, politici, economici e finanziari, ma c’è anche la questione demografica. Abbiamo una popolazione che continua a crescere ad una velocità folle. Per quanto io non le sostenga, assisteremo al riemergere di teorie malthusiane, perché non possiamo stare in un mondo che deve pensare alla scarsità delle risorse e alla finitezza della specie umana, e che allo stesso tempo ritiene che la sua demografia sia un elemento esogeno. Oggi siamo ad un punto in cui la popolazione mondiale aumenta di 400-500 milioni di persone l’anno ogni cinque anni. E soprattutto, questo aumento avviene con squilibri molto profondi: se ci riferiamo all’area euro-africana, nello stesso periodo, per un paese europeo che scompare demograficamente ne compare uno africano. Stiamo assistendo ad una sorta di accelerazione nella torsione della storia. Abbiamo un’Europa la cui demografia diminuisce in modo preoccupante – anche se meno in Francia che altrove – abbiamo paesi europei dove avvengono movimenti di popolazione molto preoccupanti, per esempio nell’Europa dell’Est. E la demografia dell’Africa cresce in maniera significativa. Tutto questo induce anche un ripensamento del mondo, delle capacità economiche, dei destini, e ovviamente sconvolge anche le relazioni transnazionali.
Non credo ci sia mai stato un periodo della nostra storia che abbia concentrato così tanti elementi di frattura.
Con quali strumenti si costruisce un nuovo multilateralismo che prenda atto di questi sconvolgimenti?
Prima di tutto, c’è un lavoro di idee da condurre, dobbiamo pensarlo, dargli un nome. Oggi le ideologie divergono. Tre anni fa, quando parlavo di sovranità europea o di autonomia strategica, sono stato preso per un pazzo, e queste idee erano ritenute capricci francesi. Siamo riusciti a far muovere le cose. In Europa queste idee si sono imposte. L’Europa della difesa, che credevamo impensabile, l’abbiamo realizzata. Avanziamo nel campo dell’autonomia tecnologica e strategica, mentre tutti erano rimasti sorpresi quando ho iniziato a parlare di sovranità sul 5G. Quindi, prima di tutto, c’è un lavoro ideologico da fare, ed è urgente. Si tratta di pensare in termini di sovranità europea e di autonomia strategica, in modo da poter contare da soli e non diventare il vassallo di questa o quella potenza senza avere più voce in capitolo.
Dobbiamo poi prendere atto di queste tensioni, pensarci insieme e costruire un’azione che possa essere per noi utile. L’Europa soffre di un’enorme incapacità nel pensare le questioni che contano. In termini geostrategici, ci eravamo dimenticati di pensare, perché pensavamo le nostre relazioni geopolitiche attraverso la NATO, diciamolo chiaramente – la Francia storicamente meno di altri, ma questo Super-Io è ancora presente, a volte mi batto contro di esso. Quindi l’ideologia che si può stabilire in Europa, cioè una lettura comune del mondo e delle nostre intenzioni, è un primo punto essenziale. Quello che abbiamo lanciato con il Forum per la Pace, il Consenso di Parigi e la nostra azione per la politica francese ed europea, tutto questo è essenziale.
Poi, a brevissimo termine, la risposta passa tramite le coalizioni di attori. Fin dal primo giorno ho applicato una sorta di pragmatismo, dove facciamo con quello che abbiamo, e dove dimostriamo con l’esempio che le cose avanzano. Quando gli Stati Uniti d’America hanno deciso di ritirarsi dall’Accordo sul clima di Parigi, due ore dopo tenevo la conferenza Make our planet great again con una strizzata d’occhio al Presidente Trump, e qualche mese dopo, in occasione dell’anniversario dell’Accordo di Parigi, abbiamo organizzato il primo One Planet Summit qui all’Eliseo. Abbiamo lanciato una coalizione di attori: Stati americani, aziende americane, grandi finanziatori e abbiamo lanciato diverse decine di coalizioni per dire, in termini concreti, come si lotta contro la desertificazione, come si riducono le emissioni di CO2 o come si contrastano le emissioni di idrofluorocarburi (HFC). A partire dallo One Planet Summit del dicembre 2017, abbiamo sempre fatto così. Abbiamo coinvolto anche attori che non erano stati sufficientemente presi in considerazione nel gioco delle nazioni: ho tenuto pertanto un One Planet Summit in Africa, perché credo che la nostra strategia debba essere afro-europea. Questa rifondazione deve basarsi su un’Europa molto più unita dal punto di vista geopolitico e che coinvolga l’Africa come partner, su un piano di assoluta parità. Lo abbiamo fatto sulla lotta contro la desertificazione a Nairobi. Lo abbiamo fatto anche quando abbiamo assunto la presidenza del G7: abbiamo creato coalizioni di attori per ridurre il trasporto marittimo internazionale, per ridurre gli idrofluorocarburi, e costruendo un G7 con i Paesi africani. E loro sono stati presenti per la metà del programma.
Dunque, prima di tutto, si tratta di un ripensamento della nostra griglia di lettura: più Europa. In secondo luogo, di una vera e propria partnership Europa-Africa, perché la chiave del problema è nelle nostre relazioni. In seguito, è fondamentale la costruzione di coalizioni molto concrete con attori governativi e non governativi – aziende, associazioni – per ottenere risultati lungo un percorso che ci siamo fissati insieme. A partire da qui, potremo costruire strategie di alleanza più ampie. È attraverso questa strategia, sempre in tema di cambiamento climatico, che siamo riusciti a coinvolgere la Cina. Ad ogni One Planet Summit, la Cina è presente e annuncia il rafforzamento del mercato cinese del carbonio e l’introduzione di un prezzo del carbonio. Poiché sappiamo essere attivi e coinvolgere queste coalizioni senza rimanere in una strategia inerte, riusciamo a coinvolgere anche i cinesi, il che ci permetterà, spero, di fare un passo avanti verso gli obiettivi del 2030 e le zero emissioni nel 2050 nei prossimi mesi con la Cina, e di poter coinvolgere di nuovo gli americani in forza di questa base.
Un altro esempio della tattica che ho usato negli ultimi tre anni per raggiungere questi obiettivi sono i social network: la lotta per le nostre libertà, per la legalità e contro l’odio online e il terrorismo. Quando avvenne l’attentato nel Regno Unito nell’estate del 2017, il 13 giugnoTheresa May venne qui e ci appellammo alle principali piattaforme e ai social network affinché rimuovessero tutti i contenuti terroristici che vi erano diffusi. Poi abbiamo portato questa richiesta alle Nazioni Unite. Per un anno, è stata una lotta molto dura, siamo stati poco seguiti, gli amanti del free speech si sono opposti a questa proposta. All’ONU e in Europa eravamo molto soli. Siamo riusciti a far muovere le cose, purtroppo, a causa dell’attentato di Christchurch. Il 13 maggio 2019, al Palazzo dell’Eliseo, ho invitato il Primo Ministro della Nuova Zelanda, diversi leader europei, leader africani – sempre con la volontà di includere diverse aree geografiche -, ed erano presenti i CEO delle principali piattaforme (Twitter, Facebook, Google…). Tutti si sono impegnati sulla golden hour, cioè sull’eliminazione dei contenuti terroristici in meno di un’ora. Non è una legge: è un impegno ibrido e senza precedenti, con degli Stati sovrani, per reagire a questo problema. Tra qualche giorno, spero che il Parlamento voterà il testo che renderà obbligatoria la golden hour in Europa.
Di fronte a ciascuna di queste emergenze, possiamo cambiare le cose solo se i nostri principi e i nostri obiettivi sono chiari e se riusciamo a costruire strategie di collaborazione originali e nuove, sia tra gli Stati che con i poteri non statali. Ciò richiede di reagire molto rapidamente quando c’è uno shock – l’esempio di Christchurch – oppure di costruire il terreno per un’ideologia comune e una lettura comune del mondo, che è di mostrare che abbiamo bisogno, di fronte a queste sfide comuni, di costruire collaborazione efficaci.
Un ultimo esempio sarebbe l’Act-A. Quando il virus è arrivato, avevamo una sola paura: se il virus arriva in Africa e in altri paesi poveri, come faranno? Se non abbiamo altra soluzione che chiudere i nostri paesi, come faranno a vivere? Abbiamo subito inaugurato un Ufficio dell’Unione Africana, online, con diversi leader, prima di portare la loro voce in Europa e nel G20. E abbiamo strutturato questa iniziativa, Act-A, con l’Unione africana, l’Unione europea, le altre potenze del G20 e l’OMS per permettere di finanziare il miglioramento dei sistemi di assistenza primaria, e soprattutto per garantire che il vaccino sia un bene pubblico mondiale e che siamo in grado di produrne abbastanza da poterlo fornire ai Paesi più poveri. Abbiamo ogni volta soluzioni, ma occorre costruire le innovazioni necessarie per ciascuno di questi temi.
Torniamo sulle parole dell’Europa geopolitica: quale definizione concreta c’è dietro a concetti come sovranità, autonomia strategica, Europa-potenza?
L’Europa non è solo un mercato. Implicitamente, da decenni, ci si comporta come se l’Europa fosse un mercato unico. Ma tra di noi non abbiamo pensato all’Europa come uno spazio politico finito. La nostra moneta non è completa. Fino agli accordi di quest’estate, non avevamo un vero bilancio e una vera solidarietà finanziaria. Non abbiamo pensato fino in fondo alle questioni sociali che ci rendono uno spazio unitario. E non abbiamo pensato abbastanza neanche a ciò che ci rende una potenza nel concerto delle nazioni: una regione altamente integrata con un chiaro carattere politico. L’Europa deve ripensarsi politicamente e agire politicamente per definire obiettivi comuni che non siano semplicemente una delega del nostro futuro al mercato.
Concretamente, ciò significa che, quando si tratta di tecnologia, l’Europa deve costruire le proprie soluzioni in modo da non dipendere dalla tecnologia americana o cinese. Se ne dipendiamo, ad esempio nel settore delle telecomunicazioni, non possiamo garantire ai cittadini europei la segretezza delle informazioni e la sicurezza dei loro dati privati, perché non disponiamo di questa tecnologia. In quanto potenza politica, l’Europa deve essere in grado di fornire soluzioni in termini di cloud, altrimenti i nostri dati saranno archiviati in uno spazio che non è sottoposto alla sua legislazione, che è poi la situazione attuale. Quindi, quando parliamo di questioni concrete come questa, in realtà parliamo di politica e di diritti dei cittadini. Se l’Europa è uno spazio politico, allora dobbiamo costruirla in modo che i nostri cittadini abbiano diritti che possiamo garantire politicamente.
Siamo chiari: abbiamo permesso che si creassero situazioni in cui ciò non è più possibile. Oggi stiamo ricostruendo l’autonomia tecnologica, ad esempio per la telefonia, ma non si può dire lo stesso per l’archiviazione dei dati nel cloud. Le nostre informazioni sono su un cloud che non è regolato dal diritto europeo e, in caso di controversie, dipendiamo dal benvolere e dal funzionamento del diritto statunitense. Politicamente, questo è insostenibile per dei leader eletti, perché significa che qualcosa che voi, in quanto cittadini, avete il diritto di chiedermi – la protezione dei vostri dati, una garanzia o un regolamento, o in ogni caso un dibattito informato e trasparente tra i cittadini su questo argomento -, noi non abbiamo costruito i mezzi per realizzarlo.
Lo stesso vale per l’extraterritorialità del dollaro, che è un dato di fatto e non è una novità. Meno di dieci anni fa, varie aziende francesi sono state penalizzate per diversi miliardi di euro perché avevano operato in paesi vietati dal diritto statunitense. In termini pratici, questo significa che le nostre imprese possono essere condannate da potenze straniere quando operano in un Paese terzo: è una privazione della sovranità, della possibilità di decidere da soli, è un immenso indebolimento.
Purtroppo, abbiamo preso coscienza di tutte le conseguenze in occasione della discussione sull’Iran. Noi europei volevamo rimanere nell’ambito del cosiddetto JCPOA. Tuttavia, una volta usciti gli americani, nessuna società europea è stata in grado di continuare a fare affari con l’Iran per paura delle sanzioni in cui sarebbe incorsa da parte degli Stati Uniti. Così, quando parlo di sovranità o di autonomia strategica, collego tutti questi temi, che a prima vista sembrano molto distanti tra loro.
Cosa ci consente di decidere per noi stessi? È questa l’autonomia: l’idea che siamo noi stessi a scegliere le nostre regole. Ciò significa rivedere politiche a cui ci eravamo abituati, tecnologiche, finanziarie e monetarie, politiche con le quali noi costruiamo in Europa soluzioni per noi stessi, per le nostre imprese, per i nostri concittadini, che ci permettono di collaborare con gli altri, con chi scegliamo, ma senza dipendere dagli altri, cosa che ancora troppo spesso accade oggi. Negli ultimi anni siamo riusciti a migliorare molto, ma non abbiamo ancora risolto questo problema.
È possibile arrivare a parlare di sovranità europea, come ho fatto io stesso? È un termine un po’ eccessivo, lo ammetto, perché se ci fosse una sovranità europea, ci sarebbe un potere politico europeo pienamente consolidato. Non siamo ancora a quel punto. C’è, è vero, un Parlamento europeo che difende la rappresentanza dei cittadini europei, ma ritengo che queste forme di rappresentanza non siano del tutto soddisfacenti. È d’altronde per questo motivo che avevo difeso con forza l’idea delle liste transnazionali, cioè l’emergere di un vero e proprio demos europeo che potesse essere organizzato, non in ogni paese e in ogni famiglia politica al suo interno, ma in modo più trasversale. Spero che le prossime elezioni ci consentano di realizzarlo. Se volessimo una sovranità europea, avremmo probabilmente bisogno di leader europei pienamente eletti dal popolo europeo. Questa sovranità è quindi, se così posso dire, transitiva. Ma tra quello che stanno facendo la Commissione, il Consiglio dove siedono i leader eletti dal loro popolo e il Parlamento europeo, sta emergendo una nuova forma di sovranità, che non è nazionale, ma europea.
Ma è del contenuto della sovranità che parlo quando mi riferisco a questo concetto, e che forse si può trovare in modo più neutro nel termine “autonomia strategica”. Penso che sia indispensabile che la nostra Europa ritrovi i modi e i mezzi per decidere da sola di fare affidamento su se stessa, di non dipendere da altri, in tutti i settori, tecnologico, come ho già detto, ma anche sanitario e geopolitico, e di poter collaborare con chi vuole. Perché? Perché penso che siamo un’area geografica coerente in termini di valori, in termini di interessi, e che è bene difenderla in sé. Siamo un’aggregazione di popoli e culture diverse. Non esiste una tale concentrazione di così tante lingue, culture e diversità in nessun altro spazio geografico. Eppure, qualcosa ci unisce. Del resto, sappiamo di essere europei quando usciamo dall’Europa. Sentiamo le nostre differenze quando siamo tra europei, ma proviamo nostalgia quando lasciamo l’Europa.
Tuttavia, sono sicuro di una cosa: non siamo gli Stati Uniti d’America. Sono i nostri alleati storici, abbiamo a cuore come loro la libertà e i diritti umani, abbiamo dei legami profondi, ma abbiamo, per esempio, una preferenza per l’uguaglianza che non c’è negli Stati Uniti d’America. I nostri valori non sono esattamente gli stessi. Abbiamo un attaccamento alla socialdemocrazia, a una maggiore uguaglianza, e le nostre reazioni non sono le stesse. Credo anche che da noi la cultura sia più importante, molto di più. Infine, siamo proiettati in un altro immaginario, legato all’Africa, al Vicino e Medio Oriente, e abbiamo un’altra geografia, che può disallineare i nostri interessi. La nostra politica di vicinato con l’Africa, con il Vicino e Medio Oriente, con la Russia, non è una politica di vicinato per gli Stati Uniti d’America. È quindi insostenibile che la nostra politica internazionale dipenda da loro o che segua le loro orme.
E quello che dico è ancora più vero per la Cina. Ecco perché credo che il concetto di autonomia strategica europea o di sovranità europea sia un concetto molto forte, molto fecondo, che dica che siamo uno spazio politico e culturale coerente, che dobbiamo ai nostri cittadini il fatto di non dipendere dagli altri, e che questa è la condizione per avere una qualche influenza nel concerto delle nazioni contemporaneo.
Lei parla di cambiare le abitudini, ma questa trasformazione è ancora sospesa nel “non ancora”. Quali sono i punti di blocco? Come si può spiegare che questa visione richieda così tanto tempo per prendere forma?
Non ne sono così certo. Quando proposi questa idea nel mio discorso alla Sorbona, molti dissero: non ce la farà, è un capriccio francese. Poco più di tre anni dopo, per l’Europa della Difesa, abbiamo un Fondo europeo per la difesa, una cooperazione strutturata e un’iniziativa di intervento che coinvolge dieci paesi. Per quanto riguarda la tecnologia, le cose sono cambiate da quando abbiamo lanciato l’idea del 5G europeo, e la Germania si sta avvicinando a noi su questo tema, che per i tedeschi era molto meno naturale anche perché erano già all’avanguardia. Quindi stiamo davvero ripensando la nostra sovranità sul piano tecnologico. La crisi sanitaria ci ha fatto ripensare la nostra sovranità in termini di salute e di industria sanitaria. Ha rivelato le nostre dipendenze. Quando tutta l’Europa supplica di avere i guanti o le mascherine, capiamo tutti che è necessario produrre nuovamente guanti e mascherine sul nostro territorio. Ecco a cosa serve il Piano di rilancio.
Per quanto riguarda le questioni finanziarie, ci è voluto molto tempo, ma nel giugno 2018 abbiamo firmato l’accordo di Meseberg con la Germania su una capacità di bilancio comune per affrontare le questioni dell’autonomia economica e finanziaria dell’Europa. Questo è sfociato su un accordo imperfetto a livello europeo e, a causa della crisi del Covid-19, abbiamo firmato l’accordo franco-tedesco del maggio 2020, che ci permette di ampliare le cose su proposta della Commissione e ha spianato la strada allo storico accordo di luglio, che stabilisce una risposta di bilancio alla crisi in tempi record, ma che pone anche le basi per la costruzione di un bilancio europeo. Questo contributo non va sottovalutato. Per la prima volta, decidiamo di indebitarci insieme, per spendere insieme in modo eterogeneo nelle regioni e nei settori che ne avranno più bisogno. In altre parole, di avere un’Unione dei trasferimenti, basata su una garanzia comune e un debito comune. Questo è quindi un punto chiave per costruire la sovranità dell’euro e renderlo una moneta reale che non dipenda, o che dipenderà molto meno, dagli altri, e creare sovranità di bilancio all’interno dei nostri confini. Quindi abbiamo fatto progressi su questi argomenti. C’è ancora molta strada da fare in termini di scelte geopolitiche – si vedono le nostre differenze su Russia e Turchia – e in termini di intensità di queste risposte, ma credo che ci sia stato un risveglio.
La domanda, per essere diretti, è questa: il cambiamento di amministrazione americana rallenterà le iniziative europee? Sono profondamente in disaccordo, per esempio, con l’editoriale su Politico firmato dal Ministro della Difesa tedesco. Penso che si tratti di un controsenso storico. Per fortuna, la Cancelliera non è sulla stessa linea, se ho capito bene. Ma gli Stati Uniti ci rispetteranno come alleati solo se rimarremo seri con noi stessi e se saremo sovrani con la nostra stessa difesa. Quindi penso che, al contrario, il cambiamento di amministrazione americana sia un’opportunità per continuare in modo totalmente pacifico e sereno quello che degli alleati devono capire: dobbiamo continuare a costruire la nostra autonomia per noi stessi, come gli Stati Uniti fanno per loro, e come la Cina fa per sé.
Ha parlato di una cooperazione riuscita, di importanti progressi: la Cina ha il progetto delle Nuove Vie della Seta, un grande progetto, un sogno di futuro, qualcosa cosa che in Europa facciamo fatica a trovare. Si tratta di qualcosa che si rivolge alla dimensione interna? Verso una maggiore integrazione, un’economia più verde? Oppure, al contrario, è qualcosa che ha vocazione di diffondersi nel mondo? Qual è il sogno, il grande progetto europeo?
Avete ragione sul fatto che il merito delle Nuove Vie della Seta è che si tratta di un concetto geopolitico molto potente. Questo è un dato di fatto. Ed è la testimonianza della vitalità e della forza d’animo di una nazione. Parlavamo di riferimenti storici e del periodo post-1989: va detto che l’Europa ha risolto le sue crisi interne, ed è come se non avesse più teleologia. C’è una crisi morale dell’Europa perché tutte quelle battaglie storiche, compresa la lotta contro la barbarie, le ha combattute contro il totalitarismo. Quali sono le battaglie contemporanee, visto che ci basiamo sempre su una lotta o un sogno comune? Quali sono le battaglie contemporanee dell’Europa?
Vi dirò come le vedo io. È in atto una lotta positiva volta a fare dell’Europa la prima potenza educativa, sanitaria, digitale e verde. Queste sono le quattro grandi battaglie, che ci permetteranno di affrontare queste quattro grandi sfide. Da qui, il sogno di investire in maniera massiccia per riuscirci. Penso che abbiamo tutte le opportunità per farlo, che il piano di rilancio che abbiamo messo in atto sia un passo in più in questa direzione, così come lo sono le nostre politiche nazionali. Questo, per noi, è un sogno. È un obiettivo che può portare un’importante mobilitazione, che deve cambiare molte cose. Penso però che possiamo aspettarci un impatto planetario: questo sogno attrarrà la Cina e gli Stati Uniti attorno ad una dimensione che può mobilitare molti e che è al contempo la condizione per vivere in armonia tra di noi e con il resto del pianeta. Ho incluso l’istruzione perché penso che sia una delle sfide che abbiamo abbandonato e che è fondamentale.
Ritengo che ci sia una seconda sfida: l’Europa deve riaccendere la fiaccola dei suoi valori. Questi valori vengono abbandonati ovunque. La lotta contro il terrorismo e l’islamismo radicale è una lotta europea, una lotta per i valori. Ed è una lotta alla nostra altezza: credo che, in fondo, la lotta contemporanea sia contro la barbarie e l’oscurantismo. Questo è ciò che sta accadendo. Non è affatto uno scontro di civiltà, non mi riconosco per nulla in questa lettura delle cose perché non è un’Europa cristiana che si schiera contro il mondo musulmano, una fantasia verso cui alcuni vogliono trascinarci. È un’Europa che ha radici giudaico-cristiane, questo è un dato di fatto, ma che ha saputo costruire due cose: la coesistenza delle diverse religioni e la secolarizzazione della politica. Sono due importanti conquiste dell’Europa. È proprio questo che ha reso possibile il riconoscimento del primato dell’individuo razionale e libero e, di conseguenza, il rispetto tra le religioni. E ciò che sta accadendo nel dibattito pubblico, rivolto in gran parte contro la Francia, e di cui credo non si sia considerata in modo sufficiente la portata, è un colossale passo indietro nella storia.
L’intero dibattito che è avvenuto ha consistito, in fondo, nel chiedere all’Europa di scusarsi per le libertà che permette. E, nella fattispecie, alla Francia. Il fatto che in Europa questo dibattito sia stato vissuto così superficialmente, o che sia stato strutturato in un modo così imbarazzato, dice qualcosa sulla crisi morale che stiamo affrontando. Lo ammetto chiaramente. Siamo un Paese libero, dove nessuna religione è minacciata, dove nessuna religione è sgradita. Voglio che tutti i cittadini possano esercitare il loro culto come vogliono. Ma siamo anche un Paese dove i diritti della Repubblica devono essere pienamente rispettati, perché siamo prima di tutto cittadini. Abbiamo un progetto comune e una visione comune del mondo: non siamo multiculturalisti, non sommiamo l’uno sull’altro i modi di rappresentare il mondo, ma cerchiamo di costruirne uno insieme, qualunque siano le convinzioni che abbiamo nella sfera intima e spirituale.
Forti di questo, abbiamo dei diritti: la libertà di espressione, la libertà di caricatura, che ha fatto versare fiumi di inchiostro. Cinque anni fa, quando sono state uccise alcune persone che disegnavano caricature, il mondo intero marciava a Parigi in difesa di quei diritti. Ora un professore è stato sgozzato, varie persone sono state sgozzate. Molte condoglianze sono state pudiche e abbiamo visto, in modo sistematico, leader politici e religiosi di una parte del mondo musulmano – che però hanno intimidito l’altra parte, devo riconoscerlo – dire: “devono semplicemente cambiare i loro diritti”. Questo mi sconvolge, e come leader, non voglio scioccare nessuno, sono a favore del rispetto delle culture e delle civiltà, ma non cambierò i miei diritti perché scioccano qualcuno altrove. Ed è proprio perché l’odio è proibito nei nostri valori europei, perché la dignità della persona umana prevale su tutto il resto, che posso scioccarvi, perché anche voi potete scioccare me, possiamo discuterne e litigare senza arrivare mai alla violenza perché è vietato, e perché la dignità umana è al di sopra di tutto. E noi stiamo accettando che dei leader, dei capi religiosi, pongano in atto un’equivalenza tra ciò che sciocca e un’immagine, e la morte di un uomo e un atto terroristico – lo hanno fatto – e siamo abbastanza intimiditi da non osare condannarlo.
Questo per me dice una cosa. La lotta della nostra generazione in Europa sarà una lotta per le nostre libertà. Perché esse vengono rovesciate. Non si tratterà di reinventare l’Illuminismo, ma dovremo difenderlo di fronte all’oscurantismo. Questo è certo. Non dobbiamo lasciarci intrappolare nel discorso di chi non rispetterebbe le differenze. Questo è un processo farsa e una manipolazione della storia. Il rispetto è possibile solo se la dignità umana è posta al di sopra di tutto, ma il rispetto non deve andare a scapito della libertà di espressione. Altrimenti non è vero rispetto, è piuttosto l’abbandono della discussione, della conflittualità che può esistere nella discussione e nel dibattito. È quello che vogliono. Qui l’Europa ha una responsabilità, quindi per me, la seconda lotta da combattere è proprio questa lotta per i nostri valori. Può sembrare un’espressione generica, ma è la lotta per l’Illuminismo.
Il terzo grande progetto europeo, è il cambiamento di prospettiva nei confronti dell’Africa e la reinvenzione dell’asse afro-europeo. È la lotta di una generazione, ma credo che sia fondamentale per noi. L’Europa non avrà successo se l’Africa non avrà successo. Questo è evidente. Lo vediamo quando non riusciamo a creare sicurezza, pace o prosperità attraverso la migrazione. Lo vediamo perché l’Africa è nelle nostre società. Abbiamo una parte di Africa in tutte le nostre società e viviamo in sintonia. E quando dico Africa, intendo in senso lato l’Africa e la regione mediterranea.
Ma abbiamo qualcosa da costruire. Quando parlo di un cambiamento di prospettiva, intendo dire che dobbiamo riuscire a far sì che l’Africa veda l’Europa in modo diverso e che noi stessi la vediamo in modo diverso, come un’occasione, una formidabile opportunità di sviluppo congiunto per riuscire in quel progetto che ho evocato. Dico questo perché non credo che avanzeremo o che risolveremo i nostri problemi rimanendo imprigionati dalla nostra storia. Io stesso ho avviato un importante lavoro di memoria e politico in particolare per quanto riguarda l’Algeria, ma vedo nella nostra storia come un ritorno del risentimento e della repressione in cui confluiscono le questioni più disparate: la post-decolonizzazione, le questioni religiose, economiche e sociali che creano una forma di incomunicabilità tra Europa e Africa. Penso che dobbiamo sciogliere questi nodi, ma soprattutto dobbiamo abbracciare l’Africa con molta più forza nella capacità che le diamo di svilupparsi autonomamente, sostenendola e restituendo orgoglio alle diaspore di origini africane che vivono nei nostri Paesi per renderle fermenti centrali di questa opportunità, non problemi come troppo spesso le vediamo. Ecco perché parlo di un cambiamento di prospettiva, per riuscire a dimostrare che l’universalismo che proponiamo non è un universalismo di dominio, come lo era quello della colonizzazione, ma di amicizia e partenariato. Queste sono, per me, le tre grandi battaglie da combattere…
Su quest’ultimo punto, ha parlato di incomunicabilità con l’Africa. All’interno dell’Europa, sulla partnership da costruire con l’Africa, non crede che esista una forma di incomunicabilità anche tra i paesi dell’Europa occidentale e orientale?
Prima di tutto, non dico che ci sia un’incomunicabilità, ma un accumulo di difficoltà e problemi, una commistione e delle manipolazioni da parte di alcuni. Questo tema viene chiaramente manipolato. È evidente anche da parte di alcune potenze egemoniche che danno prova di un nuovo imperialismo in Africa e usano questo risentimento per indebolire l’Europa e la Francia.
Se pensiamo all’Europa e al suo rapporto con l’Africa, abbiamo ventisette storie diverse. Non direi che l’opposizione è tra Oriente e Occidente. Prendiamo per esempio la Francia e la Germania: non abbiamo lo stesso rapporto con l’Africa. Innanzitutto perché la lingua è importante e l’Africa è in gran parte francofona, e perciò noi abbiamo un rapporto speciale con questa parte di Africa. Da parte mia, ho voluto ricostruire un rapporto molto forte con l’Africa anglofona e lusofona, che rivendico. Sono stato il primo presidente francese ad andare in Ghana o in Kenya, per esempio. O ad andare a Lagos. All’epoca sembrava una pazzia, ma è così che è andata: la Francia aveva dei rapporti solo con una certa parte di Africa. La Germania ha un rapporto molto diverso, come sapete, ed è il risultato della storia della fine del XIX secolo. Quindi penso che abbiamo una pluralità di relazioni nella nostra storia, che non dovrebbero determinare eccessivamente l’attuale modo di pensare oggi.
Penso che l’Europa dell’Est debba essere pienamente coinvolta in questa politica. E penso che quando lo facciamo, funziona molto bene. Constato che diversi Paesi dell’Europa orientale o settentrionale lavorano già con noi in Africa sulle questioni di sicurezza. Il nostro principale partner in Mali è l’Estonia – sì, l’Estonia! -, perché sono stati convinti dal concetto di autonomia strategica – soprattutto perché hanno paura della Russia, perché vi hanno visto il loro interesse – e visto che abbiamo offerto loro di collaborare con noi, ci stanno conoscendo meglio e stanno collaborando con noi in tutte le nostre operazioni, anche quelle più specifiche, come Takuba per le forze speciali. Quindi siamo in grado di coinvolgere tutti. Credo quindi che non ci sia alcuna differenza tra queste due Europe.
Ci sono sensibilità diverse. E, in sostanza, oggi, cosa potrebbe complicare ulteriormente il rapporto dell’Europa con l’Africa? Le migrazioni, ecco cosa. Il problema è che noi guardiamo all’Africa solo attraverso questa lente. Penso che sia un errore. Bisogna rettificarlo, in alcuni ambiti. Oggi assistiamo ad un uso profondamente indebito del diritto d’asilo, che perturba tutto il resto. Gruppi di trafficanti, che spesso sono anche trafficanti di armi e di droga e sono legati al terrorismo, hanno organizzato la tratta di esseri umani. Offrono una vita migliore in Europa e utilizzano canali che si avvalgono del diritto d’asilo. Ci sono centinaia di migliaia di uomini e donne che ogni anno arrivano sul nostro territorio, che vengono da Paesi in pace, con cui abbiamo ottimi rapporti e a cui riconosciamo centinaia di migliaia di visti ogni anno: questo non è diritto di asilo. O meglio, nel 90% dei casi, non si tratta di diritto di asilo. C’è chiaramente un abuso. C’è tensione su questo tema. Questa situazione deve essere risolta attraverso un dialogo con l’Africa, che abbiamo avviato nel 2017-2018 e che ora dobbiamo rilanciare con molto impegno.
Bisogna però, mettere questo tema da una parte. Il vero tema al centro della relazione con l’Africa è il suo sviluppo economico, la pace e la sicurezza. Aiutare l’Africa a combattere contro il flagello del terrorismo e dei gruppi jihadisti nel Sahel, nella regione del lago Ciad, e ora nell’Africa dell’Est, dove in questo momento sono in atto, dal Sudan al Mozambico, situazioni assolutamente ingestibili. Bisogna poi accompagnarla verso lo sviluppo economico tramite l’agricoltura, l’imprenditorialità, l’istruzione, soprattutto delle ragazze, e tutta quella politica di emancipazione che abbiamo cominciato a portare avanti. Ma bisogna fare molto di più. Ecco la chiave, per me.
Una questione fondamentale nella Sua pratica, o per meglio dire, nella Sua dottrina delle relazioni internazionali, è che alla base esiste un principio di associazione di diverse entità – Stati, imprese, attori locali, associazioni. Sta mettendo in discussione il multilateralismo degli Stati per sostituirlo con qualcos’altro? E più concretamente: pensa che la questione della distribuzione dei vaccini porterà avanti questa dottrina?
È un buon test. Potrebbe non essere il meno arduo. Sì, penso che se vogliamo avanzare con il multilateralismo, dobbiamo farlo funzionare. Guardate come funzionava il multilateralismo durante la Guerra fredda: c’era una sorta di gentlemen’s agreement per dire che c’erano argomenti sui quali si decideva di procedere insieme. Nonostante le tensioni esistenti, siamo riusciti a stabilizzare le strategie di armamento, ad avere modi per risolvere un conflitto tra i due blocchi, con i paesi non allineati che vi si strutturavano attorno. Negli ultimi anni si è verificato un fenomeno di disgregazione anche di questi meccanismi di cooperazione. La strategia della Russia è stata quella di non rispettarli più e di indebolire i fora internazionali. La risposta americana è stata quella di delegittimarli. Prendiamo l’esempio del disarmo europeo: non siamo mai stati così esposti, prima a causa del non rispetto da parte della Russia e poi per la decisione americana di ritirarsi dai programmi. Di conseguenza, dobbiamo rilanciare un multilateralismo, in cui gli Stati sono necessari. Quando si tratta di armamenti, quando si tratta di grandi questioni geopolitiche, c’è bisogno degli Stati. Quello che dobbiamo riuscire a fare è creare coalizioni originali per emarginare coloro che fanno azione di blocco. A volte funziona, a volte no. Devo constatare che sulla Siria, per esempio, non ci siamo riusciti. A questo proposito, per noi europei è molto difficile far rispettare le cose quando gli Stati Uniti d’America non sono dalla nostra parte, perché non abbiamo abbastanza autonomia militare o impegno da parte di tutti. Questa è la nostra debolezza oggi, ed è emersa pienamente in Siria.
In secondo luogo, sulle grandi questioni dei cosiddetti beni comuni, le grandi questioni internazionali, in effetti il multilateralismo tra Stati non basta più. Sulle nuove tecnologie, è necessario coinvolgere piattaforme che si sono sviluppate al di fuori delle regole, anche perché ancora non ne esistevano, stavo per dire malgrado gli Stati, perlomeno con il tacito accordo degli Stati Uniti d’America. Hanno sviluppato un’innovazione senza regole. Così, c’è stata una sorta di invenzione di un universo comune da parte degli attori privati che deve essere gradualmente regolato, e io sono un sostenitore di questo approccio: tassazione, contenuti, diritti dei cittadini e delle imprese, e spazio pubblico comune. Ma dovete cooperare e coinvolgerli. Per questo ho lanciato Tech For Good nel 2017, organizzando un’edizione all’anno, e grazie a questo abbiamo potuto avviare varie iniziative, come quella di cui abbiamo parlato per Christchurch. Analogamente, sul clima, dobbiamo coinvolgere anche le ONG, le imprese, a volte le regioni, le città e gli Stati federali. Io, da parte mia, faccio mio questo pragmatismo per ottenere dei risultati.
Per quanto riguarda la salute, in effetti, tra Act-A e la strategia COVAX che abbiamo lanciato, abbiamo riunito attorno al tavolo organizzazioni internazionali, come l’OMS, Stati, potenze regionali, come l’Unione Europea e l’Unione Africana, abbiamo messo a disposizione fondi settoriali, come Unitaid e Gavi, abbiamo portato fondazioni private, come la Gates Foundation, e attori industriali e laboratori pubblici che lavorano sui progetti. È completamente ibrido, ma con una governance affidata all’OMS per garantire che non ci siano conflitti di interesse, perché l’OMS è il garante di un sistema che non permette al settore privato di decidere le regole per tutti. Vedrete, ci saranno molte polemiche su questo argomento. Prima di tutto, perchè ci sarà una diplomazia dei vaccini, il che significa che tutti vorranno sventolare la bandiera e dire: “sono io che l’ho scoperto”. Poi ci sarà una corsa sotto la pressione dell’opinione pubblica per poter dire il più rapidamente possibile “abbiamo il vaccino giusto”. Dovremo essere molto vigili a questo proposito. E fare attenzione: saranno state seguite tutte le regole scientifiche e le dovute diligenze? Sono i nostri scienziati di Stato a poterlo dire e quelli dell’OMS, perché non hanno alcun conflitto di interessi. Non dimentichiamo mai ciò che abbiamo costruito: lo Stato è il garante dell’interesse generale. Questo non può essere delegato. E gli Stati hanno un ruolo da svolgere.
Ma dietro a ciò, i negoziati che stiamo conducendo con gli Stati e le imprese sono un ottimo banco di prova di questo nuovo multilateralismo. In ogni caso, avere accesso mondiale al vaccino è l’idea di bene pubblico mondiale. Ciò significa che nessuno dei laboratori che svilupperanno il vaccino sarà in grado di bloccare l’accesso ad altri laboratori di produzione per i paesi in via di sviluppo. Non so se vinceremo questa battaglia. Perché molto chiaramente non sono sicuro che tutti i paesi vogliano impegnarsi in questo. Vedremo se la Cina è pronta, se sarà lei a scoprire il vaccino, se la Russia è pronta, se gli Stati Uniti sono pronti con la nuova amministrazione – non ero sicuro con la precedente, in realtà l’attuale – e vedremo cosa faranno le aziende. Ma qualunque cosa accada, quello che abbiamo fatto crea un quadro comune con tutti gli attori importanti intorno al tavolo: un mediatore di fiducia che è l’OMS, dei meccanismi di cooperazione, pressione reciproca. Così abbiamo la massima probabilità che quando succederà qualcosa, se uno di questi attori si comporterà male, avrà molto da perdere per un comportamento scorretto. Ma questo è il nuovo multilateralismo. Bisogna constatarlo. Per molti Paesi, la strategia del fatto compiuto è diventata la nuova dottrina: la Russia con l’Ucraina; la Turchia con il Mediterraneo orientale o con l’Azerbaigian. Si tratta di strategie del fatto compiuto, il che significa che non hanno più paura di una regola internazionale. Quindi dobbiamo trovare dei meccanismi di aggiramento e accerchiarli.
Vorremmo tornare alla questione climatica da Lei già menzionata come una grande priorità e una questione di assoluta urgenza. La questione che si pone, come per il vaccino, è quella della sua politicizzazione. L’ambientalismo svolge ora un ruolo centrale nell’arena politica. Si definisce ecologista?
Sì, in realtà sono diventato ecologista. Lo rivendico e l’ho detto più volte. Penso che la lotta contro il cambiamento climatico e quella per la biodiversità sia centrale nelle scelte politiche che dobbiamo fare. Ciò non significa che sia irrevocabilmente fondamentale. Come ho già detto, non sono favorevole a un diritto della natura che sarebbe superiore ai diritti umani. Ma penso che non possiamo più pensare ai diritti umani senza pensare a queste interazioni, a queste conseguenze. E quindi questa deve essere una delle nostre grandi priorità. E poi, abbiamo scelte da fare in tutti i paesi, la velocità della transizione e le conseguenze economiche e sociali che essa comporta. La mia convinzione, e lo dico dopo aver commesso molti errori, anche nel nostro Paese con la tassa sulle emissioni di CO2, è che non possiamo realizzare questa transizione se non investiamo massicciamente, non compiamo una transizione allo stesso tempo ecologica e sociale e non trasformiamo il modo di produrre e, di fatto, il nucleo del modello delle nostre strutture. Questa è anche l’idea alla base del Consenso di Parigi. Perché, altrimenti, si corre sempre dietro ad una specie di squilibrio correggendolo. No, dobbiamo produrre in modo diverso. E produrre in modo diverso significa che devo cambiare il prezzo del carbonio. Questo è quello che stiamo facendo a livello europeo. Devo mettere in atto gli incentivi giusti. Devo vietare alcune attività.
È normale che sia molto difficile. C’è stato il tempo delle interpellanze, negli anni ’90. Poi c’è stato il tempo delle invocazioni, fino all’Accordo di Parigi – cioè si facevano leggi che si applicavano a quelli che sarebbero venuti dopo, che è in genere quello che si preferisce fare quando si fa della politica. Si fa una grande legge per la transizione del paese, per il cambiamento, ma non si ha nessuna conseguenza. Siamo noi gli sfortunati, siamo noi che dobbiamo affrontare la realtà in tutte queste tensioni. Questo tema è stracolmo di tensioni. Ci sono persone che hanno la stessa paura, ma quando si è un contadino, che ama il nostro paese, la sua terra, i suoi animali, ma il cui modello economico dipende da certi fattori di produzione, è molto difficile uscirne. Quindi, è una transizione che non si può chiedere da un giorno all’altro, soprattutto se i vicini non lo fanno. Siamo in prima linea, tra coloro che hanno spinto di più. Ma bisogna accettare un tempo di transizione, buoni incentivi, sostegno; non bisogna stigmatizzare. Spesso invece si tende a stigmatizzare, a puntare il dito.
Allo stesso modo, prendiamo l’esempio di una famiglia francese, che ha fatto tutto quello che le è stato chiesto per trent’anni. Le è stato detto: “devi trovare un lavoro” – ha trovato un lavoro. Le abbiamo detto: “Devi comprare una casa” – ma una casa è troppo costosa nella grande città, così l’ha comprata a 40, 50, 60 chilometri dalla grande città. Le è stato detto: “Il modello del successo è avere ciascuno la propria auto” – ha comprato due auto. Le è stato detto: “Se siete una famiglia degna di questo nome, dovete crescere bene i vostri figli, devono andare a musica e poi al club sportivo, ecc.” Così, il sabato, facevano quattro viaggi per portare in giro i loro figli. A questa famiglia, poi dite: “Siete grandi inquinatori, avete una casa mal isolata, avete una macchina e la guidate per 80, 100, 150 chilometri. Il nuovo mondo non vi ama.” La gente impazzisce! Dicono: “Ma ho fatto tutto bene! Compreso il fatto che il governo francese per decenni mi ha chiesto di comprare il diesel, e io ho comprato il diesel!».
Vedete bene che noi stessi stiamo cambiando di nuovo le cose. Per me, l’elemento più importante nella lotta contro il riscaldamento globale è la mobilità. È l’isolamento termico degli edifici – che affronteremo -, ma è anche la mobilità. Per una famiglia come questa, quindi, devo convincerla a tornare più vicina al centro della città, o a isolare meglio la propria casa, a utilizzare i mezzi pubblici – se ce ne sono – e aiutarli a cambiare le loro auto in modo che siano meno inquinanti. Ma non posso cambiare le abitudini di una società in due settimane. Il tutto per dirvi – prendo un esempio immaginario, ma reale – per mostrarvi quanto sia difficile la transizione climatica e ambientale. Nulla giustifica un rallentamento, ma tutto giustifica molta comprensione e rispetto reciproco. E questo significa che dobbiamo considerare quali vincoli possiamo eliminare. Mi sono preso l’impegno di rendere la Francia il primo paese a chiudere tutte le sue centrali a carbone. Potevamo farlo, è un vincolo enorme. Dobbiamo spiegare alle persone che vi lavorano da decenni: perderai il tuo lavoro, ti aiuteremo a trovare un lavoro altrove. Ma lo stiamo facendo guardando avanti: stiamo sviluppando molto le energie rinnovabili e faremo una transizione basata sulla mobilità. Semplicemente, il ritmo è guidato dalla capacità delle nostre società di digerire i cambiamenti, non dalle lobby, non dai grandi interessi, ma dalle persone normali. Perché non possiamo cambiare la vita delle persone semplicemente premendo un pulsante. E io stesso ho fatto degli errori pensando che si potesse.
Ho fatto l’esempio di questa famiglia perchéè è esattamente così che mi hanno visto alla fine del 2018: come il tizio che all’improvviso ha detto, “tutto quello che fate ogni giorno, seguendo i nostri consigli, ora diventa di colpo cattivo”. Ma mi sono reso conto che abbiamo commesso un errore. Dobbiamo coinvolgere le nostre società in questo cambiamento. È un cambiamento assolutamente fondamentale nelle nostre società. Dobbiamo coinvolgere tutti in questo cambiamento. Dobbiamo dimostrare che tutti sono attori, e dobbiamo farlo dando a tutti un ruolo, cioè sviluppando massicciamente nuovi settori di attività economica, che permettono di creare nuovi posti di lavoro più velocemente di quanto quelli vecchi non vengano distrutti. Perché non bisogna sbagliarsi: questo cambiamento viene dopo uno dei grandi cambiamenti di cui parlavamo prima, quello della globalizzazione in un capitalismo aperto. Le classi medie delle democrazie europee e occidentali hanno vissuto il cambiamento come sinonimo di sacrificio. Quando dicevamo “cambieremo le cose in meglio”, come il commercio, hanno perso il lavoro. Se ora diciamo loro: “la transizione climatica è una cosa veramente buona perché i vostri figli potranno respirare, ma sarete comunque voi a pagare il prezzo perché saranno il vostro lavoro e la vostra vita a cambiare. Ma non la vita dei potenti, perché loro vivono nei quartieri belli, non guidano mai un’auto e potranno continuare a prendere l’aereo per andare dall’altra parte del mondo”, non funzionerà.
Si tratta quindi di un momento in cui dobbiamo riformulare i nostri obiettivi. Dobbiamo avere le giuste strategie, le giuste politiche pubbliche, i giusti investimenti, i giusti incentivi. Poi c’è tutto un lavoro, direi politico, nel senso nobile, antropologico del termine, che è quello di coinvolgere le nostre società in questo cambiamento e farne degli attori. E infine, c’è la necessità di adeguare tutta la nostra agenda. Questo è un punto fondamentale del Consenso di Parigi. Se continuiamo ad avere un sistema finanziario che non distingue tra ciò che è bene per il pianeta e ciò che è male, i governi non faranno mai abbastanza. Per fare in modo che la transizione sia un successo, voglio anche che vengano approvate delle regole a livello dell’Europa e dei mercati finanziari – come siamo già riusciti a fare su questioni prudenziali o finanziarie – che penalizzino gli investimenti nei combustibili fossili e invece favoriscano gli investimenti nel settore verde. L’integrazione del mercato europeo deve essere realizzata per questo tramite. Dobbiamo emettere obbligazioni verdi europee, dobbiamo riuscire ad avere un sistema che ci incoraggi ad andare con molta più convinzione su queste attività.
Allo stesso modo, dobbiamo allineare la nostra agenda commerciale. Se cambiamo tutte le regole, chiediamo sacrifici e nel frattempo continuiamo a stringere accordi commerciali con altri paesi in tutto il mondo che non stanno facendo gli stessi sforzi – e la questione si porrà con la nuova amministrazione americana -, siamo pazzi! In altre parole, direte ai vostri agricoltori: “Dovete fare sforzi enormi, abbandonare il glifosato, usare zero pesticidi, fate questo, fate quello.” Loro lo faranno, perché pensano che sia un bene. E intanto, dall’altra parte, noi facciamo un accordo che ci permetterà di aprire il nostro mercato e importare prodotti realizzati con gli OGM, con pesticidi e così via, perché così funziona il commercio? Tutto è legato, la gente lo vede. Abbiamo quindi bisogno di accordi commerciali che siano coerenti con la nostra agenda sul clima, una lotta enorme. E su questo non c’è ancora un consenso europeo. Mi sto battendo molto su questo: l’abbiamo portato avanti nella battaglia europea del 2019. Qui c’è una vera differenza, alcuni paesi sono rimasti con un software che è un software orientato all’apertura e al commercio, che io rispetto. Ma la variabile commerciale rimane in secondo piano. Penso che non sia coerente dal punto di vista dell’efficienza, ma soprattutto che non sia politicamente sostenibile – politicamente. Non si può creare un consenso nelle nostre società se si chiedono sforzi ai cittadini e alle imprese e allo stesso tempo si agisce in maniera completamente opposta quando si tratta di questioni internazionali.
La nostra ultima domanda riguarda la sua visione della teoria dello Stato e della sovranità. La sovranità westfaliana può coesistere con l’emergenza climatica?
Sì, perché non ho trovato un sistema migliore di quello della sovranità westfaliana. Se ciò consiste nel dire che un popolo, in seno ad una nazione, decide di scegliere i suoi leader e di avere persone che votino per le sue leggi, penso che sia perfettamente compatibile, chi deciderebbe, altrimenti? Il popolo come potrebbe costituirsi e decidere? Non lo so. La crisi che stiamo vivendo nelle nostre società è più che altro una crisi di responsabilità. Nessuno vuole più prendere decisioni e agire in modo responsabile. Perché, in un certo senso, ci troviamo costantemente a discutere e tutti si trovano in un conflitto di legittimità. È quindi molto difficile decidere, perché dobbiamo affrontare delle scelte. Ma avremo sempre bisogno della sovranità dei popoli. Ci tengo molto. E tenuto conto di quanto dicevo poc’anzi sulle battaglie che dobbiamo affrontare, non abbandoniamole mai. A chi delegare per scrivere le leggi all’interno di una società, se non ai leader che hai scelto? Le aziende? Il caso? Leader non eletti, ma che sarebbero illuminati? Personalmente, non vorrei nessuna di queste alternative. Voglio poter scegliere ogni giorno, ogni volta che sono chiamato a votare, con elezioni regolari e in un sistema trasparente. Non inganniamoci: non solo abbiamo bisogno di tutto ciò, ma dobbiamo far funzionare questo sistema. E renderlo efficace significa ricostruire ideologicamente il Consenso che evochiamo da prima, significa ottenere dei risultati.
I sistemi basati sulla sovranità westfaliana e le democrazie che li accompagnano stanno attraversando una duplice crisi. Molti dei problemi non nascono al livello dello Stato-nazione, è vero, e ciò presuppone la cooperazione, ma la cooperazione non implica la dissoluzione della volontà del popolo. Presuppone anzi il saperla articolare. La seconda crisi che stanno vivendo è una crisi di efficacia nelle democrazie. Ormai da diversi decenni, le democrazie occidentali danno al loro popolo la sensazione di non saperne più come risolvere i problemi, perché sono aggrovigliate nelle loro leggi, nelle loro complessità – per quanto mi riguarda, lo vivo quotidianamente – nella loro inefficienza, e ne diventano sistemi che spiegano alla gente come le cose che la gente ci chiede di fare dovrebbero essere fatte. E le persone dicono: “non sanno come risolvere il sistema del progresso, il problema della sicurezza e così via”. Dobbiamo trovare l’efficacia attraverso i nostri meccanismi di cooperazione, ma anche scuotendo le nostre strutture per sortire degli effetti utili. Questa è la crisi delle democrazie: è una crisi di scala e di efficacia. Ma non credo affatto che si tratti di una crisi della sovranità westfaliana. Ci tengo davvero, e credo che non ci sia niente di meglio. Inoltre, in tutto ciò che faccio a livello internazionale, per me l’elemento più importante è sempre la sovranità dei popoli. Ogni volta che abbiamo cercato di sostituirla, abbiamo creato degli squilibri. Quindi tengo profondamente a questo principio. Profondamente.
Ma è per questo che è necessario il lavoro ideologico di cui ho parlato. Perché la crisi che i nostri concittadini stanno vivendo è una sorta di diffrazione degli spazi: il cittadino non riesce più a conciliare il consumatore, il lavoratore e la coscienza che è in lui. Perché abbiamo globalizzato tutto questo, e ad un certo punto le interazioni finiscono per renderlo incoerente. E il cittadino che vuole combattere il riscaldamento globale non è coerente con il consumatore che vuole poter comprare tutto a prezzi molto bassi, con il lavoratore che vuole continuare ad avere una fabbrica perché suo figlio possa lavorarci. Questo è ciò che non siamo riusciti a riconciliare. Questo è ciò che il nuovo consenso deve permettere di fare, integrando la riconciliazione dell’agenda climatica, tecnologica e di sovranità nel funzionamento delle nostre imprese, del nostro sistema finanziario e del nostro sistema politico. Stiamo parlando di una sfida enorme. Ma, gradualmente, la stiamo affrontando. Malgrado lo scoraggiamento che possiamo provare nel bel mezzo del cantiere, o quando non riusciamo ancora a distinguere un quadro perché siamo troppo lontani.
Quindi penso che dobbiamo continuare ad andare avanti su questa strada. Le grandi trasformazioni devono portarci ad essere continuamente molto inventivi. Inventare nuove forme di cooperazione, assumersi dei rischi, capire e pensare alle grandi transizioni di questo mondo, senza però rinunciare ai nostri principi fondamentali: la sovranità del popolo, i diritti e le libertà che ci hanno reso ciò che siamo. Perché sono minacciati.
E rispetto a quello che dicevate, in effetti molti sostengono, “sciogliamo la sovranità nazionale, lasciamo che siano le grandi imprese a decidere il corso del mondo”. Altri, invece, dicono: “la sovranità popolare liberamente espressa è meno efficace di un dittatore illuminato o della legge di Dio!”. Infatti, oggi assistiamo al ritorno delle teocrazie e dei sistemi autoritari. Se scattiamo una foto del mondo di oggi e lo paragoniamo a quello di quindici anni fa, è molto diverso. La sovranità democratica popolare è un tesoro da custodire gelosamente.
Grazie.
Grazie a voi. Ciò che per me è importante nel momento che stiamo vivendo – e il lavoro che fate è cruciale – è che questa riflessione continui, che riusciamo a costruire un dialogo e un processo. Dobbiamo riuscire, con i vostri contributi e le vostre riflessioni, a far vivere questo dibattito un po’ ovunque in Europa e a costruire il nostro comune interesse e la forza delle nostre proposte. Ma credo che ci sia un mondo da inventare. Lo stiamo già facendo, ma dobbiamo mostrarlo più chiaramente.