Da dove parte per tracciare il «gran contesto» della guerra del Sukkot?
Le emozioni sono forti ed è difficile fare un passo di lato, ma gli attacchi di ieri si inseriscono in una lunga serie di episodi. Dimentichiamo un po’ troppo in fretta che, per oltre un decennio, abbiamo assistito a questo tipo di esplosione di violenza intorno a Gaza quasi ogni quattro anni.
C’è stata la guerra di Gaza del 2008 in risposta agli attacchi di Hamas, con un’offensiva di terra nel 2009; l’Operazione Protective Edge lanciata nel luglio 2014 in risposta alla presa in ostaggio e all’omicidio di tre giovani israeliani in Cisgiordania; gli scontri tra Gaza e Israele nel novembre 2018, che sono stati più o meno risolti da un cessate il fuoco concordato con la mediazione egiziana; una grande esplosione di violenza nel maggio 2021; e ora gli attacchi del 7 ottobre 2023.
Si è così stabilita una sorta di regolarità della tragedia: un attacco più o meno efficace da parte di Hamas; una risposta pesante da parte degli israeliani e poi, dopo un po’, una mediazione, di solito egiziana, per negoziare un cessate il fuoco fino alla successiva esplosione.
Da dove viene questa regolarità?
Gaza è, passatemi l’espressione, una pentola a pressione – per due motivi. Prima di tutto bisogna considerare le condizioni umanitarie di Gaza, dove due milioni di persone vivono in un’area di trecentosessantacinque chilometri quadrati, in un contesto difficile, senza possibilità di uscire perché sono soggette a un doppio blocco: israeliano, ovviamente, ma anche – lo dimentichiamo un po’ troppo spesso – egiziano. Inoltre, alla guida di Gaza si è imposta Hamas, un’organizzazione che sostiene la lotta armata e organizza questi attacchi ogni tre, quattro o cinque anni.
Non vede una differenza qualitativa in questa fase?
La differenza oggi non è tanto nell’operazione in sé, ma nella sua complessità e nell’innegabile successo tattico. Questa è la fonte dell’incredibile shock psicologico inflitto a Israele. Stiamo parlando di almeno seicento morti per una popolazione di nove milioni di abitanti. Si tratta di un numero cinque o sei volte superiore all’11 settembre in termini percentuali. E le immagini sono estreme: terroristi di Hamas che vanno liberamente a uccidere per le strade, con un governo colto di sorpresa e apparentemente impotente.
Il metodo operativo della «Tempesta Al-Aqsa» sembra anche volto a catturare ostaggi su larga scala — ci sarebbero quasi 200 ostaggi ora a Gaza.
Questo è davvero un aspetto essenziale. Se non si è vissuto in Israele, è difficile capire l’importanza della presa di ostaggi. Per qualsiasi Paese, sarebbe senza precedenti, ma in Israele c’è una sorta di dogma assoluto al centro del patto sociale: bisogna fare di tutto per preservare la vita di ogni cittadino. In passato, gli israeliani hanno liberato centinaia di prigionieri, non solo per recuperare un soldato, ma a volte anche per recuperare i resti di un soldato.
Il fatto che ci siano duecento ostaggi israeliani a Gaza è un evento scioccante e senza precedenti. Ma questa presa di ostaggi non solo renderà il trauma israeliano di questa guerra ancora più difficile – presenterà all’esercito un dilemma: dovrà decidere se mettere in pericolo la vita di questi ostaggi, che senza dubbio saranno usati come scudi umani in tutta la Striscia di Gaza.
La guerra del Sukkot rappresenta quindi un momento di crisi esistenziale per Israele?
Sì, assolutamente
Passiamo al livello regionale. Pensa che ci sia il rischio che la guerra si estenda?
Partiamo da un’osservazione che può sembrare paradossale. Israele ha ottimi rapporti con tutti i suoi vicini arabi. L’unico epicentro in cui la guerra potrebbe espandersi attualmente sarebbe il Libano di Hezbollah. Per il momento, tuttavia, la sua posizione è più che altro di evasione. È vero che Hezbollah ha rilasciato una dichiarazione di sostegno ieri, subito dopo l’attacco, e questa mattina ha sparato diversi razzi – ma fondamentalmente, tutto sembra essere fatto per mostrare agli israeliani che Hezbollah non vuole essere coinvolto. Prendiamo l’esempio dei lanci. Non si è preso di mira il territorio israeliano, ma un’area contesa di Har Dov, o Fattorie di Shebaa, al confine settentrionale di Israele. Per quanto riguarda la loro dichiarazione, aveva un’atmosfera da «teatro Kabuki». Si grida, ma non si va oltre.
Non pensa che la situazione potrebbe cambiare?
Sì, certo, potrebbe indubbiamente cambiare nei prossimi giorni. Se i combattimenti continueranno, se Al Jazeera riporterà ogni mattina pesanti perdite, ci sarà una pressione più intensa da parte dell’opinione pubblica, e non solo in Libano. Ma per il momento non vedo il rischio che la guerra si estenda al resto della regione.
Se cartografiamo il posizionamento dei Paesi arabi e musulmani, notiamo una sorta di ambiguità strategica, una neutralità attendista. Cosa ne pensa?
I Paesi arabi sono in estremo imbarazzo. Da un lato, le loro leadership hanno ovviamente una forte inimicizia nei confronti di Hamas, che rappresenta una minaccia perché è un partito popolare e islamista. Dall’altro lato, sono impegnati in un processo di riavvicinamento con Israele. La loro opinione pubblica però è in maggioranza filo-palestinese e attualmente sta esultando per il clamoroso successo dell’Operazione Tempesta Al-Aqsa. La maggior parte di questi regimi sono autoritari, ma devono comunque fare i conti con le tendenze strutturanti della loro opinione pubblica. Da qui questo atteggiamento spesso attendista.
L’Arabia saudita sembra il Paese che incarna più chiaramente questa ambiguità.
Fondamentalmente, i sauditi non hanno problemi a lavorare con gli israeliani. In primo luogo, perché come tutte le monarchie del Golfo, mostrano nei fatti la massima indifferenza nei confronti della causa palestinese. In secondo luogo, perché la base delle relazioni internazionali è che «il nemico del mio nemico è mio amico». Il nemico comune di Israele e dell’Arabia Saudita è l’Iran. È nata una storia, da almeno un decennio: se non sono sposati, vanno già a letto insieme…
La questione religiosa non è ancora delicata? Il nome scelto da Hamas per l’operazione (Tempesta Al-Aqsa) si riferisce direttamente alla moschea di Gerusalemme – e ci sono state diverse ondate di indignazione nel mondo arabo e musulmano per la presenza dell’estrema destra sotto la protezione delle forze israeliane sulla spianata delle moschee.
Questo è un aspetto che rende la relazione tra Israele e l’Arabia Saudita più difficile rispetto a quella con gli Emirati Arabi Uniti. La monarchia saudita dichiara di voler dimostrare la sua legittimità in quanto custode dei luoghi santi. Tuttavia, il terzo luogo sacro dell’Islam è Gerusalemme, dove attualmente c’è un governo israeliano di estrema destra, con persino alcuni elementi radicali che chiedono la ricostruzione del Tempio. Per l’Arabia Saudita, questo rappresenta una sfida delicata e potrebbe quindi chiedere un prezzo elevato per il suo sostegno o riconoscimento.
È in questo senso che l’Arabia Saudita sembrava impegnata a negoziare un megadeal con l’amministrazione Biden, che avrebbe dovuto offrire una soluzione a lungo termine alla questione palestinese in cambio di tecnologie nucleari e forti garanzie di sicurezza. Alcuni ritengono addirittura che l’operazione di Hamas – che sembra aver avuto il sostegno dell’Iran – sia stata progettata per rendere impossibile questo accordo. Condivide questa opinione?
Da diversi mesi, l’amministrazione Biden sta lavorando a un piano per estendere gli Accordi di Abramo, il grande successo diplomatico dell’amministrazione Trump. Sebbene coinvolgano già Israele, Marocco, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, l’obiettivo è di estenderli al principale Paese del Golfo, l’Arabia Saudita. Si tratterebbe di una rottura storica. È quindi comprensibile che Hamas e l’Iran abbiano un profondo interesse a far deragliare questa iniziativa. E va da sé che l’attacco di Hamas pone delle difficoltà probabilmente insormontabili: se ci saranno molte vittime civili palestinesi, i sauditi non potranno procedere con il loro riavvicinamento a Israele.
Si tratta di un altro scacco in Medio Oriente per l’amministrazione Biden?
Ciò che è piuttosto sorprendente, a mio avviso, è che gli Stati Uniti si siano posti in una posizione passiva, insistendo sulla negoziazione di un accordo formale, quando la relazione tra Arabia Saudita e Israele era nei fatti sulla buona strada.
Come spiega tutto questo ?
Non ho una risposta chiara. Quando non si ha una risposta sulla politica estera, si dice che la causa è la politica interna. E in effetti l’amministrazione Biden sta entrando in una difficile campagna elettorale in cui deve dimostrare di avere un bilancio migliore di Trump in Medio Oriente. Il megadeal sarebbe stato migliore degli Accordi di Abramo.
Ci sarebbe anche un’altra ipotesi. Il Medio Oriente è meno vitale per gli Stati Uniti, che sono più che autosufficienti in termini di energia e non ritengono più – a ragione – che l’esistenza di Israele sia minacciata da attori internazionali. Tuttavia, il Medio Oriente rimane di importanza strategica nel contesto della grande rivalità che si sta sviluppando tra Stati Uniti e Cina. Potrebbero quindi essere preoccupati di vedere una penetrazione cinese nella regione, grazie alla sua capacità di stabilire relazioni clientelari senza imporre condizioni morali. Il megadeal con i sauditi potrebbe quindi essere visto come una reazione degli Stati Uniti all’ascesa della Cina.
Come interpreta la situazione dell’Iran? È l’unico Paese ad aver sostenuto l’attacco fin dall’inizio, dichiarando persino di aver contribuito a organizzarlo…
La Repubblica Islamica dell’Iran si trova in qualche modo nella posizione del Direttorio della Prima Repubblica in Francia. La sfida, a partire dal terzo anno della Rivoluzione, fu quella di mantenere una base ideologica e di giustificare le proprie azioni su tale base. All’epoca, in Francia, alcuni sacerdoti furono sfortunatamente mandati alla ghigliottina, o addirittura a quella che era conosciuta come la «ghigliottina secca», cioè a Cayenne. Era un modo per dimostrare che le istituzioni, nei loro sforzi di stabilizzazione, erano ancora fedeli al loro impegno rivoluzionario. La Repubblica islamica dell’Iran si trova in una dinamica simile. Ha bisogno di una costante giustificazione ideologica, nominando e svergognando il Grande Satana (gli Stati Uniti) e il Piccolo Satana (Israele).
Detto questo, è importante sottolineare che i veri nemici dell’Iran non sono né gli Stati Uniti né Israele: sono i Paesi arabi del Golfo. E sostenere Hamas significa mettere in imbarazzo le monarchie arabe del Golfo, che guardano dall’alto in basso un movimento che pretende di essere sia democratico che islamista. Sanno bene cosa pensa l’opinione pubblica araba. E come abbiamo detto, c’è anche il desiderio di cercare di far deragliare la formazione di questa sorta di alleanza israelo-araba in funzione anti-iraniana.
In definitiva, il gioco dell’Iran è sottile. Gli iraniani, che finanziano Hamas e che potrebbero essere stati consultati da Hamas per preparare l’attacco, non devono essere sottovalutati. Allo stesso tempo, dobbiamo prendere in considerazione la capacità decisionale di Hamas, come quella di Hezbollah, che non sono semplicemente strumenti dei servizi iraniani. Hanno un proprio programma. Per il momento, l’Iran si accontenta di una retorica veemente, ma sembra che anch’esso stia evitando di superare una linea che potrebbe rivelarsi pericolosa.
A questo punto, quali sono i rischi che la conflagrazione si estenda e coinvolga direttamente la Repubblica Islamica dell’Iran nella guerra del Sukkot?
Finché Hezbollah non interviene significa che l’Iran non vuole spingere le ostilità troppo in avanti. Infatti, se Hezbollah dovesse intervenire, ci sarebbe un grande rischio che Israele colpisca direttamente l’Iran. Si stima che in un simile scenario, date le migliaia di razzi in possesso di Hezbollah, si potrebbe colpire il terzo settentrionale di Israele, compresa Haifa – come ho potuto vedere durante il mio periodo come ambasciatore nel 2006, quando Haifa era sotto bombardamento. Una situazione del genere sarebbe difficile da tollerare per Israele, che potrebbe quindi prevedere un’azione diretta contro l’Iran, con il sostegno implicito dei Paesi arabi.
Passiamo alla scala globale. La mappa delle reazioni alla guerra del Sukkot mostra un’analogia con la mappa delle reazioni alla guerra in Ucraina. Da un lato, vediamo un Occidente molto compatto, che dimostra una solidarietà inequivocabile con Israele e una chiara condanna di Hamas. Dall’altro lato, vediamo che il sostegno esplicito all’attacco rimane in minoranza, con meno Paesi del previsto anche nel mondo arabo e musulmano pronti a sostenere Hamas. Tra i due, come nella guerra in Ucraina, troviamo i BRICS +, dal Brasile alla Cina, con la notevole eccezione questa volta dell’India, che sembra adottare una posizione di neutralità strategica. Come spiega questo isomorfismo?
Vorrei iniziare dicendo che condivido l’indignazione per quanto è accaduto nel sud di Israele. Allo stesso tempo, noto l’assoluto silenzio dell’Occidente di fronte all’escalation di violenza perpetrata dai coloni a spese dei palestinesi. In qualità di ex ambasciatore francese in Israele, ho seguito da vicino quanto sta accadendo da diversi mesi nei territori occupati della Cisgiordania. Stiamo assistendo a una chiara impennata della violenza. Il governo di Netanyahu sta chiudendo un occhio e sostiene persino i coloni più estremisti. Questo solleva un’accusa fondata di doppio standard. Naturalmente, non lo direi in televisione o alla radio, perché nell’attuale atmosfera di emozione – un’emozione del tutto legittima e che condivido – sarei immediatamente accusato di giustificare l’ingiustificabile.
Pensa che dobbiamo tenere conto di questa accusa per capire la discrepanza tra l’Occidente e il resto del mondo?
Il resto del mondo – l’ho sentito in particolare quando ero alle Nazioni Unite – ci accusa costantemente di avere due pesi e due misure. L’elenco degli esempi è lungo: l’invasione dell’Iraq, la guerra in Yemen… Ma al cuore di questa accusa c’è sempre la questione palestinese, che viene percepita da molti Paesi della regione e del resto del mondo come una prova della nostra parzialità. Quindi, per questi Paesi, ciò che sta accadendo oggi è tragico, ma ricordano che non eravamo così commossi quando bambini o adolescenti ricevevano un proiettile in testa in Cisgiordania.
Come spiega la posizione indiana?
C’è un elemento che rafforza la posizione dell’Occidente, per così dire, ed è che molti Paesi considerano il terrorismo islamico come il loro principale nemico. L’India è uno di questi Paesi. In questo mondo, ogni Paese difende i propri interessi, il che spiega le espressioni di solidarietà dell’India nei confronti di Israele.
Che ruolo sta giocando la Russia in questa sequenza?
Prima di tutto, è importante sottolineare che le relazioni tra Israele e Russia sono eccellenti. Sono agevolate soprattutto dalla comunità russa in Israele – che conosco bene – con oltre un milione di russi, tra cui molti oligarchi che viaggiano tra Mosca e Tel Aviv senza alcun problema. Israele mantiene una posizione piuttosto tiepida nei confronti dell’Ucraina, e si potrebbe persino dire che adotta una certa neutralità. In effetti, Israele è meno favorevole all’Ucraina che la Turchia, ad esempio.
Israele cerca di mantenere relazioni con entrambe le parti. Quindi non vedo perché la Russia dovrebbe avere un interesse reale a stare dietro a questa vicenda. In realtà, Israele ha la capacità di danneggiare la Russia, soprattutto grazie alla sua potente industria delle armi, e potrebbe interrompere le relazioni.
Non dobbiamo sopravvalutare il potere dei russi. Navigano in base alle opportunità, come possiamo vedere in Africa. In questa situazione, hanno un’opportunità d’oro che potrebbe avvicinarli al mondo arabo nel suo complesso. A mio avviso, sfrutteranno questa opportunità a fini propagandistici. Potranno anche criticare l’Occidente in una guerra che distoglie l’attenzione dall’Ucraina. Tuttavia, non credo che la Russia stia giocando un ruolo importante in questa vicenda, nonostante le speculazioni.
C’è un possibile esito negoziale a questa guerra?
Per negoziare, sono necessarie due persone sedute intorno al tavolo. Nessuna delle due è disposta o in grado di farlo.
Ho lasciato il mio incarico di ambasciatore francese in Israele quasi vent’anni fa. Ricordo che ero straordinariamente pessimista sulle prospettive di un esito negoziale: vedevo la brutalizzazione dell’occupazione, la tossicità della religione, il crollo della sinistra. Oggi, ahimè, gli scenari peggiori si sono avverati.
Il governo di estrema destra di Israele è impegnato ad annettere la Cisgiordania. Questo è un dato di fatto. Eppure nessuno può credere che, con le immagini delle atrocità commesse da Hamas, l’opinione pubblica israeliana domani chiederà di fare concessioni ai palestinesi.
Da parte israeliana, non c’è nessuno che voglia negoziare. Oggi, la sinistra è fisicamente scomparsa dalla Knesset. Da parte palestinese, abbiamo un’autorità totalmente screditata con a capo un uomo di ottantotto anni e un’amministrazione che è diventata praticamente un’appendice dei servizi israeliani.
Onestamente, se domani ci fossero le elezioni in Cisgiordania, Hamas probabilmente vincerebbe, non perché gli abitanti della Cisgiordania siano islamisti, ma perché sono stufi dell’Autorità Palestinese.
Per quanto riguarda Hamas, personalmente ritengo che abbiamo commesso un errore strategico, soprattutto noi francesi, rifiutandoci di parlare con loro nel 2006. Dal punto di vista geografico e politico, Hamas si è imposto una politica di rifiuto assoluto di negoziare e di sostegno incondizionato alla violenza armata, oltre ad essere finanziato e armato dall’Iran.
Quindi la spirale di violenza non può essere fermata?
Sono convinto che, nonostante l’emozione attuale e le indagini che si svolgeranno per definire i responsabili dell’incredibile fallimento dell’intelligence strategica di Israele, la situazione tornerà sostanzialmente alla normalità.
Gli Stati Uniti stanno entrando in campagna elettorale e durante questo periodo non cercheranno di negoziare. Anche la comunità internazionale è divisa, a maggior ragione a causa della guerra in Ucraina e della rivalità tra Stati Uniti e Cina.
Gli europei, da parte loro, sono impotenti a risolvere il conflitto. Ahimè, la mia previsione è che dopo questa esplosione di violenza e di emozioni, torneremo alla situazione precedente. Lo status quo, in fin dei conti, sembra comodo per tutte le parti. I palestinesi perdono, Israele vince, e ogni tre, quattro o cinque anni assistiamo a crisi simili, spettacolari ma che non sfidano davvero la pace mondiale, per dirla cinicamente.
Ancora una volta, vediamo che l’UE sembra mancare sia di autonomia di analisi che di visione geopolitica quando si tratta di un’area che la riguarda direttamente: il Mediterraneo. Secondo lei, quale sarebbe la posizione più coerente che potremmo cercare di articolare?
Vi sorprenderò, farò un discorso morale. La posizione che riterrei dignitosa per noi europei, quando usciamo da questa crisi specifica, sarebbe quella di difendere i diritti dei palestinesi in Cisgiordania. Penso che ciò che sta accadendo sia assolutamente indegno. In Cisgiordania, stiamo assistendo a una situazione di apartheid, in cui due popolazioni vivono sulla stessa terra, con diritti assolutamente diseguali. In nome dei nostri interessi e dei nostri valori, potremmo almeno alzare la voce su questo tema. Questo potrebbe essere un modo per rispondere all’accusa di usare due pesi e due misure. Dato che agli arabi interessa poco la causa palestinese e che gli americani non stanno prendendo alcuna iniziativa per rilanciare il processo di pace, potremmo considerare di limitare le esportazioni dalla Cisgiordania israeliana verso l’Unione Europea. Arriverà il momento di alzare la voce per proteggere i diritti dei Palestinesi.