L’ora più buia del progetto europeo: lo hanno detto in molti, commentando l’accordo sui dazi proclamato il 27 luglio da Ursula von der Leyen e Donald Trump. Ma due rintocchi hanno segnato quell’ora, non uno solo. Il primo, suonato il 15 luglio, fu la decisione dell’Unione europea di non opporre alcuna contromisura alla condotta di Israele a Gaza.

Ciò che unisce queste due scelte è il cedimento alle pretese di Washington, più visibile nella prima e che nella seconda. Ci tornerò. Ne traspare una politica la cui arrendevolezza non ha precedenti, quantomeno dalla fine della Guerra Fredda: una politica che minaccia non solo il progetto europeo, che presuppone e persegue l’autonomia politica, ma l’idea stessa di governo repubblicano. L’idea, per come la descrisse il classicista e dirigente della resistenza francese Jean-Pierre Vernant, parlando della «nascita del politico» in età antica, che il potere deve essere collocato al centro della polis: a eguale distanza da ogni cittadino, visibile, e soggetto al loro eguale ed efficace controllo 1. Un’idea tanto attraente quanto fragile e rara nella storia: per fare l’esempio della penisola dove vivo, essa prevalse solo durante un tratto della vita della Roma repubblicana e dei comuni medievali, nelle superstiti repubbliche di Genova, Lucca e Venezia, e dopo il 1945, infine congiunta al moderno principio di uguaglianza. Sosterrò che è anche questo che rischiamo di perdere.

Un bivio

Lo sfondo è noto. Da anni Russia e Cina variamente tentano di dividere le nazioni europee, talvolta con successo, per dominare singolarmente quelle che di volta in volta paiono utili ai loro disegni. Con la sua politica industriale imperiale, spinta da enormi investimenti alla frontiera tecnologica, Pechino prende di mira sia i nostri mercati sia i nostri esportatori. In parallelo alla sfida militare, col suo sostegno alle destre estreme e radicali Mosca aggredisce sia le democrazie costituzionali europee, indebolite da due decenni di crisi, sia la fragile architettura istituzionale dell’Unione, minata da troppi diritti di veto e dalla disarmonia tra moneta, fisco e difesa.

Secondo tradizione, i governi europei hanno cercato protezione a Washington. Ma questa è ora una potenza cesarista, almeno nelle intenzioni, altrettanto imperiale, e manifestamente inaffidabile. Piegarsi alle sue pretese, come è avvenuto sui dazi e Gaza e prima ancora sul riarmo, significa rinunciare sia all’autonomia sia all’integrazione politica: disunite e sottomesse, le nazioni europee prima o poi scopriranno di essere diventate moneta di scambio nei negoziati tra potenze più grandi. Questa politica è reversibile, devo credere, ma più a lungo proseguirà più sarà difficile cambiare rotta. L’alternativa pare secca e ravvicinata: unione o vassallaggio, autonomia o servaggio.   

Plausibili in astratto, ciascuno di questi argomenti è travolto dall’ovvia constatazione che l’accordo è una capitolazione.

Andrea Capussela

Forse solo la reazione dei cittadini potrà scuotere i troppi governi e dirigenti europei che hanno scelto la sottomissione. È anche in questo che risiede l’importanza delle scelte compiute a luglio sui dazi e su Gaza: perché entrambe sono impopolari, e capaci di suscitare indignazione politica e repulsione morale. Nelle mani di forze politiche abili questi sentimenti e moventi politici possono diffondersi e imporre una svolta.

Inoltre questo non è uno shock asimmetrico. Davanti a quel bivio le nazioni europee sono in posizione analoga, se non identica, e ciò è ancora più vero per i loro elettorati. Una battaglia politica che facesse leva su quell’indignazione potrebbe gradualmente prendere un respiro genuinamente europeo, e in essa potrebbe nascere quel demos europeo senza il quale un’integrazione politica più avanzata è difficilmente immaginabile. Il bivio, insomma, pare decisivo anche per le opportunità che presenta.

«Superior stabat lupus»

Parto dall’accordo sui dazi, sul quale non ho nulla da aggiungere a quanto hanno già scritto Dominique de Villepin, Pascal Lamy e Cecilia Malmström su questa rivista: dirò quello che basta per inquietare chi non abbia avuto il tempo di riflettere un istante su di esso. Poi parlerò di Israele, e infine riunirò i due discorsi nelle conclusioni che ho appena anticipato.

Accettare dazi è dannoso, naturalmente, ma esistono argomenti a difesa di questo accordo. Meglio di una guerra commerciale, hanno evidentemente calcolato quelle capitali – Berlino e Roma, maggiori esportatori negli Stati Uniti, ma anche Budapest, Dublino, Vienna e altri – che pare abbiano appoggiato o suggerito la linea della Commissione. Ed è verosimile che anche questi dazi, come quelli del 2018, si ribalteranno largamente sul consumatore statunitense, spingendo l’inflazione; congiunti al Big Beautiful Bill di Trump, inoltre, essi imprimeranno una nuova sterzata regressiva al sistema impositivo, e anche da questo lato contribuiranno a spargere scontento tra i suoi elettori nei ceti medi e bassi. Più sommessamente, altri aggiungono che gli impegni contenuti nell’accordo – investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti, e lì acquistare anche più energia fossile, per 750 miliardi, e più armi – non sono realmente azionabili, e non paiono assunti sinceramente. Altri ancora allargano la prospettiva: compiacere Trump, dicono, e impegnarsi ad acquistare più armi negli Stati Uniti rinsalderà l’impegno di Washington sia nella Nato sia nella difesa dell’Ucraina.

Nel medio termine questo accordo alza il costo di ogni futura virata autonomista dell’Unione perché Washington sa che una capitolazione sarà sempre possibile.

Andrea Capussela

Plausibili in astratto, ciascuno di questi argomenti è travolto dall’ovvia constatazione che l’accordo è una capitolazione. Anzi un’umiliazione, accuratamente inscenata: von der Leyen si è presentata in una proprietà scozzese di Trump per piegare il capo di fronte a lui, e non lo ha rialzato se non per difendere quel gesto coi suoi stessi falsi argomenti. Poi ha alzato il pollice per la foto di gruppo.

È evidente che ora, dopo che l’Unione si è piegata, e anzi ha promesso di accrescere la propria dipendenza militare da Washington, Trump si sentirà ancora meno vincolato dall’impegno di difesa collettiva che sta al cuore della Nato, e ancora più libero di agire unilateralmente in Ucraina e altrove. È altrettanto evidente che se i dazi nuocessero alla sua popolarità, o se gli impegni di investimento e acquisto non fossero rispettati, egli non avrebbe remore a pretendere altro, e con più forza, da una controparte così arrendevole 2. Del resto, potrebbe pretendere altro con qualsiasi pretesto e in qualsiasi momento 3. Come ho detto, nel medio termine questo accordo alza il costo di ogni futura virata autonomista dell’Unione perché Washington sa che una capitolazione sarà sempre possibile. Nel breve non assicura neppure la prevedibilità del regime degli scambi.

Servitù volontaria

Osservando questo esito della concentrazione di potere raccolta nelle mani della Presidente della Commissione, Giuliano da Empoli ha pensato al passo di Svetonio sul potente esercito spedito a raccogliere conchiglie su una spiaggia. 

A me è venuto in mente come Tacito, descrivendo la prima fase del principato di Tiberio, ci mostra come chi è dominato non possa fare a meno di essere servile. L’episodio più risibile, non dissimile da von der Leyen che afferma compitamente la giustizia delle pretese della parte avversa, è quello del senatore che propose di tributare a Tiberio onori maggiori di quelli che egli si attendesse, e, di fronte alla sua ritrosia, insistette invocando l’interesse pubblico e protestando la propria indipendenza di giudizio. Una così agile capriola, commenta Tacito, era «l’unica forma di adulazione che non fosse ancora stata tentata» 4.

Ma l’asimmetria di potere tra quel principe e quei senatori non è pari al rapporto di forze tra gli Stati Uniti e l’Unione. Tra i tanti possibili esempi, lo dimostrano i duelli ingaggiati in passato tra Bruxelles e Washington sull’altro decisivo terreno che, come la politica commerciale, è interamente rimesso alla competenza della Commissione: la politica di concorrenza, e in particolare le autorizzazioni alle fusioni tra imprese di rilievo globale e la repressione dei loro abusi di posizione dominante. 

Poi c’è la storia. L’altro giorno mi è saltato agli occhi un passo di Fernand Braudel sul Mediterraneo nella seconda metà del Cinquecento, prima di Lepanto: di fronte all’enorme spessore dell’impero Ottomano, una potenza sapiente e ricca ma esile e senza veri alleati, Venezia, non cedeva un metro senza resistere. Questa la sua politica: «anzitutto non mostrarsi intimiditi, rispondere alle minacce con le minacce, alla violenza con la violenza» 5.

A differenza di quel senatore, troppo zelante, non lo nego, ma nondimeno schiacciato dalla dominazione del principe, e a differenza della Serenissima, ferma nella difesa della propria autonomia e dei propri interessi, l’Unione ha scelto di capitolare.

Washington, e non solo Trump, potrebbe rivelarsi una minaccia più insidiosa di Mosca.

Andrea Capussela

Esistevano alternative. La migliore, scrive Lamy, era «costruire una coalizione internazionale sufficientemente ampia da dissuadere Donald Trump e uscire dal faccia a faccia bilaterale» 6. La Commissione vi ha rinunciato, o l’ha giudicata inattuabile, ma restava la ritorsione. Basti citare un tweet pubblicato da Olivier Blanchard il 12 luglio, dopo la minaccia di dazi al 30 per cento, che preferisco non tradurre:

Being nice, giving up the digital tax, did not achieve anything for Europe. Intelligent retaliation is of the essence, even if it leads to dangerous economic and geopolitical waters in the short run (yes, the Trump administration may double up, until it retreats).

Intelligent retaliation means something quite different from the uniform US tariff (which is probably as bad for the US as it is for Europe): It means going, product by product, for what hurts most (politically or economically) and hurts the EU least.

Questo è un caso di servitù volontaria. E l’inchino è stato rivolto a un uomo che sino dal suo ingresso in politica si è sempre dichiarato e dimostrato, con coerenza in lui inusuale, avversario del progetto europeo.

Conoscere il nemico

Per l’Unione, scrive ancora Lamy, «Trump potrebbe rappresentare una minaccia di una gravità comparabile a quella della guerra scatenata da Putin nel 2022».

Toglierei il condizionale e lo sposterei a un livello superiore: Washington, e non solo Trump, potrebbe rivelarsi una minaccia più insidiosa di Mosca. Sia perché egli avversa le nostre democrazie costituzionali non meno di Vladimir Putin. Sia perché gli Stati Uniti sono un avversario amico, per così dire, dal quale ancora largamente dipendiamo per difenderci da quelli più immediatamente ostili. Sia perché quella nazione sembra impegnata in una sorta di corsa contro il tempo: consapevole del progressivo declino della propria potenza relativa, Washington pare intenzionata a invertirlo o rallentarlo anche mediante una politica più aggressiva verso le nazioni a essa più vicine o vulnerabili: per volgerle, detto crudamente, da alleati in vassalli.

La sua politica di tolleranza su Gaza ha aperto un fossato tra l’Unione e le tante nazioni del cosiddetto Sud globale

Andrea Capussela

È a questo che von der Leyen, in nome di troppi governi europei, ha piegato la testa e alzato il pollice. Contro questo i cittadini europei potrebbero ribellarsi, se aiutati a comprendere la posta in gioco. 

Da Turnberry a Gaza

Per suscitare indignazione di fronte a ciò che avviene a Gaza bastano le immagini. Gli europei le hanno viste, magari distogliendo gli occhi, o forzandosi a non farlo, e hanno misurato la distanza che le separa dai silenzi, dall’inazione, dalle vuote parole di troppi loro dirigenti: dal loro «consenso alla distruzione di Gaza», lo definisce un indispensabile libro di Didier Fassin 7.

È forse arbitrario riassumere questa politica nella decisione del 15 luglio. 

L’ho scelta perché quel giorno la Commissione e il Consiglio erano con le spalle al muro, a causa della clausola dell’Accordo di associazione con Israele sul rispetto dei diritti umani. Sul loro tavolo c’era un rapporto degli uffici di Kaja Kallas che, senza molte possibilità di equivoco, attestava che Israele non rispetta quell’impegno; e sotto quei fogli c’era il parere consultivo deliberato il 19 luglio 2024, a larghissima maggioranza, nel quale la Corte internazionale di giustizia conclude che l’occupazione di Gaza, Gerusalemme Est e Cisgiordania viola sia il divieto di acquisire territori con la forza sia il diritto di autodeterminazione dei popoli, e che il regime di occupazione viola il divieto di discriminazione razziale e apartheid 8. Ma nessuna contromisura è seguita.

Entrambe le scelte compiute dall’Unione il 15 e il 27 luglio hanno violato o ignorato principi cruciali sia per il progetto europeo sia per le singole nazioni del continente.

Andrea Capussela

Non è invece arbitrario il mio parallelo tra questa scelta e l’accordo sui dazi, per almeno tre ragioni. La prima, più evidente, è il fossato che la sua politica di tolleranza su Gaza ha aperto tra l’Unione e le tante nazioni del cosiddetto Sud globale, come il Brasile per esempio, che avrebbero avuto buone ragioni per fare fronte comune contro i dazi di Trump e in difesa dell’ordinamento commerciale multilaterale. Una diversa politica verso Israele non avrebbe garantito una simile coalizione, ma l’avrebbe agevolata; plausibilmente, il medesimo argomento è stato usato in relazione alla difesa dell’Ucraina. 

La seconda ragione, generalissima, è che entrambe le scelte compiute dall’Unione il 15 e il 27 luglio hanno violato o ignorato principi cruciali sia per il progetto europeo sia per le singole nazioni del continente. Mi riferisco al divieto dell’uso della forza, in particolare, e al divieto di discriminazione nel commercio internazionale (pare scontato che l’accordo sui dazi non rispetterà le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio). Così facendo, un gruppo di medie e piccole potenze generalmente pacifiche e non revisioniste ha contribuito a indebolire le fondamenta di un ordine internazionale che protegge soprattutto loro, e non i più forti o i più spregiudicati.

La terza ragione del mio parallelo illumina la minaccia per l’ideale repubblicano. Il mio argomento è che in larga misura la politica europea di tolleranza verso le condotte illegali di Israele è essa stessa un effetto dell’asimmetria di potere con gli Stati Uniti, ed è verosimilmente funzionale a destabilizzare le democrazie dell’Unione.

Per rendersene conto basta esaminare le altre possibili motivazioni di quella politica. Non è usuale farlo, perché a essa siamo talmente abituati che tendiamo a darla per scontata: infatti il 15 luglio nessuno seriamente si attendeva una risposta commisurata alle azioni di Israele. Ma la crisi di Gaza ha avuto quantomeno un effetto chiarificatore, perché ci ha imposto di riflettere sul fondamento razionale, morale e politico, di quella linea.

L’esercizio è semplice e può essere rapido. Nessuno dubita che lo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale e i secoli di antigiudaismo e antisemitismo che lo hanno preceduto debbano ancora pesare sulla coscienza dell’Europa, e gravemente. Ma nessuno può dedurne l’obbligo di sostenere le azioni di Israele che violano il diritto internazionale. Né questo obbligo può discendere dal dovere di solidarietà verso gli ostaggi tuttora imprigionati nei tunnel di Hamas o le vittime degli altri crimini del 7 ottobre 2023.

Se dunque né ragioni di giustizia, né la responsabilità storica dell’Europa, né gli interessi dell’Unione sono sufficienti a spiegare la sua politica di tolleranza, resta il fattore esterno: la pressione statunitense. 

Andrea Capussela

La questione è stabilire quali azioni di Israele siano illegali. È un problema difficile, ma in larga parte risolto: alcune gravi violazioni sono già state accertate dalla Corte internazionale di giustizia; altre, come tagliare i viveri a Gaza, paiono manifeste.

Passo agli interessi materiali dell’Unione. Israele è un’economia dinamica e innovatrice, con la quale l’Unione commercia vantaggiosamente, e non mancano altre ragioni per sostenere quello stato nelle sue legittime iniziative o contro minacce esterne. Ma poiché negli ultimi due anni le sue azioni hanno seminato disordine nella regione, provocato intralci al commercio marittimo, e rischiato sia una nuova fiammata dei prezzi dell’energia sia una guerra regionale aperta, che minacciavano danni incomparabili ai vantaggi degli scambi con Israele, l’interesse dell’Unione era di frenare il suo governo, non di incoraggiare con l’inazione anche le sue punte più aggressive 9.

Se dunque né ragioni di giustizia, né la responsabilità storica dell’Europa, né gli interessi dell’Unione sono sufficienti a spiegare la sua politica di tolleranza, resta il fattore esterno: la pressione statunitense. 

L’insistita politica di tolleranza verso la distruzione di Gaza e di una parte consistente della sua popolazione è un fatto di gravità senza precedenti nell’Europa dell’ultimo mezzo secolo.

Andrea Capussela

Questa era meno evidente durante l’amministrazione democratica, che ha sopportato numerosi voti europei divergenti nel Consiglio di sicurezza, ed è più scoperta con Trump, come indirettamente dimostrano i dazi imposti al Canada per aver dichiarato l’intenzione di riconoscere la Palestina. Ma non c’è ragione di credere che l’intensità della pressione fosse molto diversa: perché da decenni il sostegno pressoché incondizionato a Israele è un pilastro indefettibile della politica estera di Washington, indipendentemente dal colore dell’amministrazione in carica. Le ragioni di questa linea sono discutibili, dal punto di vista degli stessi interessi degli Stati Uniti, ed è improbabile che essa sopravviva intatta alla crisi di Gaza: ma qui nulla di ciò mi interessa: voglio solo registrare il fatto che in questi due anni Washington ha offerto sostegno pressoché incondizionato a Israele. Quindi la coerenza vuole che Washington abbia spinto i governi europei a fare altrettanto, sia per rafforzare l’efficacia della propria politica mediorientale, sia per meglio mascherare il frequente contrasto tra essa e i valori detti «occidentali».

Non dico che la pressione statunitense sia l’unica spiegazione, soprattutto nelle nazioni che hanno un passato nazista o fascista. Dico solo che quella pressione è un fattore causale necessario, principalmente alla luce degli alti e crescenti costi politici e di reputazione che la tolleranza per la devastazione di Gaza comporta per i governi europei. Lo dimostrano le loro recenti correzioni di linea sugli aiuti umanitari e il riconoscimento della Palestina, dettate (anche) dal timore per la crescita di quei costi. Correzioni tardive, temo, e inefficaci: gli aiuti restano insufficienti, le sparatorie durante la loro distribuzione continuano, e il numero di persone che la fame quotidianamente uccide prosegue la sua prevedibile progressione. Di pari passo aumentano anche quei costi. Da essi derivano gli effetti destabilizzanti ai quali ho accennato, che incombono sulle democrazie europee.

Destabilizzare l’Unione

Le premesse del mio argomento, semplicissimo, non mi paiono controverse. L’insistita politica di tolleranza verso la distruzione di Gaza e di una parte consistente della sua popolazione è un fatto di gravità senza precedenti nell’Europa dell’ultimo mezzo secolo, e ciò a prescindere dalla qualificazione di questi eventi come genocidio, peraltro sempre più plausibile, come crimini contro l’umanità, o come conseguenze di un intreccio di azioni legittime e crimini di guerra. Assieme alle parallele violenze di militari e coloni israeliani in Cisgiordania, quegli eventi hanno gettato una luce più chiara sulla natura e i fini del regime di occupazione, e hanno aperto gli occhi anche ai meno informati o interessati. La repulsione morale e l’indignazione politica dei cittadini europei verso quella politica di tolleranza ha dunque radici profonde, si diffonderà ulteriormente, se le violenze proseguiranno o cadrà l’embargo israeliano ai media internazionali, e avrà effetti di lungo periodo. Già ora i sondaggi suggeriscono che la maggioranza o vaste minoranze degli elettori dei partiti politici europei di destra moderata, di centro e di sinistra dissentono dai loro rappresentanti che, al governo, hanno scelto di non contrastare seriamente le condotte illegali di Israele.

Se questo è vero, quanto più proseguirà quella politica tanto più si acuirà il dissidio tra quei partiti e governi e i loro elettori. Naturalmente non sarà questa la sola determinante dei loro voti alle prossime elezioni: ma è possibile distinguere tra il sostegno politico contingente, spesso deciso nell’alternativa tra partiti che egualmente aderiscono a quella linea di tolleranza, e la credibilità di un partito o di un’intera classe politica. La crisi di Gaza potrebbe essere l’ultima goccia per la credibilità di una classe dirigente che non ha ancora saputo dare rimedi adeguati alle inefficienze e disuguaglianze svelate dalla crisi del 2008, o alle debolezze strutturali dell’eurozona, che all’apice della crisi del debito sovrano, tra il 2011 e il 2012, minacciarono la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione.

Imperfette e indebolite, le istituzioni politiche delle nazioni europee potrebbero non reggere alla pressione.

Andrea Capussela

Quindi non pare stravagante immaginare che, nello spingere i governi europei sulla linea della tolleranza, Trump ai suoi strateghi abbiano preveduto e voluto i suoi effetti politici interni, potenzialmente dirompenti. Il calcolo sarebbe lineare: screditare le tradizionali classi dirigenti europee per favorire i movimenti di destra estrema e radicale alleati di Trump, nella speranza che questi vadano al governo e da lì svuotino o disarticolino quelle democrazie costituzionali consolidate europee che, per la loro stessa esistenza e la loro storica vicinanza agli Stati Uniti, costituiscono una sfida frontale al regime cesarista che egli pare intenzionato a creare.

La congiunzione tra l’attuale politica imperiale di Washington e la minaccia all’idea repubblicana pare manifesta, ed è aggravata dalle parallele strategie di Mosca e Pechino (e forse anche dai rischi insiti nell’uso politico dell’intelligenza artificiale, ma di questo non so dire altro).

Imperfette e indebolite, le istituzioni politiche delle nazioni europee potrebbero non reggere alla pressione. Per ragioni simili hanno già ceduto quelle ungheresi, ancora giovani; sono state vicine a cedere quelle polacche, egualmente recenti; restano in pericolo anche quelle italiane, più consolidate, contro le quali muovono progetti di riforme costituzionali pericolose e da tempo perseguite dalla destra della mia nazione; pare imprudente presumere che non cederanno quelle francesi, pur secolari, se la destra estrema vincerà. La lista potrebbe continuare.

La battaglia per l’autonomia repubblicana

La questione è se si possa volgere l’indignazione degli europei in una direzione diversa, prima che sia catturata da quelle destre. L’indignazione, dico, per la sottomissione a Washington su Gaza, i dazi e altro: sono fasci di sentimenti e moventi politici diversi, naturalmente, gli uni più caldi e istintivi, gli altri più freddi e meditati, ma così come la loro sorgente è comune, comune può essere anche l’esito, se la loro fusione sarà facilitata da mani competenti. I valori verso i quali essi potrebbero essere indirizzati sono scontati: quelli che Trump avversa, apertamente o copertamente: autogoverno, democrazia, costituzionalismo, pari dignità delle persone, libertà 10.

L’unità di azione può estendersi all’intera Unione.

Andrea Capussela

Non sono valori partigiani, che neppure tutti gli alleati di Trump osteggiano convintamente, e possono unire tutti i loro avversari. Essi continueranno a combattersi sul terreno delle politiche economiche e sociali, naturalmente, gli uni più egualitari e gli altri meno, ma nessuno di questi conflitti impedirà loro, se comprenderanno la natura della sfida, di unirsi nella difesa di quei valori. Perché la questione, in fondo, è se simili conflitti e dissensi avranno ancora scopo, o degraderanno in esercizi retorici attorno a decisioni altrui. Per riprendere l’immagine che ho usato prima, la questione è se il potere resterà al centro, visibile e contenibile da tutti i cittadini, o scivolerà progressivamente in mani lontane: a Washington, in parte; a Pechino, d’altra parte; magari anche a Mosca, o altrove lo spingerà la mutazione dei rapporti di forza che è in corso: non c’è ragione di escludere, per esempio, che un’India capace di esprimere tutte le sue potenzialità non pretenda un giorno la sua fetta dei tesori europei.

Chiusi nella coazione a ripetere, difficilmente cambieranno linea quei governi e dirigenti europei che più sono responsabili della capitolazione del 27 luglio. Consapevoli della loro debolezza, tuttavia, quegli «invertebrati» temono la contestazione popolare, come dimostra la repressione con la quale hanno spesso risposto al dissenso su Gaza. Quindi il primo passo è alzare i costi politici della loro sottomissione a Washington, per imporre loro l’alternativa tra un cambiamento di rotta e imminenti dure sconfitte elettorali. Questo è il compito delle opposizioni, dei membri più lucidi delle coalizioni ora al governo, e delle organizzazioni della cittadinanza attiva. Non pare un compito difficile: gli argomenti di ordine ideale e materiale a favore di un cambiamento di rotta sono solari, e Trump, Putin e la destra israeliana sono bersagli polemici ideali per una battaglia di questo genere.

L’unità di azione può estendersi all’intera Unione. Perché a differenza della crisi dell’eurozona, che divise debitori da creditori e economie in deficit da economie in surplus, la questione dell’autonomia nei confronti degli Stati Uniti tocca orizzontalmente tutti i membri dell’Unione; e l’inaffidabilità di Trump avvicina anche le posizioni di chi altrimenti avrebbe forse avuto ragione di guardare con occhi diversi alla tutela statunitense (mi riferisco in particolare ai paesi geograficamente più vicini a Mosca). Nella battaglia per l’autonomia repubblicana, insomma, le idee, le parole d’ordine, le bandiere, le linee di attacco possono essere sostanzialmente le stesse in tutta l’Unione: basta coordinarsi.

In questa battaglia potremmo veder nascere un’opinione pubblica genuinamente europea, e con essa il demos europeo.

Andrea Capussela

In questa battaglia potremmo veder nascere un’opinione pubblica genuinamente europea, e con essa il demos europeo: il corpo politico che solo potrebbe solidamente legittimare quella più avanzata unione politica, fiscale e militare, che è manifestamente necessario affiancare a quella monetaria. In una parola, alla sfida di Trump potrebbe seguire sia la fine del progetto europeo, sia un suo salto di qualità: l’alternativa è nelle mani delle forze politiche più lungimiranti. 

Non voglio farla troppo semplice. Da un lato, emanciparsi dalla tutela statunitense sarà un processo lungo, delicato e carico di pericoli, che Washington avverserà e potrebbe fallire a ogni passo. Dall’altro lato, la vicinanza agli Stati Uniti e alla sua economia fortemente innovatrice resta per molte ragioni preziosa. E potrebbe anche avere ragione chi crede che fuori dalla tutela statunitense la competizione tra le potenze europee si intensificherebbe, le spingerebbe a riarmarsi, e potrebbe generare conflitti. Ma se desideriamo rifiutare il servaggio, o anche solo ammorbidirlo, dobbiamo forse essere pronti a correre qualche rischio.

Note
  1. J.-P. Vernant, “Naissance du politique”, in La Traversée des frontières, Paris, Seuil, 2004, pp. 251–71. Sull’ideale repubblicano rinvio, su questa rivista, alla mia conversazione con Philip Pettit.
  2. Dopo che l’ho scritta, questa frase ha avuto rapida conferma: il 5 agosto Trump ha minacciato dazi al 35 per cento qualora l’Unione non rispetti l’impegno di investimento, definito «600bn investment gift», e dazi fino al 250 per cento sui prodotti farmaceutici.
  3. Il governo italiano gli ha indirettamente dato un consiglio, quando non ha recisamente rigettato la richiesta di sussidi agli esportatori formulata da alcuni industriali: simili sussidi ridurrebbero i prezzi pagati dal consumatore statunitense, assorbendo parte dei dazi, e si risolverebbero in un trasferimento dai bilanci europei al bilancio federale statunitense: un tributo.
  4. Annales, I.8. Illuminante sul tema è Q. Skinner, “Liberty as Independence : The Making and Unmaking of a Political Ideal”, Cambridge, Cambridge University Press, 2025, p. 23 passim.
  5. F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Armand Colin, 1976, vol. III, p. 222; la traduzione è mia («avant tout, ne pas avoir l’air intimidé, riposter à la menace par la menace, à la violence par la violence»).
  6. O. Blanchard, J. Pisani-Ferry, “Europe’s challenge and opportunity: Building coalitions of the willing”, Realtime Economics, Peterson Institute for International Economics, 13 febbraio 2025.
  7. D. Fassin, “Une étrange défaite. Sur le consentement à l’écrasement de Gaza”, Éditions La Découverte, 2024.
  8. “Parere consultivo sulle conseguenze giuridiche delle politiche e pratiche di Israele nei Territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est”, Corte internazionale di giustizia, 19 luglio 2024, par. 226–9 (sulla violazione del divieto di discriminazione razziale e apartheid) e 259–64 (sulla violazione del divieto di acquisire territori con la forza e del diritto di autodeterminazione dei popoli).
  9. Visto il frequente uso dell’aggettivo ‘messianico’, chiarisco che non voglio con questo dire che politica di Tel Aviv sia irrazionale: si riconosce una logica nelle sue scelte se si suppone che Israele sia impegnata in una sua corsa contro il tempo, per allargare e consolidare la colonizzazione o annessione dei territori occupati prima che il suo credito presso le società e i governi occidentali si riduca troppo. È una strategia ambiziosa, in ritardo di uno o due secoli sui progetti comparabili, ma con l’aiuto dei governi occidentali potrebbe riuscire.
  10. Libertà non nell’angusta concezione della tradizione liberale, idealmente, ma intesa come indipendenza, non-dominazione, assenza di soggezione a un potere incontrollato, come vuole la tradizione repubblicana (rinvio di nuovo anche al libro di Q. Skinner, Liberty as Independence). In un libro che uscirà a novembre, tra l’altro, tento di argomentare che una forte sinergia lega quella più alta concezione della libertà con la più affidabile teoria della crescita economica di lungo periodo: The Republic of Innovation: A New Political Economy of Freedom, Cambridge, Polity, 2025.