Lo schiaffo del papa e la calata su Roma
Per capire il momento che si è aperto a Roma durante questa pasqua contrastata bisogna partire da una scena.
Nel 2017, durante la famosa visita di Donald Trump a papa Francesco il pontefice concesse e impose un cerimoniale particolarmente sofisticato al presidente che aveva meritato una specie di scomunica transdenominazionale durante la campagna elettorale (“chi fa muri non è cristiano”). Gli fece attraversare logge e corridoi del palazzo scortato da una guardia d’onore fino alla Sistina e, dopo aver umiliato il pacchiano gusto del lusso dell’immobiliarista arricchito, completò la cosa con due foto memorabili. Accanto al presidente sorridente e alla sua famiglia in ghingheri appare un Bergoglio così scuro e accigliato da far pensare che avesse dedicato una sessione di prove ad un gesto che voleva sancire la più irredimibile distanza fra il re di denari e il successore di Pietro. La differenza fra la simpatica pastora evangelicale che si era recata da Trump per ungerlo (sic) a domicilio e il gesuita argentino sbatteva in faccia alla temporanea onnipotenza dell’inquilino della Casa Bianca tutta la trionfale solidità della storia della Chiesa.

Può darsi che il cattolicesimo e il papa abbiano pagato caro quel gesto. Può darsi anche che nell’insieme di pulsioni che hanno spinto l’ex presidente alla riconquista della Casa Bianca, anche quello schiaffo pontificio abbia innescato la molla revanchista di Donald Trump.
Di certo la visita pasquale del vicepresidente Vance aveva a che fare con quell’episodio e aveva anche un significato politico di proporzioni maggiori, ingigantito dalla coincidenza fra la partenza del “baby Catholic” per l’India e quella del papa gesuita per il cielo.
Quello che è arrivato a Roma nella Pasqua della Chiesa e di Bergoglio non era semplicemente il vicepresidente degli Stati Uniti. J. D. Vance è venuto come interprete di un’ipotesi politico-religiosa di grande portata. Un interprete promettente e pieno di risorse, giacché il suo definirsi un “novizio” del cattolicesimo gli consente di giocare le proprie “carte” (il suo capo direbbe così) con quel mix di umiltà e di arroganza che potrebbe essere scambiato per la fortuna del principiante al tavolo da poker.
In realtà, però, non è tutto così semplice né così banale. Vance non è venuto a Roma, è calato su Roma. E anche se nessuno ignora la distanza tra il Baby Catholic nordamericano e la corte del figlio di Bertrada, nella sua audacia c’è qualcosa che evoca le politiche e le pretese religiose di Carlo Magno.
L’opzione carolingia: genealogia di una pretesa imperiale
Com’è noto, dopo il secondo Concilio di Nicea, che pose fine alla stagione iconoclasta a Bisanzio, nel 787, la corte franca contestò la legittimità di quella assise: essendo stato presieduto da una donna, la basilissa Irene, non poteva certo ritenersi valido. Il concilio di Francoforte del 794 respinse così le decisioni prese qualche anno prima a Nicea e pretendeva che il papa rifiutasse l’adesione al Concilio, prendendo atto che esisteva un mondo in cui la sacralità imperiale si era dislocata per traslatio in Occidente e che quel che restava al di là del limes dell’alfabeto latino venisse considerato residuale decadenza. Ma se l’Oriente aveva perso la titolarità dell’impero cristiano, ciò significava che l’altro, quello franco-latino, ne era il vero erede. Rigenerando una legittimità politico religiosa che aveva nei teologi di corte i propri capisaldi, Carlo Magno fu incoronato imperatore — per la prima volta in Occidente dalla destituzione di Romolo Augusto nel 476 — nel corso della messa di Natale del 25 dicembre 800.
Alla base di questa pretesa carolingia c’era una concezione della legittimità del potere come tale —“Fideles Dei et nostri”, chiamava i suoi sudditi Carlo —, una forma di letteralismo biblico — so che Agobardo di Lione non è più conosciuto, ma è importante lo stesso —, e qualche tentativo di dare nuovi nomi alle cose, inclusa una che si inizia a chiamare “potestas civilis”. Insomma un modello di cristianità che eredità il bilanciamento fra due riti nei quali è la sovranità imperiale che muove e tutela il papato: è l’imperatore che conferma il papa eletto, è il papa che consacra l’imperatore.
È un modello, dice la storia, destinato a sbiadire presto per essere sostituto, con la riforma gregoriana, da un diverso assetto del rapporto simbiotico fra potere politico e autorità religiosa che avrà nel papa il garante del giuramento, come sacramento del potere, là dove prima era l’autorità dell’imperatore che validava l’elezione del papa.
Tutto questo sembra forse molto lontano. In fondo J. D. Vance non si è fatto incoronare Imperatore dei Romani né lo ha chiesto per il suo capo; e perché non ci fosse nessun equivoco il papa non gli ha concesso nulla — tranne tre ovetti kinder per i bambini.
Appena ricoverato, Francesco aveva reagito in modo caustico a una gaffe di Fox News, che, in sostanza, affermava che Dio sta con Trump perché prima gli avevano sparato e si era salvato, e poi era stato attaccato dal papa con una lettera durissima contro le deportazioni, e il papa era praticamente morto. Il papa aveva ricevuto al Gemelli Giorgia Meloni — impeccabile, contrariamente al vicepresidente americano, nel dir nulla sulle condizioni del papa e le ragioni della visita perché arrivasse alla Casa Bianca la smentita più secca e diretta della sua morte, che da quando è sopraggiunta ha invece riacceso quella retorica…
Quella di Vance è stata una calata non priva di elementi che — nobilitandoli un po’, ça va sans dire — costruiscono un’opzione che potremmo definire “carolingia”.
Sarà questa la base della presenza eclatante della Casa Bianca al funerale e — in modo meno esplicito ma forse per questo più pernicioso — al conclave.
Si potrebbe descrivere come un’opzione che offre al papato una protezione, un diritto di tribuna e un’amplificazione che a papa Francesco importavano meno di nulla, ma che potrebbero far venire qualche tentazione al collegio cardinalizio.
La fede di J. D. Vance
J. D. Vance è passato da Roma come voce di un cattolicesimo non privo di pensiero.
La sua non è la rozzezza brutale di Steve Bannon, apocrisario del proto-Trump per gli affari religiosi e teologo di un ecumenismo “nero” saldamente ancorato al nome dell’odio fobico cristiano di diverse confessioni.
Dietro il suo dirsi “cattolico” — come ha dimostrato con il suo discorso alla conferenza di Monaco e con i suoi interventi su un suprematismo definito con i termini dell’ordo amoris chiaramente respinti da papa Francesco — ci sono alcune idee di Rod Dreher, una cultura che seleziona “valori” e trascura i “principii”, un mondo religioso parte della complessa galassia tradizionalista.
C’è ugualmente la forza di una esperienza personale che traspare dal best seller Hillbilly Elegy — una autobiografia di enorme importanza per capire cosa accade quando approda al cattolicesimo, per conversione o per ritorno, una sensibilità religiosa originale.
C’è ugualmente una sintonia pur non perfetta con l’arcivescovo Timothy Broglio, l’ordinario dell’esercito americano eletto presidente della conferenza episcopale US.
Questa spiritualità à la Vance non rientra nelle categorie del “conservatorismo” o del “tradizionalismo”. Non si identifica con l’elefantiasi di un “io” che nasconde la paura dell’altro e si autorizza all’indifferenza e all’odio. Non è nemmeno quella di un “noi” spesso invocato come un rimedio al troppo “io”, come se non ci fossero tanti noi — i noi senza loro, i noi senza un tu.
È una cultura religiosa — quella che con J. D. Vance ha sfiorato Roma — in cui il perfezionamento “morale” dell’io è premessa abilitante a imporre la dittatura di un “noi e delle sue voglie” — si potrebbe dire parafrasando Ratzinger, che diventa sul piano pubblico sovranismo, nazionalismo e arbitrio.
Vance, il suo entourage teologico politico, sono calati su Roma con una proposta e una minaccia.
Si licet Magnum componere Vance, la sua è una proposta neo-carolingia. Il vicepresidente non ha convocato un Concilio a Francoforte né ha reclutato falangi di teologi visigoti, ma in fondo pensa che la Chiesa debba prendere atto che un mondo sia finito. Per lui, il cristianesimo unito, quello con polmoni a Oriente e a Occidente, non esiste più. Al posto dell’ecumenismo che sperava l’unità visibile delle chiese, l’opzione neo-carolingia vede e sponsorizza un “millefoglie” transconfessionale nel quale un protestante e un cattolico omofobi sono più vicini di quanto non lo siano ai loro fratelli per confessione ma di diverso orientamento ideale.

La Chiesa, il conclave e la tenaglia imperiale
La minaccia è quella di cui tutti hanno compreso la portata. Questa amministrazione sa essere gentile con i vassalli sottomessi, ma sa essere violentissima e brutale con chi resiste. Le visite di Meloni e Zelensky allo Studio Ovale, da questo punto di vista, mostrano due estremi opposti.
Per decenza e forse anche per rispetto la scelta fra l’una e l’altra postura è stata offerta alla santa Sede a domicilio, al papa che stava per morire e al collegio che gli darà un successore.
Lo ha capito il segretario di Stato Pietro Parolin che, alla vigilia dell’arrivo di Vance, in un’intervista a La Repubblica, ha tirato fuori dagli armadi della terza loggia la “argenteria diplomatica” del Vaticano. La formula paroliniana è impeccabile: “spetta agli stessi ucraini decidere che cosa vorranno negoziare o eventualmente concedere” perché la pace “giusta” ci sarà solo se sarà “fondata sul rispetto della giustizia e del diritto internazionale”.
Parole che nello spettro acustico di Vance non sono nemmeno percepibili. Mentre dietro di lui si staglia l’ombra inquietante di Elon Musk — del suo denaro, dei suoi esperimenti, delle sue idee. Tutti sanno che nel suo regno le persone più spregiudicate possono usare il ricatto denigratorio o la lesione calunniosa contro chi vogliono, certi di una impunità sostanzialmente assoluta — e che il conclave sarà il lunapark di queste leve.
Viaggiando dal protestantesimo all’ortodossia, nel suo breve periodo in cui si sentiva cattolico romano, Rod Dreher fece rumore con The Benedictine Option, un libro di nessun valore che immaginava un “medioevo” inesistente, ricalcato sulle illusioni di un cattolicesimo minoritario, purificato e controculturale. L’Opzione Carolingia di Vance non è meno confusa; ma a differenza di Dreher non è stata formulata da un scrittore in transito confessionale, bensì dal vice di un presidente anziano e spesso confuso di cui potrebbe essere l’erede e di cui può già costituire l’eredità.
E questa operazione sembra già cominciata. Dare alla tribù trumpiana un potere lungo come l’inerzia sgomenta dei democratici, legittimando alle fonti romane e cattoliche una nuova potenza barbarica.
Questo costituisce per il successore di Francesco uno — o forse il principale — banco di prova.