Una storia dei ricchi in Occidente

Nel suo libro As Gods Among Men: A History of the Rich in the West, Guido Alfani cerca di capire chi sono i ricchi in Occidente come gruppo socio-economico, la loro evoluzione nei secoli dal Trecento ai nostri giorni ed il loro ruolo nella società.

Favoriti dalle politiche fiscali dagli anni Settanta in poi, per quanto tempo ancora i ricchi potranno permettersi di influire così fortemente sulle politiche pubbliche prima che il demos richieda che vengano ostracizzati?

Guido Alfani, As Gods Among Men: A History of the Rich in the West, Princeton, Princeton University Press, 2023, 440 pagine, ISBN 9780691215730, URL https://press.princeton.edu/books/hardcover/9780691215730/as-gods-among-men?srsltid=AfmBOoqoaBphX6LzHgMhmuZGNN9kuiaGNQ4E_Brk2uv0MbX8nLIjFhCv

La più ovvia minaccia a un sistema politico democratico è quella rappresentata da [chi può] comprar[si] sia la politica sia la giustizia. […]. A un certo punto, un simile regime diventa una plutocrazia manifesta. Tutto il potere reale sarà nelle mani dei pochi, non dei molti. Queste non sono parole di un manifesto di Occupy Wall Street o di un libro di Thomas Piketty, ma del principale editorialista del Financial Times, Martin Wolf, nel dolente libro (The crisis of democratic capitalism, 2023) che organizza l’analisi svolta nei suoi articoli dell’ultimo decennio.

La plutocrazia è il regime politico nel quale governano i ricchi. Nella Politica Aristotele lo chiama oligarchia, governo dei pochi, ma chiarisce che il tratto distintivo non è il numero ma la ricchezza di chi detiene il potere (ed evocare questo come kratos, e non arché, dà alla parola ‘plutocrazia’ anche una coloritura più ruvida). Se le politiche pubbliche non interverranno, prevedono Wolf, Branko Milanović e altri, le società occidentali degenereranno in plutocrazie. «In larga misura», secondo Wolf, «gli Stati Uniti lo sono già». Parole, queste, pubblicate un anno e mezzo prima del voto negli Stati Uniti, quando la rielezione di Donald Trump pareva ancora evitabile.

Ma chi sono i ricchi, che minacciano di prendere il controllo delle nostre società? Quanti sono? Quanta ricchezza hanno? Come l’hanno acquisita, e poi mantenuta? Che ruolo hanno nella società? E quale è stata l’evoluzione di lungo termine di queste variabili?

Il libro

A queste domande la ricerca scientifica ha sinora dedicato poca attenzione. Le risposte disponibili le offre Guido Alfani, storico economico dell’Università Bocconi di Milano, in un libro indispensabile: As Gods Among Men: A History of the Rich in the West (Princeton University Press, 2023; 420 pagine; la traduzione dei passi citati è mia). «Un’enciclopedia», lo ha definito Milanović durante una presentazione milanese nel marzo scorso.

Il titolo, bellissimo, si ispira al passo di un filosofo francese del Trecento, Nicole Oresme, che nell’epigrafe dell’ottavo capitolo Alfani giustappone a simile commento di Thomas Piketty. I «super ricchi» – superabundantes, nel latino di Oresme – hanno un potere talmente superiore agli altri cittadini che tra questi essi sono «come Dio è tra gli uomini» (p. 213; le «città democratiche» dovrebbero esiliarli o bandirli, prosegue Oresme). Due pregi di questo libro sono proprio questi: esaminare anche il ruolo sociale e politico dei ricchi, e guardarlo nel lunghissimo periodo. 

I difetti di questo libro sono di presentazione. Alcuni li ascriverei all’editore più che all’autore, e visibilmente derivano dal necessario ma non sempre riuscito tentativo di rendere il libro più accessibile. Spesso è un problema di coerenza: di Platone e Aristotele è detto che erano filosofi, per esempio, ma non di Socrate. E il lettore al quale è stato precisato che Dante è «il grande poeta italiano del tardo tredicesimo secolo» (p. 178), o che lo Stato di Firenze era situato in Toscana (p. 20), è poi lasciato da solo di fronte alle «fiere internazionali di cambio di Bisenzone» (p. 148; non è impossibile immaginare che così i notai milanesi della fine del Cinquecento chiamassero Besançon, ma ovunque fosse quella fiera qualche lettore si chiederà perché mai, e in quale senso della parola, tra il 1575 e il 1607 qualche centinaio di vedove milanesi vi abbia «investito» dei soldi).

La rassegna della letteratura riassunta nell’introduzione mostra che se gli studi sulle classi sociali, sulla disuguaglianza, o anche su singole persone, famiglie o dinastie ricche sono relativamente abbondanti, sono molto più rari quelli dedicati ai ricchi intesi come un gruppo socio-economico. Inoltre le poche analisi sistematiche tendono a concentrarsi su singole parti dell’Occidente, senza comparazione internazionale, o sui soli vertici della distribuzione della ricchezza, e soprattutto ignorano il periodo precedente la rivoluzione industriale. Il libro di Alfani dimostra invece che una prospettiva plurisecolare «ci permette di rilevare tratti della società che rimarrebbero altrimenti nascosti» (p. 6).

In questa recensione darò un’idea dell’ampiezza e della profondità dell’analisi, citando alcune delle numerose stime che suppongo solo gli specialisti conoscano, e sarò più breve nel discutere le tesi del libro sulle cause e gli effetti della concentrazione della ricchezza, e sul ruolo dei ricchi nella società.

I ricchi nel lunghissimo periodo

Il primo capitolo descrive i confini, il metodo e le fonti dell’analisi. Plausibilmente, l’autore si concentra più sulle famiglie che sugli individui e le dinastie. Definisce la ricchezza come quella materiale netta. Copre il periodo dal Trecento a oggi, con frequenti accenni ai secoli precedenti. E fissa due criteri per circoscrivere l’oggetto dell’analisi. Uno è la quota di ricchezza posseduta dai cinque percentili più alti della popolazione, o da quello superiore (il famoso «top 1 per cent»). L’altro, più originale, serve a contare i ricchi: il confine tracciato per separarli dal resto della popolazione è il disporre di una ricchezza superiore a dieci volte la ricchezza mediana nella società di riferimento.

«L’evidenza storica ora disponibile suggerisce che la concentrazione della ricchezza è un processo continuo che ha progredito pressoché ininterrottamente dall’antica Babilonia al Medioevo e sino a oggi» (p. 36). Le sole nette e generali interruzioni coincisero con la peste del Trecento e le guerre mondiali del secolo scorso. Un sensibile calo nella concentrazione della ricchezza seguì anche la guerra dei Trent’anni, ma gli effetti furono più deboli e limitati all’area tedesca.

L’evoluzione degli ultimi due secoli, che segna un picco alla vigilia della Prima guerra mondiale e una forte ripresa dopo gli anni Settanta, è piuttosto nota. Preferisco parlare del periodo precedente. Nella città (toscana) di Prato, per esempio, attorno al 1300 i cinque percentili superiori della popolazione possedevano il 55,3% della ricchezza totale, e il percentile superiore possedeva il 29,2%. Sempre poco prima della peste nera, nelle terre italiane della Contea di Savoia le due quote erano 47,4% e 22,3%, rispettivamente.

Per comparazione, nel 2020 in Italia le medesime quote erano 40,4% e 22,2%.

Le stime citate da Alfani – relative all’Inghilterra, le Puglie, il Piemonte, l’area tedesca, e gli Stati di Venezia e Firenze – indicano che nell’arco del secolo successivo alla peste la concentrazione della ricchezza scese ai livelli più bassi sinora osservati, e in seguito risalì lentamente. In Toscana e Piemonte, per esempio, la quota di ricchezza dei cinque percentili superiori tornò al livello precedente la peste solo nel Settecento.

In queste stime spicca l’Inghilterra. Già all’inizio dell’Ottocento il 5% più ricco della popolazione possedeva oltre il 70% della ricchezza totale, e l’1% più ricco il 55%. Per comparazione, nell’area tedesca le due quote allora erano circa il 36% e il 17%, rispettivamente, e due decenni prima nelle colonie americane della Corona britannica, che si preparavano a rendersi indipendenti, esse erano 41,1% e 16,5%.

La disomogeneità dei dati spiega solo una piccola parte del divario. La ragione principale, argomenta Alfani, è che l’Inghilterra era già «ricca abbastanza» per potersi permette livelli di disuguaglianza così elevati (p. 43). L’idea richiama gli studi – di Milanović, Alfani stesso ed altri – sull’«inequality extraction ratio»: poiché tutti devono sopravvivere, più una società è ricca più grande sarà la quota della ricchezza complessiva che, non consumata per tenere in vita la popolazione, potrà essere consegnata alle élite (oltre al livello della disuguaglianza, pertanto, è interessante guardare anche a quanto esso disti dal livello massimo che la ricchezza della società consentirebbe).

Infatti, con la prima e la seconda rivoluzione industriale anche altrove la concentrazione della ricchezza sale verso i livelli inglesi, sino al picco di inizio Novecento. In Europa – il dato è una media tra Francia, Regno Unito e Svezia – alla vigilia della Prima guerra mondiale l’1% più ricco della popolazione controllava circa il 65% della ricchezza totale. Gli Stati Uniti erano allora più egualitari – la quota dell’1% più ricco era di venti punti percentuali più bassa – ma dopo la metà del secolo scorso lo saranno molto meno.

Una variabile politica

Quali le ragioni della continua e pressoché monotonica crescita della concentrazione della ricchezza in Occidente tra la peste del Trecento e il 1914, e poi nell’ultimo mezzo secolo? L’industrializzazione, à la Kutznets, e più in generale lo sviluppo economico non possono da soli spiegare il fenomeno, sostiene Alfani. In epoca preindustriale egli individua alcune cause sufficienti, nessuna delle quali appare necessaria. Oltre allo sviluppo economico egli richiama le dinamiche demografiche, i mutamenti istituzionali, la proletarizzazione dei piccoli proprietari agricoli, e soprattutto l’apparizione dello Stato militare-fiscale: perché i sistemi di tassazione che finanziavano guerre, eserciti e accresciute funzioni pubbliche erano regressivi, e iniziarono a muovere verso la progressività solo nel corso della seconda metà dell’Ottocento. In presenza anche solo di una di queste cause la disuguaglianza di ricchezza tendeva a crescere, per inerzia.

L’importanza del tenore regressivo o progressivo dell’imposizione fiscale è dimostrata dall’evoluzione della concentrazione della ricchezza durante gli ultimi cent’anni. Oltre alla distruzione di parte del capitale fisico e finanziario delle élite durante il trentennio delle due guerre mondiali, il forte e duraturo declino della concentrazione della ricchezza successivo al 1914 fu sospinto dalla diffusione di sistemi impositivi spesso fortemente progressivi. Specularmente, la ripresa della concentrazione della ricchezza dopo gli anni Settanta coincise con una pressoché generale riduzione della progressività del prelievo. Alfani offre questo quadro (p. 55):

Nel 1975, l’aliquota più alta sui redditi da lavoro era 83% nel Regno Unito, 70% negli Stati Uniti, 72% in Italia, 60% in Francia, 56% in Germania e 47% in Canada. Venticinque anni dopo […] la situazione era invertita, con un’aliquota superiore del 61% in Francia, del 60% in Germania, del 54% in Canada, del 51% in Italia, del 48% negli Stati Uniti e del 40% nel Regno Unito. Le aliquote più alte delle imposte sulle successioni […] seguirono una simile traiettoria.

Il rilievo di questa variabile eminentemente politica è sottolineato spesso, ed è strettamente legato al punto sul quale concluderò: il ruolo politico dei ricchi.

Il numero dei ricchi

Quanti erano i ricchi, e quanti sono? Il criterio per contarli, ho detto, è possedere una ricchezza superiore a dieci volte la mediana. Le stime relative alle Fiandre, le Puglie, il Piemonte, l’area tedesca, e gli Stati di Venezia e Firenze suggeriscono che sino alla metà del Cinquecento i ricchi generalmente rappresentassero tra l’1% e il 6% della popolazione. Poi si affollano, variamente: a Venezia, per esempio, nel 1750 erano il 12% della popolazione.

Di nuovo, Alfani nega che questa variabile sia legata alla crescita economica. Tra il Seicento e la rivoluzione industriale nella Firenze declinante il numero dei ricchi salì significativamente più in alto e più rapidamente che in Piemonte, la cui economia era più dinamica, perché le élite fiorentine furono in grado di rafforzarsi «agendo in modo sempre più rapace verso gli strati più poveri [della popolazione]» (p. 59).

Per il periodo successivo alla rivoluzione industriale simili stime sono per ora impossibili, perché i dati tendono a limitarsi all’apice della piramide. Quelli che usano le soglie più basse – un milione di dollari – attestano che nel 2020 i milionari statunitensi erano l’8,8% della popolazione adulta, quelli francesi il 4,9%, quelli britannici il 4,7%, quelli tedeschi il 4,3%, e quelli italiani il 3%. Percentuali che nonostante le recenti crisi sono in forte crescita nelle economie più forti: rispetto al 2012 il numero dei milionari statunitensi e tedeschi è quasi raddoppiato. All’inverso dell’esempio seicentesco, paiono invece relativamente meno «rapaci» – o capaci – le élite delle economie più deboli: tra il 2012 e il 2020 la percentuale dei milionari inglesi e italiani cresce di circa un terzo solamente. In Francia è stazionaria.

Come i ricchi hanno acquistato e mantenuto i loro patrimoni

Nobiltà, commercio e manifattura, finanza: nei sette secoli considerati da Alfani sono queste tre le vie che conducono alla ricchezza. Molto meno le professioni liberali. E al vertice le ultime due si fondevano spesso con la prima, quando i grandi mercanti e banchieri erano nobilitati.

La trattazione di questi percorsi occupa la parte maggiore del libro, è ricca di dettagli, ed è spesso affascinante. Come nel racconto delle vicende di Gracia Nasi, vedova portoghese di tradizione ebraica che a metà del Cinquecento prese le redini della banca di famiglia e mosse tra Lisbona, Anversa, Aquisgrana, Lione, Venezia, Ferrara e Costantinopoli difendendo se stessa, la sorella, sua figlia, e i loro capitali da pretendenti interessati – incluso un bastardo della Casa di Aragona, proposto da Carlo V – e persecuzioni religiose. Qui mi limiterò a due punti, che restano rilevanti oggi.

Qualunque fosse la via intrapresa, chi eccelleva era generalmente prossimo al potere politico, spesso dopo l’aspirata nobilitazione, e poteva avvalersene per rafforzare sia la propria posizione patrimoniale sia la saldezza della dinastia che immaginava dopo di sé. Sempre indipendentemente dalla via intrapresa, era spesso decisivo il regime delle successioni ereditarie, perché tipicamente le generazioni successive al fondatore (o rifondatore) del casato o dell’impresa erano ricche soprattutto in virtù dell’eredità ricevuta. Nell’epoca preindustriale la variabile determinante era il regime legale delle successioni, che poteva essere di primogenitura o più paritario, e, nel secondo caso, poteva spesso essere alterato da istituti – come il fedecommesso – che ancoravano il patrimonio alla linea primogenita maschile. In seguito, col tramonto della primogenitura e di questi istituti, cresce l’importanza delle politiche di imposizione, delle quali ho appena detto.

Queste pagine di Alfani dimostrano che la ricchezza è un problema eminentemente politico. Per la semplice e ovvia ragione che le politiche pubbliche hanno un’influenza decisiva sul crescere o decrescere della sua concentrazione in poche mani; e queste, se forti, possono incidere sull’orientamento di quelle stesse politiche pubbliche.

L’incerta posizione dei ricchi nella società

Dopo la crisi finanziaria del 2007–8, insieme alla disuguaglianza si è imposta alla nostra attenzione anche la domanda se la crescente concentrazione della ricchezza danneggi la crescita economica. Un argomento è che i ricchi consumano relativamente meno delle altre famiglie, deprimendo la domanda aggregata. Un altro, complementare, è che ne soffre anche il motore della crescita di lungo periodo, l’innovazione (processo conflittuale, secondo la celebre tesi di Joseph Schumpeter, che minaccia gli interessi delle élite perché procede per «distruzione creatrice», con nuove innovazioni che continuamente soppiantano le vecchie e rivoluzionano i rapporti di forza tra vecchi e nuovi innovatori). Nella sua storia economica del «lungo» ventesimo secolo, per esempio, Bradford DeLong commenta così la decelerazione degli scorsi quattro decenni: «una crescita rapida come quella osservata tra il 1945 e il 1973 richiede la distruzione creatrice: e poiché [in questo processo] è la ricchezza dei plutocrati che viene distrutta, è difficile che essi lo incoraggino».

Alfani menziona gli effetti economici della concentrazione della ricchezza, citando entrambi gli argomenti, ma la sua attenzione è concentrata sul ruolo dei ricchi nella società. Inoltre entrambi quegli argomenti restano controversi, credo (anche perché entrambi incrociano la più generale domanda se – o meglio, in presenza di quali condizioni – le questioni di efficienza possano essere separate dalle questioni di distribuzione). Se però assumiamo che il secondo argomento regga, come pare plausibile, la questione diventa precisamente quella che Alfani affronta, ossia come i «plutocrati» si difendano dalla distruzione creatrice. Di nuovo, è una questione politica.

Tornando alle tre vie alla ricchezza, nell’antico regime la posizione della nobiltà era salda e chiara. La popolazione accettava i privilegi degli appartenenti a quell’ordine e la trasmissione ereditaria di titoli e averi, iscrivendoli in un disegno che diffusamente, seppure vagamente, era creduto «divino» (p. 70).

Nel più incerto spazio tra la plebe e la nobiltà vivevano i mercanti. Sulla scorta di autorità come San Tommaso, sino al Quattrocento i ricchi erano considerati peccatori «quasi per definizione», e, come già suggeriva il passo di Oresme citato sopra, si «temeva che la loro stessa presenza potesse destabilizzare la società» (pp. 214–15). Da ciò, per esempio, le frequenti leggi dei comuni italiani contro i «magnati», come gli Ordinamenti di Giustizia fiorentini del 1293. In seguito gli umanisti iniziarono ad affermare la virtù e anche l’utilità sociale dei ricchi, ai quali fu sostanzialmente assegnata la funzione di «deposito privato di risorse finanziarie» alle quali la comunità poteva ricorrere in caso di bisogno. Nel 1434, per esempio, Cosimo de’ Medici «salvò Firenze dalla catastrofe finanziaria» (p. 131). E se divenne signore della città fu anche grazie alle risorse che spese in opere di fatto pubbliche, fondando la Biblioteca medicea, per esempio, o il Convento di San Marco: questa infatti è un’altra ragione citata dagli autori contemporanei per sostenere l’utilità sociale dei ricchi.

Queste funzioni dei ricchi, che furono certamente motivate da ragioni di interesse, ma erano crescentemente ritenute doverose, si proiettano sino all’epoca contemporanea. Come Cosimo il Vecchio cinque secoli prima, per esempio, nel 1907 John P. Morgan «salvò il suo paese dalla bancarotta» – grazie sia alle sue «enormi» ricchezze, sia alla sua influenza (p. 229). E similmente la progressività fiscale, che sale decisamente nel periodo delle due guerre mondiali, è il modo col quale i ricchi del secolo scorso adempivano a quella funzione di deposito privato nell’interesse pubblico, che cinque o sei secoli prima contribuì alla loro stabile legittimazione sociale.

La forte riduzione della progressività fiscale negli scorsi decenni segna dunque una discontinuità in questa storia plurisecolare, e può rappresentare un rischio per i ricchi: oggi essi «stanno sostanzialmente rifiutando un ruolo che servì a giustificare la stessa esistenza di significative disparità di ricchezza», e stanno così «alimentando risentimento e rendendo incerto il loro stesso ruolo nella società» (228). Il paradosso, naturalmente, è che questa discontinuità fu dovuta (anche) all’influenza politica dei ricchi.

Il potere politico dei ricchi

Quando si volge al loro peso politico l’analisi di Alfani si concentra non sui ricchi ma sui «supericchi», la cui influenza politica può entrare in forte tensione col principio dell’uguaglianza dei diritti politici. I paragoni storici rilevanti sono dunque le società che in qualche misura riconoscevano quel principio, come la democrazia ateniese, i comuni medievali, e le repubbliche patrizie della prima età moderna. Nella prima il rischio che cittadini eminenti per estrema ricchezza potessero porsi al di sopra della legge motivò l’istituzione dell’ostracismo, che per la medesima ragione adottarono anche diversi comuni, in forme diverse (ricchissimo, per esempio, Cosimo il Vecchio fu bandito nel 1433).

Tralascio le repubbliche patrizie per balzare avanti di qualche secolo, dopo che le funzioni semi-pubbliche sopra ricordate avevano assicurato anche ai ricchi non nobili quella legittimazione sociale che mai ebbero nel mondo medievale. Se nell’Ottocento i parlamenti si riempiono di quelle persone, con l’inizio del Novecento la loro influenza politica si indebolisce, cala fortemente dopo il 1945, e dopo gli anni Novanta risale. Questa evoluzione è più descritta che spiegata. Ma alla luce della deriva oligarchica che osserviamo, il valore della ricostruzione di lungo periodo offerta da Alfani è anche quello di ricordare la «eccezionalità storica» dei regimi politici egualitari che sorsero dopo il 1945 (p. 268). Il rischio che l’eccezione si chiuda, come una parentesi, non deve essere sottovalutato: i casi di Silvio Berlusconi e Donald Trump, miliardari e capi di governo o di stato, che Alfani esamina, suggeriscono che non siamo distanti dalle condizioni che secoli fa giustificarono il ricorso a quell’istituto, l’ostracismo, che oggi riteniamo inammissibile (e giustamente! ma la teoria politica repubblicana offre soluzioni più accettabili ed efficaci, come tento di argomentare in un libro che uscirà tra qualche mese). 

Tra i tanti paralleli che legano questi due personaggi, tra l’altro, uno illustra quanto deboli possano rivelarsi anche i più indiscussi limiti istituzionali al  ruolo politico dei “superricchi”. Berlusconi fu condannato in via definitiva per frode fiscale, ed espulso dal Senato. Ma nel 2019 fu eletto nel parlamento europeo (e tuttora il suo nome appare nelle schede elettorali, sotto il simbolo del partito che fondò e sempre dominò). La traiettoria di Trump è simile: dopo varie vicissitudini giudiziarie, una valanga di voti ha riabilitato un personaggio che tre anni fa sembrava finito. Il tentativo di ostracizzare Berlusconi o Trump, per via legale o politica, si è infranto anche sulla loro enorme ricchezza, oltre che sulla debolezza dell’offerta politica dei loro oppositori. Né i loro problemi giudiziari né la loro ricchezza sono stati visti dai loro elettori come un problema, ma casomai come una ragione per sostenerli. 

Lo sguardo di lunghissimo periodo di Alfani è illuminante, e indispensabile, sui rapporti tra i ricchi e l’imposizione fiscale. I sistemi spesso fortemente regressivi dell’età moderna, che deliberatamente consolidavano il potere delle élite, non destabilizzavano quelle società: sia perché la disuguaglianza era sancita dall’ideologia prevalente, e le funzioni semi-pubbliche dei ricchi la giustificavano, sia perché in termini assoluti i ricchi pagavano più di ogni altro (a Venezia nel 1550 il 5% più ricco della popolazione versava all’erario poco meno della metà di tutto il prelievo fiscale, nel 1750 poco meno del 60%). Costruito dalle sue élite, quel sistema era internamente coerente e generalmente in equilibrio.

Un diverso equilibrio sorge tra la fine dell’Ottocento e il 1945, col suffragio universale, lo stato sociale, la progressività fiscale, e una sensibile riduzione della concentrazione della ricchezza. Dopo gli anni Settanta la progressività fiscale prese però a calare, e le disparità di ricchezza a crescere. È molto probabile, secondo Alfani, che a questa svolta contribuì la crescente influenza politica dei supericchi: scettici sull’efficienza dello stato, essi dedicano più volentieri parte delle proprie sostanze alla filantropia. Alfani ricorda loro che così facendo essi «minano la propria posizione sociale». L’argomento è tanto semplice quanto potente: dopo secoli di avversione, i ricchi trovarono un posto nelle società europee «precisamente perché permisero al pubblico di beneficiare delle loro risorse private», e ciò non tanto tramite la carità o la filantropia, quanto perché «erano pronti a farsi tassare quando la collettività aveva urgente bisogno di risorse aggiuntive» (p. 284; il corsivo è di Alfani). Ad esempio, durante la pandemia di COVID-19, i ricchi non accettarono nuove tasse,  suscitando forti critiche.

Il caso degli Stati Uniti pare paradigmatico. Se la filantropia aveva lo scopo di rafforzare la posizione sociale dei ricchi, a essa pare essere rimasto indifferente l’elettorato popolare, che rivolge la propria collera molto più contro l’establishment politico e intellettuale di Washington, e contro quel segmento delle élite economiche che a esso è associato, che non contro Trump ed  Elon Musk.

Se dunque le politiche del periodo neoliberale hanno giovato ai ricchi, e ne hanno creato molti, i loro effetti potrebbero alimentare argomenti e atteggiamenti analoghi a quelli di San Tommaso, Oresme e dei loro contemporanei. Tralasciando quelle di giustizia, più soggettive, elementari ragioni di prudenza potrebbero condurre i supericchi a chiedersi se la difesa a oltranza di quelle politiche sia nel loro interesse di lungo periodo. È altrettanto evidente, tuttavia, che simili considerazioni resteranno inoperanti in assenza di consapevole e mirata pressione politica. 

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