La malattia del papa è per la vita vissuta del popolo cristiano una preoccupazione di tipo squisitamente “famigliare”. Da un lato, come in ogni famiglia, si chiede ai medici una verità e una speranza; dall’altro nessun figlio o figlia ama che gli estranei chiedano dettagli e ai curiosi rispondono con frasi generiche o monosillabi.

Una contraddizione

C’è però una contraddizione che si è resa visibile in queste  settimane in cui papa Francesco è in ospedale. Ciascun cattolico, infatti, è insieme famigliare per un verso ed estraneo al papa. Per un verso vorrebbe sapere bene cosa accade e per farlo deve decifrare il cifrato ecclesiastico d’una comunicazione, distillata in più di una distilleria vaticana. Per altro verso cerca e trova nei giornali il solito vaticanista che amplifica le minimizzazioni di corte, liquida come fantasie questo o quel dettaglio sulle terapie, e – con virtuosismi oggettivamente inferiori a quelli di Navarro Vals – ci spiega che un anziano paziente di vivere senza gli anestesisti e i medici (fra i quali non si è mai sentito d’uno pneumologo) ammessi al  suo capezzale, anziché riposare, “lavora”, per lo meno del lavoro che fa qualche vescovo in qualche diocesi.

Finché il 6 febbraio arriva un audio, che in una famiglia normale nessuno avrebbe mai fatto sentire: 27 secondi dolenti irrompono su piazza san Pietro dove si recita il rosario la sera del 6 febbraio. Dicono l’angosciante fame d’aria di un anziano vescovo di Roma – unico vescovo della sua età in carica nella chiesa cattolica.

Un ricovero così lungo e una situazione clinica così incerta, però hanno avuto tre effetti, ovattati dallo stile ecclesiastico: è iniziato il conclave con un pre-conclave piuttosto standard;  è entrato in scena creato un vuoto di potere che potrebbe rivelarsi più complesso del solito; rimangono sullo sfondo alcuni nodi di matrice bergogliana ed altri di matrice generale tutt’altro che semplici.

Prove di pre-conclave

Sull’inizio del pre-conclave il papa stesso ha fatto dell’ironia, beffandosi pubblicamente di “chi lo voleva morto”. Anche questa volta, riferisce Giorgia Meloni ricevuta nei primi giorni di ricovero, il papa vi ha fatto cenno, anche se il destinatario dello sberleffo stavolta era Donald Trump — contro le cui politiche di deportazione aveva scritto una lettera ai vescovi statunitensi di inusitata durezza, seguita dalla denuncia presentata dalla conferenza episcopale contro l’amministrazione. E nel pubblico dibattito non è mancata la voce di qualche amico vero o travestito che si sdegnava per un clima che è parte integrante della pesantezza istituzionale della chiesa cattolica.

La realtà delle cose, infatti, è più semplice di quanto non appaia: il collegio cardinalizio, sul quale incombe la guida della chiesa quando la sede romana è vacante, ha ormai solo un compito elettorale: utero artificiale di una dinastia senza figli, i cardinali non possono compravendere voti, negoziare promozioni o trafficare del dopo a papa vivo. Ma devono essere pronti, sapendo che le norme del conclave sulla reclusione che servivano a garantire una elezione spedita sono ormai surclassate dalla pressione dei media e dalla paura (l’unico ospite non ammesso al conclave) che la TV dica che la chiesa è divisa… Il conclave più lungo dell’ultimo mezzo secolo ha avuto 8 votazioni, in due giorni (Giovanni Paolo II), gli altri in 4 scrutini (Giovanni Paolo I e Benedetto XVI) o 5 (Francesco). 

La cosa che assomiglia di più al pre-conclave in cui oggi ci si trova, è il momento che precede il Palio di Siena.

Alberto Melloni

C’è quindi una tendenza che potrà essere classificata come convergenza o conformismo, ma che certo vede prevalere in una parte non piccola degli elettori una emozione e che compensa la quota dei 2/3 degli elettori, impensabile per un mondo democratico dove basta la maggioranza di platee di votanti sempre più piccole. E quanto più si pensa e si ragiona prima sull’agenda della chiesa di domani, sulla invulnerabilità di candidati esposti dai social a qualsiasi calunnia e a qualsiasi accusa, sul capitolato teologico e istituzionale, meglio è: e non c’è nessun rischio per un motivo “senese”.

Volendo forzare una analogia, bisognerebbe dire che la cosa che assomiglia di più al pre-conclave in cui oggi ci si trova, è il momento che precede il Palio di Siena. Prima della gara infatti c’è un rito di ingresso dei cavalli fra i canapi – i due grossi cordoni che segnano lo spazio di partenza. Viene provato molte volte e anche nel giorno della corsa deve essere ripetuto più e più volte per qualche errore: giacché quello è l’unico momento in cui ci siano delle regole tassative: dopo, entrati fra i canapi e data la “mossa”, tutto è lecito e nulla mette in discussione la vittoria di una contrada.

La malattia del papa è una delle prove di ingresso fra i canapi: è ovvio che ci sia, è normale che le “contrade” della chiesa misurino i favoriti, che gli elettori osservino le reazioni degli altri, e che ciascuno scruti le convergenze. Non c’è nulla di macabro o di cinico, non c’è alcuna contraddizione fra la speranza affettuosa che il papa si riprenda e la consapevolezza che qualcosa di irreversibile possa accadere o possa essere iniziato da lui con una rinuncia che ha come unico requisito quello di essere libera.

Il timone nell’incertezza

In queste settimane in cui il papa sta curando malattie che ha troppo trascurato o curato male, si crea un vuoto di potere in un sistema che di per sé è ancora di conio monarchico e che, sotto Bergoglio, ha raggiunto livelli di verticalità che non si vedevano da tempo.

La temporanea inabilità di un papa che decideva sulle cose grandi e su quelle minute, spesso chiedendo ai collaboratori di essere esecutori, dovrebbe essere compensata dal funzionamento dei dicasteri (il termine della burocrazia francese preferito dalla riforma di papa Francesco a quello ecclesiastico di congregazioni) della curia romana, di cui il Segretario di Stato è, come si vede in queste ore, il regista nella persona del card. Pietro Parolin, 70 anni compiuti, fine diplomatico di grande carriera e finezza, che papa Francesco ha usato e scavalcato a più riprese. La curia, però, è organo del papa regnante e non in nessun ambito poteri autonomi. Invece nel momento in cui la sede diventa vacante è il collegio cardinalizio che entra in funzione assumendosi la guida temporanea della chiesa fino alla elezione canonica di un nuovo vescovo di Roma – e lo fa sotto la guida del cardinal decano, che al momento è il cardi. Giovanbattista Re, ultranovantenne (sic). 

L’età richiede una piccola spiegazione. Il cardinal decano è stato per secoli il cardinale di Ostia, prima dei cardinali vescovi, chiamati così non solo per la consacrazione (adesso la ricevono quasi tutti i porporati), ma perché vescovi delle sette piccole diocesi attorno all’Urbe (suburbicarie). Fu Paolo VI che trasformò quella carica, unificata a quella di protovescovo, in carica elettiva, affidando ai cardinali-vescovi il compito di eleggere un decano che avrebbe servito a vita: il decano poteva entrare in conclave se aveva meno di ottant’anni (e.g. il card. Joseph Ratzinger nel 2005, ed uscito eletto come soli sei decani prima di lui, fra i quali papa Borgia); oppure poteva restarne escluso (e.g. il card. Angelo Sodano nel 2013, poi dimessosi nel dicembre 2019). A gennaio del 2020 i cardinali aventi diritto elessero Re, già assessore e sostituto in Segreteria di Stato, prefetto della congregazione per i vescovi, e sottodecano di Sodano: ma il papa dispose che la carica non sarebbe più stata a vita, ma quinquennale. Però a gennaio del 2025 lo stesso papa Francesco ha deciso di mantenere Re al suo posto, con una formula singolare secondo la quale il papa “ha prorogato l’approvazione da Lui concessa all’elezione” di Re e del suo vicedecano Sandri.

Perché papa Francesco non ha permesso di eleggersi il decano ai i cardinali vescovi (fra i quali i card. Filoni, Parolin, Prevost, Sako e Tagle anche elettori, e Arinze, Bertone, Ouellet, Saraiva, Stella fra i non elettori come Re e Sandri)? Una spiegazione razionale, ma non per questo suffragata da nulla, è che Bergoglio non volesse rischiare che fosse un decano elettore a dichiarare la sede vacante per impedimento e dunque a “deporre” un papa vegeto, ma non in grado di comunicare nemmeno per iscritto coi fedeli: è facile prevedere, infatti, che chi si trovasse a compiere questo passo, forte o meno di una lettera anticipata di dimissioni per altro inutile che Francesco ha rivelato di avere consegnato al Segretario di Stato, vedrebbe di molto diminuita la possibilità di essere eletto papa. 

Però l’assenza di un decano attivo e sostenuto dal voto degli altri suoi pari rende il vuoto di potere attuale asimmetrico: la Segreteria di Stato opera e dispone perfino in materia che non è sempre affar suo – come la preghiera per il vescovo infermo che toccava al cardinal vicario della diocesi di Roma o all’arciprete della basilica di san Pietro come nell’agonia di Wojtyła; il collegio è meno rappresentato, tant’è che a tutt’oggi non sembra che il decano abbia fatto visita al papa malato in questa primavera che è il solo autunno della vita di un pastore concesso ai cattolici (i vescovi diocesani vengono pensionati da una norma, talmente obsoleta da essere odiosa, a 75 anni, privando le chiese di un esempio davanti alla fase finale della vita).

Autunno del papa, autunno del papato

L’autunno del papa, dunque, è un unicum. Come nella notte del Covid, cera un uomo che da solo, ora Francesco sale da solo i gradini della vita, per insegnare alla chiesa di Roma e del mondo intero come vivere quella parte della vita augurabilmente lunga e mite, che è uguale per tutti.

Quello che è iniziato col ricovero ospedaliero di Francesco, però, non è solo un autunno del papa. È anche un autunno del papato. Nei sessant’anni dalla fine del Vaticano II, snodo di transizione del papato e della chiesa, il collegio cardinalizio ha scelto quattro papi completamente diversi fra loro. Ha tentato la via del sorriso di Luciani; quella muscolare di Wojtyła; ha offerto a Ratzinger un pulpito per la sua teologia. 

E poi ha chiesto ad entrambi i “Francesco” (sia il toccante Francesco del pulpito, e l’imperioso Francesco del trono) di compiere un rinnovamento di cui lui ha individuato il nome: sinodalità. La sinodalità “secondo Bergoglio”, però, è rimasta senza contenuti. I due sinodi sulla sinodalità hanno adunato attorno a tavoli senza litigi il meglio della chiesa cattolica per non decidere nulla e affidare le decisioni a commissioni post-sinodali senza autorità e di nomina papale.

Eppure la sinodalità è necessarissima in una fase nella quale Francesco ha compiuto un itinerario segnato da consensi e dissensi, profezie ed arbitrarietà e che oggi si trova in uno scenario molto diverso.

Il mondo del 1978, quello che inventò il papato polacco di Giovanni Paolo II, era perfettamente leggibile: la guerra fredda aveva più di trent’anni di età, la deterrenza atomica anche di più, la politica sovietica dell’espansione della propria sfera e la politica americana delle guerre sporche e dei golpe per contenerla erano note e consentivano a tutti di prendere posizione. 

Oggi si intuisce che si sono chiusi dei cicli storici lunghissimi, che il Vaticano II intuì e sui quali profetizzò spesso invano. S’è chiuso il millennio iniziato dalla riforma gregoriana nel quale la legge disegnava le istituzioni e generava fame di diritto (diritto romano, diritto canonico, diritto civile). S’è chiuso il mezzo millennio concilio Tridentino nel quale si era affidata al territorio la legittimazione delle istituzioni (si pensi all’obbligo di residenza dei vescovi e dei parroci) nonché la trasmissione della fede. S’è chiusa la lunga “tregua” (il concilio in GS81 la chiamava così e non “pace” come gli ingenui) seguita alla doppia guerra mondiale 1914-1945: e tutti patriottismi (il patriottismo del sangue puro come nei movimenti neo-nazisti; il patriottismo della terra sacra come nel Ру́сский мир a Mosca o in יהודית צמה nella antica Samaria; il patriottismo revanchista dei movimenti dell’America “Great Again” e del salafismo islamista) ritengono di avere il dovere di combattere per fermare l’invasione, la spoliazione o l’umiliazione subita. 

In questo cambio d’epoca (per dirla in greco, la katastrophé) la chiesa cattolico-romana ha come nemici naturali tutte le forze citate sopra perché tutte quante non potrebbero, nemmeno volendo, sopportare la sua dimensione globale, la complessità che rende ridicolo chi pensa di interpretarne l’essenza a sostegno di una ideologia o dell’altra, la sua  resistenza naturale a trasformare le occasionali blandizie valoriali o fiscali (sempre gradite) in alleanze.

La sinodalità “secondo Bergoglio”, però, è rimasta senza contenuti.

Se se ne voleva una prova basta vedere cos’è accaduto nel reality andato in scena fra Trump e Zelensky nello studio ovale: monito per chi, a torto o a ragione, non si china abbastanza rapidamente al bacio della “profana pantofola” del presidente. Una tale pretesa di sottomissione a presa rapida sarà salutata da qualche segmento cattolico reazionario come una luce salvifica che non viene ex oriente ma ex dextera. Ma per il corpo grande della chiesa (in inglese global, in latino catholica) reagisce. Pur inaridita teologicamente, consunta diplomaticamente, moralmente ammaccata e con le guarnizioni istituzionali scassate la chiesa, con la sua stessa natura eucaristica e globale rappresenta il diritto di un miliardo di fedeli e di miliardi di poveri in cui lei ama il suo Signore a vivere in santa pace (“fratelli tutti” – in bergogliese). E per il solo fatto si esistere sarà un nemico di chi, in case bianche, rosse o nere, vuole stanare prima di tutto chi potrebbe resistergli.

In futuro 

Quando in un punto imprecisato del futuro i cardinali elettori vedranno la fine di questo doppio autunno del papa e del papato e preparare una nuova primavera, è su questo che dovranno pensare (e forse stanno già pensando): come trovare per Roma vescovo capace di fare della sinodalità la chiave di una centralità che conforta e del centro la chiave di una sinodalità che decide e distingue, temi maturi per una decisione papale (ad esempio il ministero uxorato), temi maturi per una decisione conciliare (ad esempio il ministero femminile) e temi da portare a maturazione in un percorso sinodale (ad esempio la fisionomia dei cattolicesimi non occidentali).