1.
All politics is local! recita un vecchio adagio anglosassone. Ed effettivamente, in tempi ordinari, il rapporto gerarchico tra politica interna e politica estera è chiaro: i responsabili dei governi nazionali cercano di massimizzare le conseguenze delle opportunità e minimizzare quelle dei vincoli che l’ambiente internazionale pone al perseguimento dei propri obiettivi politici domestici. Riconoscere questo assunto implica prendere atto che anche la politica estera, in una certa misura, risente della dialettica competitiva tra maggioranza e opposizione e, in presenza di un sistema multipartitico, anche di una qualche differenziazione all’interno delle coalizioni. Ovviamente, dialettica e differenziazioni dovrebbero sempre essere contenute all’interno di un’accorta considerazione di quelli che possono essere definiti gli “interessi nazionali” o, se si preferisce una definizione meno enfatica e più precisa, le componenti permanenti o invariabili dei medesimi. Ne abbiamo avuto una riprova nei giorni dello sconvolgimento prodotto dalle dichiarazioni di Donald Trump relative all’apertura di una trattativa diretta con la Russia di Vladimir Putin sul destino dell’Ucraina – sulla pelle degli ucraini e sulle teste degli europei – e dall’arrogante, rozza e impudente relazione del vicepresidente JD Vance alla Conferenza per la sicurezza di Monaco, quando alla reazione molto dura del premier laburista britannico Keir Starmer che ribadiva che Londra avrebbe proseguito imperterrita nel suo sostegno a Kyiv ha fatto immediatamente eco la dichiarazione del suo predecessore, il conservatore Rishi Sunak, pronto ad assicurare il pieno appoggio del suo partito a qualunque misura volta a continuare l’opera di contenimento delle ambizioni imperialiste del Cremlino.
È doveroso osservare che, affinché una politica bipartisan sui fondamentali della sicurezza nazionale sia percorribile, occorre il pieno riconoscimento reciproco della piena legittimità tra i diversi partiti. Ovvero, una politica estera e di sicurezza condivisa, almeno sui fondamentali, è figlia della fuoriuscita dal clima di guerra civile permanente tra le forze che compongono le, mutevoli, maggioranze e opposizioni parlamentari. Si tratta di una condizione sperimentata a tratti e comunque mai completamente fino in fondo nelle vicende della Repubblica italiana.
Per motivi che credo non serva qui ricapitolare non lo è stato durante tutta la Guerra fredda, quando il più grande partito comunista d’Occidente, pure molto lontano dal comunismo reale, si ritrovava puntualmente all’opposizione di ogni necessario programma di adeguamento dello strumento militare nazionale e occidentale alle minacce attuate dall’Unione Sovietica (basti pensare alla vicenda del dispiegamento degli euromissili nel corso degli anni Settanta, che risultarono decisivi per fiaccare le ambizioni egemoniche di Mosca). Allora il refrain era sempre quello della “pace”, lo stesso invocato oggi dal partito dell’appeasement nei confronti dell’imperialismo della Russia di Putin.
Dopo la fine della Guerra fredda la piena legittimazione reciproca tra i contendenti per il potere repubblicano è stata sempre incompleta – si pensi all’anticomunismo post mortem, del comunismo, di Silvio Berlusconi da un lato e al girotondismo isterico del centrosinistra dall’altro – anche se, paradossalmente, era proprio il campo della politica estera quello che, in tempi ordinari, diveniva il minor tema di contesa. Non così allineate erano le forze più “radicali” che nel corso degli anni sono via via emerse nell’agone politico italiano, come la Lega, il Movimento 5 stelle o le varie formazioni post o neo-comuniste. Ma per lungo tempo queste apparivano ben lontane da poter condizionare la politica estera delle maggioranze di cui facevano parte o dal conquistare la leadership.
Le cose, come si sa, sono cambiate con il primo governo Conte (maggioranza giallo-verde) e poi con il governo Meloni, ovvero con l’irruzione sulla scena politica, nel ruolo di protagoniste dei governi e non più di mere comprimarie, di forze politiche dal populismo più conclamato rispetto al berlusconismo, ovvero della Lega di Salvini, del Movimento 5 stelle grillino e poi contiano e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Se a questo si aggiunge che anche la sinistra radicale sta godendo di una buona rinascita di consensi, si capisce meglio perché, persino quando poi gli esecutivi si sforzino di seguire politiche estere più o meno coerenti e non troppo dissimili tra loro, diventi però sempre più importante ammantarle di una presunta diversità o distintività a puro uso di lotta politica interna.
La pericolosa illusione è che questo comportamento non produca effetti negativi apprezzabili, mentre invece una grave conseguenza si viene a determinare: ovvero si impedisce lo sviluppo di una cultura di politica estera sufficientemente matura, razionale, responsabile, in grado di tenere nel giusto apprezzamento l’equilibrio tra realtà, interessi, principi e ideali, istituzioni, regole. Si finisce in tal modo per rivendicare alle proprie scelte – in termini di narrazione, molto più che di azioni effettive – la sola patente di rispettabilità o efficacia, accusando quelle altrui di immoralità o velleitarismo. E, dato che è sempre più spesso l’aspetto della narrazione che viene offerto a opinioni pubbliche abbandonate a se stesse o all’azione politicamente irresponsabile di attori non propriamente politici ma più o meno influenti nel dare forma al dibattito pubblico, non può sorprendere che quest’ultimo sia sovente ridotto ad arena per narcisismi più o meno patologici, in cui il presunto trionfo sull’interlocutore (un trionfo tutto immaginario per la totale autoreferenzialità di molte delle posizioni esposte) sia l’unica ossessione di molti dei suoi protagonisti.
L’America di Trump segna il trionfo della guerra civile permanente e della totale delegittimazione degli avversari politici e dei loro (anche solo presunti) sostenitori.
2.
Per lungo tempo, ciò che non ha fatto implodere questo coacervo di contraddizioni e incoerenze (tra ciò che viene annunciato e quello che viene effettivamente attuato e tra i posizionamenti e le linee di policy dei diversi partiti che compongono le mutevoli coalizioni di governo) e ha fatto sì che la non appropriatezza della narrazione della politica estera nazionale non si manifestasse come esplosiva e foriera di immediate conseguenze negative è stata la lunga percezione di una sostanziale immobilità del quadro nel quale la politica estera andava a collocarsi. Si è trattato di una immobilità assai più apparente che reale che poteva essere dipinto come tale solo a condizione di enfatizzare alcuni aspetti della realtà, sottovalutando, più o meno consapevolmente, quelli il cui cambiamento potesse risultare più disturbante: dall’imperialismo aggressivo della Russia, annunciato alla Conferenza di Monaco del 2007 e messo rapidamente in atto l’anno successivo in Georgia (per poi manifestarsi a più riprese in Ucraina) al riarmo di una Cina sempre più assertiva e nazionalista, dalle crescenti difficoltà europee sulla strada della definizione e dell’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune e condivisa alla rottura della continuità della politica nordatlantica degli Stati Uniti.
È proprio quest’ultimo il tema chiave da tenere al centro della nostra riflessione.
A conclusione di un lungo percorso iniziato già negli anni Duemila, parzialmente inabissatosi con l’11 settembre ma proseguito carsicamente e riesploso con la presidenza Obama, l’America di Trump segna il trionfo della guerra civile permanente e della totale delegittimazione degli avversari politici e dei loro (anche solo presunti) sostenitori. In tal senso, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 ha rappresentato un vero e proprio manifesto di “performing art” applicato alla politica. Era la rappresentazione della guerra civile permanente che si voleva dichiarare per “mondare” l’America delle sue “impurità” e segnava l’ostracismo degli avversari trasformati in nemici (quasi disumanizzati attraverso il ribaltamento delle ossessioni woke per le questioni multi- e soprattutto trans-gender). Così come l’inclusione di Elon Musk nel ruolo di gran consigliere del presidente – ispiratore? Eminenza grigia? Anima nera? – non costituiva solo la punta dell’iceberg della pressoché totale oligarchizzazione della repubblica, ma in realtà riproduceva la dinamica dell’imperator con il suo libertus (Musk è di origine sudafricana e può essere sì “romanizzato”, ma per il suo luogo di nascita non può ambire alla massima magistratura). Come la storia romana ci ricorda, i liberti (gli schiavi liberati) potevano accumulare straordinarie ricchezze e una quantità smisurata di potere proprio per la loro vicinanza all’ex padrone, ma la loro fortuna dipendeva dalla capacità di mantenere il favore imperiale. O di partecipare a un complotto per una successione cruenta, nei casi più torbidi. E la quantità di contratti, sussidi e favori in termini di pressioni per aprire o deregolamentare i nuovi mercati tecnologici e accaparrarsi terre rare forniscono la misura dell’opportunità che la vicinanza al potere politico fornisce a Musk per consolidare le proprie aspirazioni monopolistiche.
Fuor di metafora, quel che sostengo è che siamo di fronte a un vero e proprio regime change e non a un semplice avvicendamento tra due presidenti di colore politico diverso. Le suggestioni imperiali di Trump (Musk e Vance) non sono mero folclore di una pattuglia di persone che hanno imparacchiato la storia su qualche manualetto semplificato per dummies, ma riflettono una volontà di completare la transizione della respublica stellata in imperium aquilifero. La suggestione imperiale ha sicuramente una componente di proiezione internazionale, ma credo che risponda essenzialmente ad ambizioni e sfide domestiche: da un lato vorrei ricordare che, come già diversi anni orsono ha documentato il gruppo di lavoro di Thomas Piketty, la differenza nella distribuzione della ricchezza presente negli Stati Uniti ha raggiunto i livelli dell’Impero Romano. Dall’altro, quello che a Trump interessa della figura imperiale è la dimensione del potere assoluto, dell’essere sciolto da qualunque vincolo normativo e istituzionale. Il tema del superamento dei limiti e dello scioglimento da qualunque vincolo è sotteso tanto alla continua svalutazione del ruolo e del senso delle istituzioni quanto alla riforma del mercato attraverso la piena legittimazione delle sue derive oligopolistiche e monopolistiche. La valorizzazione del potere, inteso come asset che implica la minaccia e l’uso della forza per superare persino i limiti temporali del suo esercizio e per deformare il mercato e il contratto (e quindi la società e le regole) in una sua caricatura mafiosa fatta di estorsione e minacce, descrive una parabola in cui l’area dell’obbligazione politica e quella del contratto scambio si fondono e si sovrappongono, con esiti decisamente pericolosi tanto per la libertà politica quanto per quella economica. La crescente diffusione degli ambiti del potere – da quello strettamente politico-istituzionale a quello economico-finanziario a quello tecnologico – non coincide per nulla con una sua diluizione o con una sua maggior contendibilità, ma semmai consente la penetrazione di chi lo detiene in tutti i domini con l’accaparramento di tutte le risorse dai quali e con le quali potrebbe generarsi una forma di resistenza o anche semplicemente di alterità. Ed è precisamente nell’assistere a come modalità rivoluzionarie si perseguono tentazioni ricorrenti, dove evidentemente è la novità delle prime che rischia di esporci alla mercé delle seconde, privi dei consueti – rodati ma poco utili, forse inservibili – strumenti istituzionali che il liberalismo politico aveva messo a punto soprattutto nel corso del Novecento, che possiamo cogliere la pericolosità del momento storico che stiamo vivendo.
Siamo di fronte a un vero e proprio regime change e non a un semplice avvicendamento tra due presidenti di colore politico diverso.
Il metodo d’azione in politica estera di Trump è il semplice epifenomeno di ciò che intende fare in politica interna, riducendo il ruolo del Congresso, depotenziando i ministeri e le agenzie federali a favore di autorità non indipendenti, create ad hoc e responsabili solo verso di lui, ad nutum dell’imperatore. È questo elemento che rende a mio avviso strutturale il cambio di politica e di atteggiamento nell’arena internazionale dell’America di Trump e di Vance e Musk, aggiungo. Perché, considerata l’età di Donald, Vance è da considerare il successore in pectore di Trump, e non il semplice vice, una sorta di Cesare rispetto all’Augusto di Mar a Lago.
È questo il cambiamento più significativo e foriero di drammatiche conseguenze per l’Europa e per l’Italia, di un quadro internazionale che inizia a cambiare drasticamente con il discorso di rottura di Putin a Monaco (2007) e con l’elezione di Xi Jinping a segretario del Partito comunista cinese (2012) che sottopone il regime cinese a una torsione personalistica, nazionalista e neo-autoritaria e si completa con le guerre di aggressione della Russia alla Georgia (2008) e all’Ucraina (2014 e 2022).
3.
La domanda centrale, diventa quindi, se Giorgia Meloni ha compreso la natura del cambiamento e se ne ha tratto le conseguenze.
E la risposta appare francamente negativa.
La linea politica della presidente del Consiglio è apparsa orientata a mantenere innanzitutto saldo il rapporto con gli Stati Uniti, e questa scelta si è manifestata plasticamente nel sostegno prestato alla resistenza ucraina all’aggressione russa, concretizzatasi in un discreto sostegno militare (in termini di fornitura di equipaggiamenti) e finanziario e in un più robusto appoggio politico. Quest’ultimo le ha consentito di tracciare una linea di continuità con la politica estera e di sicurezza del governo Draghi – fondamentale nella prima parte della sua premiership per accreditarsi internazionalmente e tamponare le preoccupazioni nei confronti del primo governo di destra-destra nella storia della Repubblica con la Lega di Salvini sempre più apertamente filo-putiniana. Durante la presidenza Biden, questa linea è consistita nell’allineamento con quella del presidente democratico, sempre attenta a sostenerne le scelte più prudenti, titubanti e procrastinanti tra quelle a disposizione dell’amministrazione americana e in tal senso allineate con molte delle posizioni europee.
Come la storia romana ci ricorda, i liberti (gli schiavi liberati) potevano accumulare straordinarie ricchezze e una quantità smisurata di potere proprio per la loro vicinanza all’ex padrone, ma la loro fortuna dipendeva dalla capacità di mantenere il favore imperiale.
Ma le cose sono cambiate con l’arrivo di Trump: tanto nei confronti dell’Ucraina, quanto nei confronti degli alleati europei.
Cosicché l’allineamento agli Stati Uniti e la ricerca di una relazione forte con Washington rischia di implicare una sostanziale inversione di rotta tanto nei confronti del sostegno alla resistenza di Kyiv quanto della ricerca di una linea comune da parte dei membri europei dell’Alleanza atlantica. Lo si è visto con molta evidenza durante il vertice convocato all’Eliseo dal presidente Macron il 17 febbraio, nel tentativo di reagire all’uno-due inferto agli europei dalla coppia Trump-Vance. Il mantra di Meloni sul fatto che senza l’America non esiste sicurezza europea poteva apparire una considerazione di buon senso, quasi una constatazione dello stato dell’arte, ma in effetti mascherava il dato di realtà più macroscopico e innovativo: che era l’America di Trump ad aver prospettato un’effettiva rottura nei confronti della sicurezza europea, accettando la logica putiniana delle sfere di influenza, dimostrandosi disposto a mettere a repentaglio la sicurezza degli europei nell’illusione di una riedizione della Conferenza di Yalta, della quale il continente divenisse oggetto di una nuova spartizione, preparandosi ad esercitare pressione sull’Europa affinché revocasse i pacchetti di sanzioni adottate nei confronti di Mosca senza che la Russia concedesse alcunché.
La cosa si è riproposta, ingigantita e drammatizzata, nell’agguato al presidente ucraino Zelensky durante la conferenza stampa tenuta allo Studio ovale venerdì 28 febbraio ad opera della coppia Trump-Vance. Si è trattata di una brutale aggressione al popolo ucraino — come se quella della Russi non fosse già sufficiente — e della più vergognosa umiliazione della democrazia e della presidenza degli Stati Uniti da parte di «una banda di gangster», per citare l’editoriale del New York Times del giorno successivo. Ma ha costituito anche una ennesima dimostrazione della concezione del potere, personale e assoluto, che guida la visione di questa amministrazione e della totale irrilevanza in cui sono tenuti gli alleati europei, chiamati a partecipare come comprimari alla pax trumpiana, mentre gli oligarchi intorno a Trump si spartiscono le spoglie minerarie dell’ucraina con quelli del Cremlino.
Ancora una volta, nel nuovo vertice di Londra del 2 marzo, un’Europa allargata a Regno Unito, Turchia e Canada ha fornito la sua replica, cercando di interloquire con la nuova America e di conciliare la necessità di non abbandonare Kyiv al suo destino e non concedere alla Russia una vittoria politica ben superiore ai risultati conseguiti sul campo e, allo stesso tempo, di attrezzarsi per implementare le proprie capacità di difesa, premessa per qualunque soggettività politica, in qualunque veste istituzionale la si voglia pensare ed esprimere. Non si tratta di raggiungere una velleitaria — e inutile — parità strategica con la Russia, ma di raggiungere quella soglia che impedisce che Mosca possa coltivare l’illusione che un nuovo patto Molotov-Ribbentrop possa avere per oggetto la spartizione non della sola Ucraina ma dell’intero continente europeo.
> Apparirebbe singolare che un governo che si proclama orgogliosamente “sovranista” e composto di “patrioti” si dimostri disponibile a una relazione di sudditanza nei confronti della nuova amministrazione americana.
Ricercare l’unità dell’Occidente è un obiettivo comprensibile e auspicabile, ma ostinarsi a farlo quando il partner transatlantico sembra chiamarsi fuori, disconoscere i valori e le istituzioni che lo hanno costituito rischia di essere un esercizio suicida, più che velleitario. Di fronte a questo possibile ribaltamento di prospettive la politica della presidente del Consiglio sembra in difficoltà, soprattutto nel non riconoscere fino in fondo che la ricerca della solidarietà atlantica non può andare a scapito della solidarietà europea.
Se andiamo a guardare alla storia recente della politica estera italiana, la linea classica di condotta dei governi della Repubblica è sempre stata quella di ricercare una condotta che stesse all’interno degli argini tracciati dalla membership europea e atlantica, le due grandi scelte “definitive” dell’Italia democratica. Ma quando questo non è stato possibile, come si è proceduto? Il caso più eclatante è quello del governo Berlusconi in occasione dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003. In quella contingenza la scelta dell’esecutivo italiano fu chiara: l’allineamento con gli Stati Uniti, mentre Francia e Germania si schieravano contro quella guerra (perlomeno in Consiglio di sicurezza dell’Onu, pur senza portare la contrapposizione all’interno della Nato). Va però ricordato che quella decisione avvenne non in maniera solitaria o insieme a qualche piccola nazione del Centroamerica, ma in compagnia di Gran Bretagna, Spagna e Polonia, allora tutti Stati-membri dell’Unione. Fotografava cioè un’Europa divisa, ma all’interno di una relazione transatlantica che si manteneva solida. Le reazioni americane nei confronti del diniego di solidarietà francese andarono poco oltre il temporaneo cambiamento del nome delle patatine fritte (da French fries a Liberty fries) nel menù della mensa del Congresso e dei pranzi della Casa Bianca. Tanto per dare la misura del cambiamento in atto, il presidente Trump ha bandito dalle conferenze stampa alla Casa Bianca l’Associated Press, “rea” di ostinarsi a chiamare il Golfo del Messico col suo vero nome e non con quello farlocco di Gulf of America — a qualcuno ricorda niente? Il Mare nostrum rievocato da Mussolini nei suoi vagheggiamenti neo-imperiali?
Parliamo di una incapacità di prendere atto della realtà o di una vera e propria volontà di adeguamento?
Questa è la domanda che dovremmo farci e alla quale occorre fornire una risposta. Certo, apparirebbe singolare che un governo che si proclama orgogliosamente “sovranista” e composto di “patrioti” si dimostri disponibile a una relazione di sudditanza nei confronti della nuova amministrazione americana. Perché il punto sta proprio qui. Nella condotta dell’America di Trump, non c’è spazio per alleanze, figuriamoci per relazioni speciali e altamente istituzionalizzate come quella costruita in oltre 75 anni di Alleanza Atlantica. Che ne sia o meno consapevole, nel suo rapportarsi con gli europei Donald Trump sta replicando lo schema del rapporto patrono-cliente tipico della Roma antica, con il quale l’Urbe instaurava relazioni ineguali con soggetti politici ritenuti inferiori per rafforzare la sicurezza dei propri confini.
Conviene capirsi. Relazioni di questo tipo gli americani le hanno sempre avute, dapprima nel continente americano e poi nel Pacifico e in Asia, a mano a mano che il proprio potere e le proprie ambizioni crescevano. Rispetto alle alleanze però, e in particolar modo rispetto a un’alleanza molto peculiare come quella atlantica, i rapporti di clientela presentano una serie di significative differenze, tutte riscontrabili nelle parole e nei comportamenti di Trump. La prima è che il dato di superiorità anche formale del patrono sul cliente è parte costitutiva della relazione. È il patrono che decide il comportamento che il cliente deve tenere e non c’è spazio per nessuna dialettica interna. E’ il patrono che determina chi è il nemico contro il quale il cliente deve prestare assistenza mentre la protezione verso i nemici esterni del cliente è sempre nella disponibilità esclusiva del patrono. Al contrario, maggiore disponibilità si dimostra nei confronti dei nemici interni del proprio cliente. E forse così le esternazioni di Musk e Vance nei confronti della leader di Afd diventano meno estemporanee e si comprendono meglio. Il rapporto di clientela non prevede istituzioni collettive, il riconoscimento di una comunità ideale o di una vera e propria comunità di sicurezza, in cui le differenze tra i diversi membri si attenuano. Anzi, la relazione che lega patrono e cliente è personale, lega i due leader, e non si estende ai popoli. In questa logica, non sorprende che Trump mostri un totale disprezzo e un concreto non riconoscimento per le istituzioni collettive dei suoi clientes europei. Così si inquadra meglio la gravità della rottura personale fra Trump e Zelensky nell’agguato dello Studio Ovale.
Che ne sia o meno consapevole, nel suo rapportarsi con gli europei Donald Trump sta replicando lo schema del rapporto patrono-cliente tipico della Roma antica, con il quale l’Urbe instaurava relazioni ineguali con soggetti politici ritenuti inferiori per rafforzare la sicurezza dei propri confini.
Il progressivo cambiamento del quadro internazionale è stato in una certa misura offuscato dal processo di allargamento di Unione Europea e Nato che affondava negli esiti conclusivi della Guerra Fredda e, probabilmente, ha avuto una sorta di “effetto supernova”, cioè si ha accelerato e ampliato proprio mentre la sua energia veniva meno. Credo sia da collocare qui il duro ammonimento di qualche anno fa del presidente francese Emmanuel Macron — «la Nato è in una condizione di morte cerebrale». E sicuramente il continuo impiego della struttura dell’Alleanza nelle guerre mediorientali e balcaniche degli ultimi 25 anni ha contribuito sia a una carenza di riflessione strategica e insieme prospettica sulla e nella Nato, sia a fornire l’impressione che l’alleanza fosse riuscita ad aggiornare con successo la sua missione. La natura altamente istituzionalizzata della Nato ha anch’essa contribuito a produrre la sensazione che la relazione tra la fine del secolo e l’inizio del successivo potesse essere più armonica e in continuità di quanto sia poi risultato.
Quest’ultimo aspetto ha coinvolto anche la Ue, essa pure una istituzione che sorge e si sviluppa grazie e dentro la pax atlantica americana, che gioca un ruolo decisivo nella stabilizzazione dell’ex impero esterno sovietico ma che invece non incide nei confronti dello spazio post-sovietico, oltre che di quello mediterraneo. Fin dove la politica di allargamento è possibile, essa risulta complessivamente di successo, pur mostrando crepe in termini di irreversibilità della liberalizzazione e democratizzazione di alcuni nuovi Stati-membri (Ungheria su tutti, ma in parte il discorso vale anche per Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Croazia). Il fallimento è viceversa palese nei confronti del suo estero vicino (tanto a Est quanto a Sud), dove l’obiettivo di riuscire a costruire un «ring of friends» oltre il proprio limes non viene mai conseguito. Anzi. Bielorussia e Georgia, e forse Ucraina, ne forniscono una tragica testimonianza a Est, mentre a Sud la lista degli insuccessi comprende tutti i paesi dell’area.
È il patrono che decide il comportamento che il cliente deve tenere e non c’è spazio per nessuna dialettica interna. E’ il patrono che determina chi è il nemico contro il quale il cliente deve prestare assistenza mentre la protezione verso i nemici esterni del cliente è sempre nella disponibilità esclusiva del patrono.
4.
Al di sotto di questi fenomeni appena descritti, sia pure sommariamente, agiscono due poderosi fattori di disgregazione dell’ordine internazionale liberale.
Negli Usa assistiamo alla rapida e progressiva radicalizzazione e polarizzazione del quadro politico che gli otto anni di presidenza Obama in parte illudono di poter comunque rintuzzare e in parte esasperano, contribuendo a suscitare quella reazione che porterà alla prima presidenza Trump. E il meccanismo si ripete, in scala ridotta con i quattro anni di Biden. Nell’Unione europea si osservano invece avanzare sentimenti anti-europei, populisti e sovranisti che forgiano gli attori anti-sistema che diventeranno sempre più cruciali nei nostri giorni.
Le due spinte riflettono il tradimento (percepito e parzialmente vero) della promessa di inclusione e diffusione del benessere operate dai regimi liberaldemocratici dopo la fine della Guerra fredda, divorate sull’altare della globalizzazione da parte di nuove élite economiche fameliche e sempre più distanti dai valori delle tradizionali élite politiche, il cui dato ideologico prevalente è la furia iconoclasta anti-liberal (anti-progressista diremmo in italiano), che manifesta una assoluta volontà di rottura rispetto alla cultura liberal/progressista (in senso molto ampio e trasversale rispetto ai partiti e agli schieramenti politici) responsabile di aver forgiato l’ordine internazionale post-bellico e influenzato pesantemente anche le diverse élite politiche nazionali.
Come sempre accade, l’ascesa di queste élite economiche ha fornito materiale per l’elaborazione ideologica da parte di quelle contro-élite politiche fino a quel momento emarginate dal discorso pubblico, o comunque più marginali rispetto al dibattito principale, in gran parte collocate sul lato destro dello schieramento proprio in virtù del fatto che l’asse mediano della politica inclinava sul centro-sinistra, soprattutto con la fine della Guerra fredda. Questa collocazione nello spazio politico-culturale della destra forniva una tangibile rassicurazione che il nuovo discorso politico non avrebbe messo in discussione la proprietà privata, la legittimità dei profitti e la santità dell’iniziativa individuale. È proprio tale saldatura con una dimensione rilevante della cultura delle élite globaliste che ha spostato verso destra il quadro complessivo del dibattito pubblico e delle idee presentabili.
Un simile processo non presenta un andamento lineare, né è figlio di una regia originaria o di un disegno coerente. Ma nel suo dipanarsi offre opportunità di alleanze tattiche e chance di impossessarsi della leadership, potendo magari piegare ai propri specifici interessi il discorso politico, la narrazione, dirottandolo o modificandolo sia a livello domestico sia a livello internazionale.
Si tratta di capire che la continuità nella linea di politica estera filoamericana, quando il quadro complessivo cambia e la stessa politica americana subisce un radicale ribaltamento, non è una manifestazione di coerenza ma di debolezza di pensiero strategico.
Musk è per più di un aspetto il campione di quanto stiamo dicendo. La sua forza è intimamente legata alla dimensione globale dei mercati sui quali ha costruito le diverse tappe e i diversi settori della sua fortuna. Eppure, si presenta come campione delle forze populiste e sovraniste che vorrebbero vendicare i vinti della globalizzazione, quelli lasciati indietro dal medesimo processo che ha segnato il trionfo dell’uomo più ricco del pianeta. Ha uno stile di vita decisamente non tradizionale, mentre sostiene i movimenti reazionari in giro per il mondo. È un alfiere dell’imperialismo Usa e intanto appoggia l’appeasement con la Russia. Si professa libertario ma è il nemico programmatico di un’idea di Occidente basata sul triangolo liberale composto da democrazia rappresentativa, economia di mercato e società aperta.
Sono dunque soprattutto considerazioni di politica interna americana – la volontà di Trump di affermare una supremazia senza limiti del potere esecutivo, con accentuazioni personalistiche di stampo sudamericano nel tentativo di realizzare un cambiamento permanente del quadro politico domestico – a far ritenere che la sua amministrazione proseguirà nei prossimi quattro anni quanto mostrato nei primi trenta giorni.
Se così stanno le cose, l’Europa deve rapidamente attrezzarsi per provvedere alla sua sicurezza anche nel caso del venire meno del sostegno Usa. È un percorso costoso, impegnativo e, anche, impopolare. Ma obbligato, se vogliamo far sì che l’Unione sopravviva. Ed è proprio la sopravvivenza dell’Unione, e il suo rafforzamento anche istituzionale, la condizione necessaria per la tutela della libertà, della democrazia, della sovranità e del benessere dei singoli Stati-membri. Un rafforzamento che diventa ancora più decisivo, qualora la situazione dell’Ucraina dovesse degenerare. Rispetto alla formazione politico-ideologica di Meloni e dei diversi sovranisti presenti in Europa, si tratta di compiere una vera e propria inversione di marcia nell’atteggiamento fin qui tenuto nei confronti della prospettiva di una statualità europea più effettiva (obiettivo più volte ribadito da Mario Draghi). In termini più immediati, si tratta di capire che la continuità nella linea di politica estera filoamericana, quando il quadro complessivo cambia e la stessa politica americana subisce un radicale ribaltamento, non è una manifestazione di coerenza ma di debolezza di pensiero strategico. L’emergere di foschi discorsi intorno al cosiddetto «corridoio di Kaliningrad», per assicurare il collegamento della exclave russa alla Bielorussia, oltre a ricordare sinistramente un altro corridoio — quello di Danzica, nel 1939 — ci ammonisce sulla necessità e urgenza di mutare i nostri indirizzi per adeguarli ai tempi.
Affidarsi alla speranza che le parole di Trump siano dettate solo o prevalentemente da una sorta di strategia negoziale da bullo, o sperare che tra quattro anni le relazioni transatlantiche possano tornare al sereno, credo sia un pericoloso — e temo suicida — esercizio.