Sin dal Trattato di Roma, la Politica di coesione è uno dei pilastri del progetto europeo: essa mira a ridurre le disparità economiche e sociali tra le regioni dell’Unione e a promuovere la competitività dei territori. Rappresenta anche una delle voci di spesa più consistenti del bilancio dell’Unione, di cui copre circa un terzo: dalla riforma dei Fondi strutturali nel 1989 fino al 2023, l’UE ha investito 1.040 miliardi di euro per rafforzare la coesione economica e sociale.
Nel tempo, a seguito di riforme successive, la Politica si è evoluta da strumento per controbilanciare le disparità regionali inevitabilmente emergenti dal Mercato unico e, in seguito, dall’Unione economica e monetaria a principale politica di investimento dell’UE. Secondo l’ultimo Rapporto sulla coesione, pubblicato nel 2024, la sua spesa rappresenta quasi il 13% degli investimenti pubblici totali nell’UE nel suo complesso e il 51% negli Stati membri meno sviluppati. La Politica di coesione interviene anche sulle imprese: sia con i contributi che vengono erogati, in esenzione del generale divieto degli aiuti di stato e secondo le possibilità (limiti territoriali e intensità di incentivazione) definite dalle carte degli aiuti di stato, sia con interventi di natura “orizzontale”, come i centri di trasferimento tecnologico e le iniziative territoriali di collaborazione ricerca-impresa. Essa ha rappresentato, quindi, anche il principale strumento delle politiche industriali messe in atto in Europa. La Politica di coesione ha inoltre agito come stabilizzatore economico: una fonte per sostenere gli investimenti sia durante la crisi finanziaria (in modo particolare negli Stati Membri mediterranei) sia, più di recente, durante la pandemia e la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina (unitamente ad altri strumenti come il Recovery and Resilience Facility). La rapidità nel mobilitare le risorse assegnate a questa politica ha permesso di ridurre il rischio di un ulteriore ampliamento delle disparità, dato che la serie di crisi che si sono susseguite negli ultimi anni ha avuto un impatto territoriale eterogeneo. Il grande allargamento ad Est ha determinato un profondo ridisegno spaziale della produzione manifatturiera europea; e la Politica di coesione ha sostenuto in particolare le imprese dell’Europa mediterranea, colpite anche dal crollo della domanda interna dovuto alle politiche di austerità. Gli effetti della pandemia sono stati poi più gravi nelle regioni dipendenti dal turismo, dalle industrie culturali o da altri servizi ad alta intensità di manodopera, nonché nelle industrie profondamente integrate nelle catene del valore globali. A risentire degli impatti negativi della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina sono state soprattutto le regioni di confine e quelle dipendenti da settori industriali vulnerabile agli elevati prezzi dell’energia o alle interruzioni della catena di approvvigionamento.
Considerata l’importanza di affrontare le disparità di sviluppo territoriale sia per ragioni di equità che di efficienza e considerate le ingenti risorse finanziarie stanziate nel tempo, il suo impatto è diventato oggetto di un intenso dibattito accademico e politico. Provando a riassumere l’ampia evidenza empirica disponibile, è possibile affermare che l’impatto della Politica di coesione è complessivamente positivo in termini di crescita economica e occupazionale, anche se altamente eterogeneo. Mentre tutte le regioni dei Nuovi Stati Membri hanno sperimentato una forte convergenza verso la media comunitaria a partire dalla loro adesione all’UE, altre regioni hanno sperimentato una graduale divergenza, ovvero non sono state in grado di ridurre la distanza dalla media europea. Questo è avvenuto in particolare negli Stati membri meridionali, soprattutto successivamente alla crisi finanziaria del 2008, ma anche di un gruppo di regioni in transizione negli Stati membri più sviluppati, ad esempio in Francia e in Belgio.
Va sempre tenuto presente che la Politica di coesione è solo un elemento di un quadro più ampio: la convergenza delle regioni deboli che essa sostiene può essere contrastata dalle grandi scelte distributive e macroeconomiche operate dagli Stati Membri al loro interno, così come dalle scelte che vengono operate sulle grandi politiche pubbliche nazionali, dall’istruzione ai trasporti.
Tali politiche sono indispensabili. Lo sviluppo tende a concentrarsi nelle regioni delle capitali e in alcune grandi agglomerazioni urbane, soprattutto a causa della crescente terziarizzazione e digitalizzazione delle economie europee: i servizi avanzati sono molto più concentrati geograficamente dell’industria. Le dinamiche migratorie rinforzano questi processi, in un quadro di progressiva decrescita della popolazione comunitaria. Questa polarizzazione spaziale genera una serie di esternalità negative (tensioni sui mercati del lavoro e degli alloggi, congestione, inquinamento) e di sottoutilizzo del potenziale economico delle aree più deboli e quindi dell’intero paese. Ciò, nel lungo periodo, può minare la competitività degli Stati membri e la sostenibilità del loro modello di crescita. Determina una crescente differenziazione geografica nelle condizioni di vita dei cittadini, a causa della diversa disponibilità di infrastrutture e servizi: circostanza che, insieme alle condizioni individuali e sociali, è alla radice delle forti e crescenti disuguaglianze interpersonali in Europa. Provoca fenomeni di risentimento nelle “regioni che non contano”, dovuti alla percezione di una disuguaglianza di trattamento, che sovente si traducono nel sostegno a forze politiche che promettono protezione e contrastano l’integrazione comunitaria.
Questo significa che è ancora più necessario perseguire l’obiettivo della coesione territoriale, perché non si può avere competitività a lungo termine, dinamismo economico, sostenibilità politica e sociale senza coesione. Ad essere in pericolo sono i risultati economici, sociali e politici che sono stati il segno distintivo dell’integrazione europea negli ultimi settant’anni.
Se, dunque, la Politica di coesione è più che mai necessaria se l’UE vuole affrontare con successo le crescenti sfide strutturali a lungo termine che l’attendono, occorre riflettere su come il disegno e l’attuazione di questa politica possano essere migliorati. Le discussioni sono ufficialmente iniziate con l’istituzione del Gruppo di alto livello sul futuro della Politica di coesione da parte della Commissaria della DG RE-GIO Elisa Ferreira, che, a febbraio 2024, ha prodotto il suo documento finale. Poco dopo la Commissione Europea ha pubblicato la 9° Relazione sulla coesione. Il dibattito sulla Politica di coesione entrerà ora nel vivo con il nuovo ciclo legislativo dell’UE e i negoziati sul futuro bilancio europeo che si avvieranno nel 2025.
Tre sono, a nostro giudizio, gli aspetti più rilevanti su cui sarà necessario riflettere: (i) la missione, (ii) il disegno e la relazione con il modello del Recovery and Resilience Facility (RRF); (iii) le sinergie con le altre politiche.
Ridefinire le missioni della coesione
Il primo tema, apparentemente banale, riguarda quello che la Politica di coesione dovrebbe fare. Nel tempo gli obiettivi della Politica di coesione si sono evoluti e ampliati, anche come risultato di una serie di compromessi e della volontà di far coesistere, all’interno di questa politica, gli obiettivi di coesione e competitività. A questo proposito diversi autori hanno suggerito che l’enfasi sulla competitività economica è arrivata a dominare quella sulla coesione sociale e territoriale, tanto che alcuni hanno parlato di “lisbonizzazione” della Politica di coesione per indicare il suo allineamento con gli obiettivi di competitività stabiliti nella strategia di Lisbona a scapito dell’attenzione sulle disparità regionali. Oggi molti sono gli obiettivi che la Politica di coesione dovrebbe raggiungere: aiutare le regioni in ritardo a recuperare, aiutare le altre a mantenere la prosperità in un periodo di transizione, compensare le regioni strutturalmente svantaggiate, promuovere la solidarietà, soprattutto durante le crisi, e non solo. È evidente che perseguire molti (e non sempre coincidenti) obiettivi contemporaneamente rende difficile raggiungere progressi significativi nei singoli temi, portando così ad una generale percezione di inefficacia della politica.
Un rilancio della Politica di coesione passa, dunque, innanzitutto, dall’individuazione di priorità negli obiettivi. Questo significa utilizzarla prioritariamente per lo scopo per cui era stata originariamente ideata, vale a dire per ridurre le disparità tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e l’arretratezza di quelle meno favorite, ma anche per prevenire l’emergere di nuove disparità; cosa che oggi può avvenire a causa delle transizioni verdi e digitali (l’introduzione del Just Transition Fund è un esempio interessante di un approccio forward-looking). Significa puntare alla mobilitazione del potenziale economico nei territori meno sviluppati e in quelli che, per diverse ragioni, sono o sono diventati vulnerabili (si pensi alle zone rurali e geograficamente periferiche dell’Europa o alle aree che stanno vivendo profonde transizioni industriali: le regioni nella “trappola dello sviluppo intermedio”), promuovendo la convergenza e diffondendo prosperità e opportunità in tutta l’UE. Si tenga anche conto che, alla luce dei forti effetti di spillover generati da questa politica, la sua spesa genera effetti positivi non solo nelle regioni target, ma anche in quelle limitrofe e, soprattutto, in quelle dotate di più avanzate capacità produttive. Le ambizioni della Politica di coesione dovrebbero, in realtà, andare oltre la crescita economica: migliorare la qualità della vita e garantire a tutti i cittadini europei un più equo accesso, grazie a infrastrutture e servizi, alle opportunità di vita e di lavoro. Naturalmente, da sola non potrà mai bastare se l’obiettivo di una maggiore coesione territoriale e sociale non orienterà le più complessive scelte di politica fiscale e di organizzazione dei grandi servizi pubblici degli Stati Membri. L’Italia, purtroppo, offre un importante esempio di come molte politiche pubbliche nazionali, dalla sanità all’istruzione, abbiano ampliato le disparità territoriali e di come le regole con cui sono stati costruiti il decentramento amministrativo e il federalismo fiscale abbiano penalizzato i territori a minor gettito fiscale.
Per garantire il conseguimento di questi obiettivi è necessario adottare una prospettiva a lungo termine. Le recenti crisi, come la pandemia di COVID-19 e la crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina, hanno spostato le priorità verso risposte a breve termine. Se è vero che la Politica di coesione ha dimostrato la sua adattabilità alle esigenze immediate, questa flessibilità ha, però, compromesso i suoi obiettivi a lungo termine. Uno sviluppo regionale sostenibile può essere raggiunto solo attraverso investimenti a lungo termine, in particolare nella diversificazione delle economie regionali, nel rafforzare l’adattabilità al cambiamento ambientale, tecnologico e demografico e nel migliorare le competenze della forza lavoro. È fondamentale scongiurare il rischio che la Politica di coesione nel prossimo ciclo di programmazione diventi un meccanismo di risposta di emergenza per i periodi di crisi, tenendo conto della debolissima capacità fiscale comunitaria.
Nuove strutture della coesione
Il secondo grande tema riguarda il modus operandi e la governance della Politica di coesione che sono stati spesso oggetto di dibattito e anche di critiche con riferimento alla loro efficienza. Questa discussione, non nuova, si è riaccesa recentemente in seguito all’adozione della Recovery and Resilience Facility, il pilastro principale del programma NextGenerationEU. Il RRF è stato molto positivo, ma la sua esperienza sta influenzando la riforma della Politica di coesione. Per quanto la genesi sia completamente diversa, diversi autori hanno sottolineato le potenziali complementarità e sinergie fra le due programmazioni, ma anche le possibili tensioni derivanti dalla contemporanea attuazione dei PNRR e dei programmi della Politica di coesione.
In particolare, un rilevante elemento critico risiede nella possibile preferenza per strumenti di investimento nazionali più centralizzati basati sull’approccio RRF. La Politica di coesione si è sempre basata finora su un approccio dal basso “bottom-up” e inclusivo che garantisce il coinvolgimento dei decisori politici e portatori di interessi regionali e locali. L’RRF, al contrario, è gestito centralmente con piani negoziati tra la Commissione europea e gli Stati membri e sconta una mancanza di partecipazione, una lontananza da aspirazioni, competenze e capacità dei territori e delle loro comunità; questo si è tradotto in quasi tutti gli Stati Membri in un’allocazione di risorse che tiene poco conto dei divari territoriali, e che rischia di ampliare ulteriormente le disparità all’interno degli Stati membri. Sebbene l’approccio bottom-up sia stato a volte criticato per un’eccessiva complessità e farraginosità, resta un elemento indispensabile per identificare sfide e opportunità territoriali.
La Politica di coesione deve mantenere la sua natura place-based, derivata dalle diverse condizioni dei luoghi e mirata a interventi diversificati, con strumenti di intervento più granulari per tenere conto dell’eterogeneità regionale e subregionale. L’eventuale prevalenza di un modello basato sull’approccio RRF rappresenterebbe un passo verso una “ri-nazionalizzazione” della Politica di coesione, una tendenza in parte emersa nelle revisioni successive dei quadri di programmazione 2014-2020 e 2021-2027 per consentire un uso più flessibile dei fondi, principalmente (ma non solo) per sostenere misure di mitigazione delle crisi. La competenza europea in questo ambito è fondamentale per uno sviluppo regionale coordinato, che sarebbe difficilmente perseguibile in uno scenario di politiche regionali gestite indipendentemente dagli Stati membri. Il “valore aggiunto comunitario” delle Politiche di coesione è particolarmente significativo.
Allo stesso modo collegare i fondi della Politica di coesione alle riforme strutturali, simile al cosiddetto approccio cash-for-reforms dell’RRF, potrebbe portare alla nazionalizzazione parziale o totale dei finanziamenti della Politica di coesione per l’impossibilità di allineare le condizionalità al livello di governo appropriato, anche in considerazione del fatto che le regioni, che sono i principali destinatari della Politica di coesione, potrebbero non avere l’autorità di implementare le riforme necessarie, che sono in genere di competenza dei governi nazionali.
Di contro, un approccio basato sul pagamento in base ai risultati, che è l’opposto del sistema basato sul rimborso oggi tipico della Politica di coesione, potrebbe fungere da modello per migliorare l’efficacia della politica. Tuttavia, l’adozione di questo nuovo approccio di erogazione su larga scala necessita di una reale verifica preventiva e di valutazioni di fattibilità ex ante. Vi è molta enfasi sul fatto che i meccanismi del RFF (a differenza di quelli della Politica di coesione) seguano un approccio cosiddetto “performance based”: i pagamenti sono cioè successivi al raggiungimento di obiettivi concordati anche con la Commissione europea. Si tratta di un approccio interessante. Tuttavia, analisi sui diversi Piani di Rilancio nazionali finanziati con il RFF mostrano che assai spesso si tratta di obiettivi di spesa o di realizzazione di interventi (input) e non di risultati finali in termini di completamento degli interventi (output) o di miglioramento delle condizioni di cittadini e imprese (outcome).
Articolare la coesione e le altre politiche dell’Unione
Il terzo tema riguarda le sinergie con le altre politiche nazionali ed europee. Il punto di partenza, cui si è già accennato, è che la coesione è troppo importante per essere una questione solo della Politica di coesione. La necessità di conciliare efficienza ed equità è insita in tutti gli altri ambiti di policy, innanzitutto a livello di Stati membri. Si pensi agli interventi per favorire lo sviluppo e l’adozione di tecnologie verdi e digitali: chiari esempi di misure che hanno un impatto sulle disparità economiche tra le regioni europee. Alcuni attenti osservatori hanno notato che vi è il rischio che la transizione verde possa accrescere e non far diminuire, le disparità territoriali. Si pensi alle politiche industriali, oggetto di un complessivo forte ripensamento e rilancio da parte della comunità accademica internazionale e di una rinnovata attenzione da parte della Commissione europea. In mancanza di una capacità fiscale e di un orientamento di policy comune, tuttavia, vi è il concreto rischio che essa si traduca in esenzioni del generale divieto di aiuti di stato, motivate da obiettivi di carattere tecnologico e produttivo che potrebbero non tenere in conto le disparità territoriali e portare a concentrarsi nelle regioni già più forti i nuovi investimenti che l’Europa si prefigge di sostenere nell’ambito dell’approccio dell’”autonomia strategica aperta”. Un rinnovato raccordo fra le politiche di coesione e quelle di promozione dell’apparato produttivo europeo è un tema fondamentale da discutere nella preparazione delle Prospettive Finanziarie dell’Unione post 2027.
Il futuro della Politica di coesione è incerto; essa sicuramente vive una fase cruciale. Come abbiamo provato ad argomentare deve chiarire la sua missione, risolvendo alcuni equivoci che si sono creati nel corso del tempo, migliorare la fase di progettazione politica e di esecuzione operativa e soprattutto accrescere le sinergie con le altre politiche, a livello nazionale e comunitario. Tuttavia, rimane uno strumento essenziale, irrinunciabile per l’Unione: la coesione economica, sociale e territoriale è fondamentale per aumentare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee e combattere il crescente euroscetticismo.