Già nel 1972 Pasolini dichiara di star scrivendo Petrolio 1. Nel 1975 ne parla come di «una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie» 2; e anche come di «un romanzo molto politico sulla società dei consumi, una società che finisce col vendere gli uomini e col consumare se stessa» 3. Di fatto, Petrolio rappresenta gli ultimi passi di Pasolini su un cammino iniziato ben prima, almeno fin dagli anni sessanta e interrotto all’improvviso con il suo assassinio. In qualche modo le sue varie poesie, le sue interviste fino all’ultima del 1° novembre 1975 alla vigilia della sua morte, alcuni film, alcuni articoli costituiscono lo sfondo per entrare in Petrolio e coglierne l’originalità. Un’osservazione alquanto simile si potrebbe fare – soprattutto in termini di radicalità – per quanto riguarda Salò o le 120 giornate di Sodoma (la cui prima proiezione si tiene a Parigi il 22 novembre, quindi pochi giorni dopo la morte di Pasolini).
Ho appena parlato di un cammino. Potrei dire anche una lotta, quella di Pasolini poeta civile, impegnato non a difendere una causa in nome dell’ideologia o della morale, non a cambiare la società, e nemmeno l’uomo definito dalla società, ma a mostrare la fondamentale diversità dell’umanità, la sua dimensione poetica e pertanto manifestamente eversiva – di fronte all’universo totalizzante, se non addirittura totalitario 4 del consumo e dell’edonismo prodotti da quello che Pasolini chiama neocapitalismo.
E si sa che Pasolini, attraverso questa «omologazione brutalmente totalitaria del mondo» arriva persino a diagnosticare una mutazione antropologica.
Dirlo e farlo sentire è una questione di dignità umana. Che l’esistenza umana abbia una dimensione poetica, e che quest’ultima sia forse addirittura la sua dimensione organica, è cosa che altri prima di Pasolini avevano già detto; però Pasolini è l’unico ad affermarla dicendo al contempo come davanti ai suoi occhi l’impoetico si stia imponendo non solo sull’anima umana ma anche sul corpo.
Ecco perché in ognuno dei suoi scritti egli non esita a «gettare il proprio corpo nella lotta» 5, a denunciare, a provocare, a giocare al paradosso – cioè ad insegnare costi quel che costi. Con rabbia, ossia mosso dall’amore della realtà, nel puro contatto immediato con il mondo, in un rapporto organico con l’essere. Detto con le parole di Pasolini: «sacrificare la coerenza all’incoerenza della vita» 6.
In questa dimensione, anche se a suo modo, si svolge tutto Petrolio.
Pasolini, Petrolio e la Torre di Chia – ciò che resta di un castello in rovina risalente al XIII secolo, a un centinaio di chilometri al nord di Roma, che Pasolini acquistò nel 1970. Nei suoi pressi egli fece costruire una casa-studio dove lavorò senz’altro a Petrolio: qualcosa di spartano, o di monastico se si vuole, nel senso di una spoliazione su tutti i fronti – come se davanti a ciò che è in gioco fosse necessario fare il vuoto. Non a caso, abbiamo le fotografie di Dino Pedriali del 1975, volute da Pasolini stesso – come se egli volesse anche far vedere a che punto si trovava allora.
Nudità del luogo – nudità dell’interno, minimamente arredato, dove convivono il contemporaneo e l’antico – convivenza sintetizzata dai tavoli di Alvar Aalto, «moderne interpretazioni della classica fratina» 7.
E anche il modo con cui il fuori e il dentro si riflettono sui vetri delle grandi finestre, un po’ alla maniera della casa Farnworth di Mies van der Rohe, ispirato all’abitare giapponese. Una «casa di cristallo», come Pasolini l’avrebbe chiamata, di cristallo o di vetro, sottolineando così una doppia apertura, con passaggi e trasparenza, dall’interno all’esterno, dall’esterno all’interno – giocando così con il confine tra la natura circostante e l’interno della casa.
Nudità del corpo di Pasolini stesso, mentre legge, lavora a… Petrolio, ma probabilmente anche sugli articoli scritti nel 1975 sul Corriere della Sera e su Il Mondo e raccolti nelle Lettere luterane.
E conferma che la «lotta» coinvolge il corpo tutto intero, l’essere corporeo nella sua interezza e riguarda il senso dell’abitare nell’epoca del neocapitalismo.
Nell’ambito della «lotta», è indubitabile la rilevanza del discorso di Eugenio Cefis nel 1972, che Pasolini voleva inserire in Petrolio 8, intitolato La mia patria si chiama multinazionale. Eugenio Cefis, allora presidente della Montedison, multinazionale attiva nella chimica, dopo aver gestito l’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, fino al 1971 (l’ENI, il cui fondatore e presidente fu Enrico Mattei fino all’attentato in cui morì), si rivolge agli allievi dell’Accademia militare di Modena. Le multinazionali, egli dichiara, rappresentano la dimensione del «potere reale», e non «una semplice ‘modernizzazione’ di tecniche»– commerciali, economiche, ecc. –, e nemmeno un semplice potere di lobbying 9.
Cioè:
– decentralizzazione (o moltiplicazione dei centri); «agilità»; efficacia – già effettive nelle imprese petrolifere per ovvie ragioni, ma probabilmente ottenibili in altri tipi d’impresa. (Cefis fa riferimento anche alla Chiesa in quanto – sebbene a modo suo – antico modello di multinazionale);
– subalternità degli stati nazionali rispetto alle multinazionali;
– ridimensionamento (del significato) dello stato, ma anche della patria o della nazione (non è più tempo di sfumature tra l’una e l’altra).
Dunque, il merito del discorso di Cefis è di esporre ciò che è (senz’altro è stato questo ad avere tanto colpito Pasolini fino a progettarne l’inserimento a metà libro). Tutto il resto non è che letteratura.
Esporci a ciò che è? A un potere «tecnofascista» come lo definiva Pasolini nelle Lettere luterane, tecnocratico perché gestisce l’efficacia di un funzionamento (tecnico) in cui la «realtà» non è più altro che ciò che appare in quanto riproducibile, consumabile e sostituibile, compresi gli uomini; fascista perché totalitario perfino nella sua falsa tolleranza, falsa perché maschera attraverso l’imposizione del consumo un’omologazione repressiva nella quale è il corpo stesso dell’uomo ad essere trasformato in merce al servizio del piacere. È la democrazia neocapitalista, fin dalla fine del secondo dopoguerra, a compiere una tale mutazione (antropologica) che il fascismo italiano e, in modo ancora più estremo il totalitarismo sovietico e quello nazista, pur nella loro criminalità, non erano riusciti a realizzare. Anche in relazione con la necessità di mantenere fanaticamente efficace questa democrazia neocapitalista che ormai non ha più niente a che fare con la libertà va letto il presunto coinvolgimento di Cefis sia nell’attentato a Enrico Mattei che nella strategia della tensione dal 1969 in poi. Per tutti questi motivi Cefis è un personaggio chiave di Petrolio in cui appare con il nome di Aldo Troja.
Detto questo c’è anche un secondo discorso di Cefis, sempre in quanto presidente della Montedison, il cui inserimento era anch’esso previsto a metà libro, 10 intitolato L’industria chimica e i problemi dello sviluppo e pronunciato nel 1974, sempre in un ambito militare, il Centro Alti Studi Militari. Questo discorso comincia con una costatazione (è l’argomento della sua prima parte): l’irrazionalità dello sviluppo economico ha generato degli squilibri in termini di progresso in tutti i territori (compresa l’Italia) e in ogni settore di produzione. Però, la chimica è in grado di riequilibrare tutto (è l’argomento della sua seconda parte): infatti, derivando i suoi prodotti dal petrolio in quanto materia prima, la chimica è in procinto di diventare il gestore integrale dell’intera catena agroalimentare, dell’intera catena di produzione farmaceutica, dell’intera catena tessile, e così via.
Dal petrolio base di un nuovo ordine geopolitico planetario al petrolio materia prima base di uno sviluppo senza progresso, cioè dall’ENI alla Montedison, il cerchio si chiude.
Petrolio quindi sembra essere in qualche modo Salò, rappresentazione dell’ultimo punto del consumo, cioè il cannibalismo (dalla merda che si mangia in Salò a «Il Merda», come Pasolini chiama il giovane prodotto dal potere consumistico, al quale dedica una sessantina di pagine in Petrolio, dall’Appunto 71 all’Appunto 72g), più il petrolio come sangue o linfa vitale del neocapitalismo – attraverso le multinazionali innanzitutto petrolifere e chimiche 11.
Insomma: si tratta di leggere tutto ciò che costituisce Petrolio alla luce del neocapitalismo nella sua sostanza più cruda – e anche più vischiosa.
Da lì forse anche la forma di Petrolio, magmatica o caotica – Pasolini parlava appunto del «carattere frammentario dell’insieme del libro» –, in quanto tale vera possibilità d’incontro tra multinazionale e lucciola, alla quale Pasolini dedicherà un suo famoso articolo, l’articolo delle lucciole: «Io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola» Dunque non solo la possibilità di un incontro ma soprattutto l’auspicio di uno scambio – articolato secondo una forma che non è altra che quella della vita: di fatto, procedere per appunti consente aggiunte, spostamenti, riformulazioni, modifiche, cambi di ritmo, senza nessuna linearità, ecc., cioè una mobilità continua della scrittura. Pasolini mescola gli stili di scrittura canonici fino a produrre una forma – a «fare una forma» 12, «qualcosa di scritto», un «blocco di segni» 13, ovvero una serie di blocchi di segni, egli dice – le cui proprie regole non risultano più da nessuno stile preesistente.
Di fatto, la lucciola da parte sua può apparire soltanto quando stiamo – finalmente – di fronte a ciò che è, ossia al potere reale (e alle sue conseguenze), addirittura di fronte a chi o a ciò che lo gestisce realmente – ripeto: ecco il merito dei discorsi di Cefis. Così si potrebbe anche dire che multinazionale e lucciola si trovano allo stesso livello – e contemporaneamente.
Conseguenza diretta: la possibilità – l’auspicio – di uno scambio, nel quale però l’una non si sostituisce all’altra, uno scambio che non è neanche un riequilibrio, uno scambio che non neutralizza nulla – al contrario, a neutralizzare è l’assenza di ogni possibilità di scambio.
Di cosa sia indice un tale scambio, è quanto si potrebbe trovare appunto nella forma con cui viene scritto Petrolio. Un altro indice «formale» anch’esso: Chia e il suo ambiente. Ci sarebbe anche un terzo indice, sempre «formale», cioè la Roma dove si svolge Petrolio, Roma con la sua modernità 14 che attraversa l’omologazione sofferta in prima persona da Pasolini. È sempre tutto una questione di forma, la forma non essendo altro che la sostanza delle cose.
Il che non è da poco per quel che riguarda anche la relazione tra il sapere che da un capo all’altro sorregge Petrolio e il modo di procedere di Petrolio – con specifico riferimento in quanto «il mio ‘progetto di romanzo’» 15 nell’articolo in cui appunto Pasolini esprime in poche parole la caratteristica essenziale di questo sapere: «Io so. Ma non ho le prove». Dunque un sapere privo di prove, eppure un sapere – la cui mancanza di prove non è un fallimento (nemmeno una forza). Non credo che si debba leggere qui una dichiarazione di debolezza e di rammarico da parte di Pasolini.
Un saper mettere insieme pezzi disorganizzati e frammenti in modo che ne emerga da sola la verità. Da sola, cioè con una sua coerenza che non risulta dalla logica, che non è gestita dalla logica. Questo, scrive Pasolini nel suo articolo, è il mio mestiere in quanto poeta. Con una formula un po’ lapidaria, direi: mostrare senza dimostrare. Spettando al lettore, cioè a ognuno di noi, imparare a riconoscere la verità 16.
A questo punto ci troviamo nella dinamica stessa di Petrolio: il modo in cui questo sapere dis-piega. Mostrare senza dimostrare, dis-piegare senza spiegare… Ecco perché Pasolini può scrivere a proposito di Petrolio: «Credo che sia difficile che il mio ‘progetto di romanzo’ sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti.»
Senz’altro il sapere qui in gioco avrebbe anche a che vedere con la «strana lucidità» a cui Pasolini faceva riferimento in uno scritto giovanile come Amado mio – parlava allora di «un attimo di strana lucidità» – e che si ritrova nell’Appunto 84 di Petrolio, scritto della maturità – strana lucidità perché, corrispondendo al carattere caotico della vita, è l’unica a consentire attinenza con la realtà.
Strana anche perché dà – all’improvviso – su un orizzonte che è quello della verità. Da lì dovremmo essere in grado di capire meglio che tipo di relazione intrattengano gli «intellettuali liberi» di cui parla Pasolini nel suo articolo del 14 novembre 1974 (e che non hanno nulla a che vedere con la figura illuminista e moralista dell’intellettuale alla francese) con il potere economico-politico, e, più in generale dovremmo essere in grado di capire come stare in libertà davanti al neocapitalismo e alle sue conseguenze.
Sarebbe quindi questa lucidità a rendere possibile la lotta così come la comprende Pasolini, cioè una lotta affatto diversa da una reazione contro o anti le multinazionali, e più largamente il neocapitalismo. Una lotta nella quale non è dato trovare nessuna volontà di tornare indietro, di restaurare, e nemmeno di rinnovare il passato – Pasolini ripete di non avere nostalgia, e che avere qualsiasi volontà di tornare indietro sarebbe un errore politico, umano e morale. Lo dichiara per esempio nel 1974: «L’errore è dire che bisogna tornare indietro […] Sarebbe un errore politico, e in fondo umano e morale, proprio per questa ragione non ho nostalgia. Non ho nostalgia. È nato un equivoco su quello che ho detto. Non ho neanche un po’ di nostalgia. Mai. In nessun momento, né della mia vita personale, né della vita del mio Paese. Non vorrei rivivere neanche cinque minuti del passato. Il passato mi dà sempre angoscia, mi dà un senso di imprigionamento. Nel passato non sapevo delle cose che adesso so. Perché dovrei rivivere quei momenti?» 17
(Di passaggio, sarebbe l’occasione per cominciare a comprendere che il conservatorismo impedisce l’accesso al passato – tanto quanto il progressismo impedisce l’accesso all’avvenire.)
Un errore politico, umano e morale, perché così non si fa che girare a vuoto, invece di stare di fronte a ciò che è davvero. Quando Pasolini, alla fine della sua ultima intervista, dichiara che «siamo tutti in pericolo», proprio questo è in gioco: siamo in pericolo nella misura in cui siamo, e fintantoché saremo, indietro rispetto alla verità, indietro rispetto al nostro tempo, cioè indietro rispetto a noi stessi. Di fatto, si tratta di confrontarci con la verità, e così imparare a muoverci in libertà all’interno del neocapitalismo.
Petrolio in quanto «summa» ci mette radicalmente davanti alla verità – a partire dalla quale poter essere liberi nell’epoca del neocapitalismo – e forse una lucciola è già sufficiente per rappresentare una tale possibilità di libertà. Ricordiamoci appunto ciò che disse Pasolini durante il suo ultimo incontro pubblico, tenuto a Lecce, il 21 ottobre 1975: «Bisogna trovare un nuovo modo di essere […], un nuovo modo di essere liberi. È un problema centrale per la nostra vita» 18.
Note
- Questo testo è un estratto rielaborato di un saggio ancora inedito di Dominique Saatdjian, L’Italia come possibilità, In cammino con Pasolini, a cui diamo accesso in anteprima con l’autorizzazione dell’autore
- Stampa Sera, 1° gennaio 1975.
- Arne Lundgren, ”Ultimo incontro con Pasolini”, Gotenborgposten, 7 novembre 1975.
- Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2011, p. 50.
- Pasolini, ”Guerra civile”, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2012, p. 150.
- Pasolini, ”Vittoria”, Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 2012, p. 204.
- Gianni Biondillo, Pasolini, il corpo della città, Ugo Guanda Editore, Milano 2022, p. 118 e seguenti.
- Quest’inserimento non compare negli appunti prima del suo assassinio. I curatori hanno comunque scelto di inserirlo e a mio parere hanno fatto bene. Cfr. Petrolio, Garzanti, Milano 2022, p.p. 699-716.
- Pasolini, «L’articolo delle lucciole», 1° febbraio 1975, Scritti corsari, op. cit., p. 134.
- Cfr. Petrolio, op. cit., p.p. 717-731.
- Ninetto Diavoli: «Pier Paolo vedeva nel petrolio il sangue, la linfa vitale di quel corpo sociale, di quella modernizzazione che tanto andava criticando.» in G. Oddo e R. Antoniani, L’Italia nel petrolio, Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica, Feltrinelli, Milano 2022, p. 363.
- Pasolini, Petrolio, Appunto 3c, op. cit., p. 31.
- Ivi, Appunto 103b, p. 549 seg. Et du tapuscrit [II] de «Tutto Petrolio», op. cit., p. 675 e seguenti.
- «Roma, con la tutta sua eternità, è la città più moderna del mondo: moderna perché sempre al livello del tempo, assorbitrice di tempo.» Pasolini, «Romanesco 1950», Il Quotidiano, 12 maggio 1950 (recensione a Mario dell’Arco).
- Articolo del 14 novembre 1974, i cui due successivi titoli, prima «Che cos’è questo golpe?», sul Corriere della Sera, poi «Il romanzo delle stragi», negli Scritti corsari, si completano reciprocamente. Cfr. SC, op. cit., pp. 88-93
- Perché spetta a ognuno di noi, e non più unicamente al «poeta», muoversi tra forme sempre più varie e diverse. Pasolini continua a ripeterlo, sia nell’introduzione degli Scritti corsari: «La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti (o altrimenti accepire le ripetizioni come delle appassionate anafore»; sia nel dattiloscritto [II], «Tutto Petrolio: »L’autore [ipotetico] dell’edizione critica ‘riassumerà’ quindi, sulla base di tali documenti – in uno stile piano, oggettivo, grigio ecc. – lunghi brani di storia generale, per legare fra loro i ‘frammenti’ dell’opera ricostruita. Tali frammenti saranno disposti in paragrafi ordinati dal curatore… (Petrolio, op. cit. p. 675 seg.; vedi sopra la nota 12.)
- «A colloquio con Pier Paolo Pasolini», in Politica e territorio, n°3, luglio-settembre 1974 (Pier Paolo Pasolini, Povera Italia, Interviste e interventi, 1949-1975, a cura di Angela Molteni, Kaos edizioni, Milano 2013, p. 336).
- «Volgar’eloquio», Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano 1999, tomo 2, p. 2832. Già nel 1958: «Solo una forza confusa mi dice che un tempo nuovo / comincia per tutti e ci obbliga a essere nuovi». La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 2010, p. 120.