La guerra si sta diffondendo. L’Unione sembra essere bloccata in un atteggiamento passivo, di pura reazione agli eventi. Quale dovrebbe essere la sua posizione nella guerra del Sukkot?
L’Unione Europea sta svolgendo un ruolo attivo, molto costruttivo.
Abbiamo ormai da molto tempo la lucidità di rimanere impegnati in un autentico processo di pace, cercando di trovare soluzioni durature. E questo anche quando molti attori in tutto il mondo sembravano rassegnati al fatto che la causa palestinese avesse, alla fin fine, smesso di essere una priorità e che fosse giunto il momento di passare ad altri temi. Quando gli Stati Uniti, sotto Donald Trump, hanno lanciato gli Accordi di Abramo, progetti di normalizzazione tra Israele e Paesi arabi, o quando hanno deciso di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, è stata l’Unione a mantenere una posizione ferma, continuando a difendere il principio della soluzione dei due Stati. Possiamo vedere fino a che punto questa posizione rimane oggi estremamente rilevante.
È sufficiente?
No, non lo è. Penso che l’Unione, con la sua posizione fondata sia sulla grande vicinanza a Israele – un Paese democratico con cui abbiamo legami economici molto forti – ma anche sul fatto che siamo il principale partner di sviluppo della Palestina, dovrebbe svolgere un ruolo più attivo, molto più centrale. Questo è ciò che molti Paesi della regione ci chiedono di fare.
Da sabato lei è stato in contatto con la maggior parte degli attori chiave della regione: cosa hanno rivelato queste conversazioni? Cosa ci si aspetta dall’UE?
Tutti percepiscono il rischio di un’escalation e di una conflagrazione che porterebbe a un’insicurezza e a un’instabilità ancora maggiori, e tutti ne sono preoccupati. Credo che il nostro ruolo debba essere quello di rimanere in stretto contatto con i Paesi della regione, monitorando gli sviluppi in tempo reale per decidere come agire al meglio, mostrando lucidità e cercando di creare le condizioni per la stabilità. Farò un esempio per mostrare perché queste conversazioni sono utili e necessarie. I leader della regione hanno giustamente richiamato la mia attenzione sull’importanza di non prendere decisioni affrettate in relazione agli aiuti alla Palestina, agli aiuti allo sviluppo o agli aiuti umanitari. Il Re di Giordania, il Presidente egiziano e il Primo Ministro palestinese sono stati chiari: è molto importante non cadere nella trappola tesa da Hamas, alimentando la sua capacità di sfruttare decisioni affrettate che accentuerebbero il radicalismo tra i palestinesi moderati che rimangono impegnati nel processo di pace. Da parte dell’Unione Europea, dobbiamo anche far sentire la nostra voce multilaterale, a favore del rispetto del diritto internazionale – ovunque.
Come spiega questa cacofonia europea, con simboli forti, misure annunciate e poi ritrattate, in particolare sulla questione degli aiuti alla Palestina?
Non voglio commentare i motivi. La cosa più importante è che l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, Josep Borrell, abbia chiarito la posizione dell’Unione Europea.
D’altra parte, accetto la mia parte di responsabilità: il Consiglio europeo deve garantire che gli Stati membri siano consultati su un argomento che li riguarda direttamente. Abbiamo delle linee guida strategiche e non possiamo accettare che una sanzione di fatto – perché l’annuncio del taglio degli aiuti allo sviluppo è di fatto una sanzione – venga presa dalla Commissione in modo unilaterale. Gli Stati membri devono essere consultati. La cosa più importante è che le cose siano state sistemate rapidamente e che i ministri abbiano ripreso questo dibattito.
L’analisi cartografica che abbiamo condotto da sabato sulle reazioni internazionali alla guerra del Sukkot sembra mostrare che il divario si sta allargando tra un Occidente sempre più unito e il resto del mondo diviso tra gli appelli alla de-escalation e il sostegno (per un gruppo più piccolo) ad Hamas. Come interpreta queste fratture di una guerra estesa, che sembrano sovrapporsi alla mappa del sostegno internazionale all’Ucraina?
Le crisi che stiamo affrontando, che si susseguono una dopo l’altra – la crisi climatica, la trasformazione digitale, la pandemia di Covid-19, la guerra della Russia contro l’Ucraina, la conflagrazione in Medio Oriente – evidenziano un serio rischio di frammentazione del mondo e di bipolarizzazione. La guerra è qui. Siamo entrati in un contesto pericoloso, in cui l’Unione Europea, con la sua storia segnata dalle tragedie del XX secolo, poi dalla costruzione di uno spazio giuridico, economico e ora di sicurezza condiviso, ha una particolare responsabilità.
Oggi assistiamo all’emergere di una narrativa, sviluppata principalmente dalla Russia nel contesto della guerra contro l’Ucraina e sostenuta da altri, che ha come obiettivo una serie di Paesi in Africa, America Latina e Asia. Sta a noi fare molta attenzione, con i nostri partner del G7, con i nostri partner transatlantici, con il Giappone e fondamentalmente con tutti i partner che condividono gli stessi modelli politici e gli stessi valori fondamentali, a non facilitare questa narrazione. In Africa, come in America Latina, dobbiamo essere intelligenti e abili.
Su scala continentale, sono molto convinto, insieme a pochi altri e da molto tempo, che dobbiamo stabilire un rapporto di sincerità con il resto del mondo.
In che senso?
A volte abbiamo un approccio troppo unilaterale: crediamo di poter persuadere il resto del mondo perché siamo convinti di avere ragione e di poter usare argomenti autorevoli. Dobbiamo cambiare questa situazione. Dobbiamo avere la forza di adottare un approccio diverso, accettando che la loro visione del mondo non è uguale alla nostra e che, su una serie di questioni, abbiamo una storia diversa e una diversa comprensione delle cose. L’autentico dialogo richiede pazienza e coraggio.
Cosa significa questo in termini pratici per l’Unione?
Il metodo usato nei decenni passati non corrisponde più a nulla oggi.
Era utilizzato in un mondo in cui il G7 esercitava un dominio economico e ideologico praticamente assoluto. Quel mondo non esiste più. È la realtà: il G7 dovrà accettare di condividere il potere. Dobbiamo ammettere che quando sono state create le istituzioni di Bretton Woods, decine di Paesi semplicemente non esistevano perché erano sotto il dominio coloniale. Se non osiamo aprire queste discussioni con i nostri partner in Africa, America Latina e Asia, allora faremo un regalo alle potenze che non vogliono un mondo basato sulle regole della dignità, dei diritti umani e della forza delle Nazioni Unite. Mi riferisco in particolare alla Russia, che, come sappiamo, è la principale forza ostile su questi temi.
È per questo che dovremmo considerare lo sviluppo di un asse euro-africano?
Sì, dobbiamo lavorare per un partenariato che guardi al futuro, sincero e paritario, senza ambiguità e basato su interessi reciproci. Questi interessi sono evidenti. Nella lotta contro il cambiamento climatico, ad esempio, dobbiamo sostenere l’idea che i Paesi africani non debbano scegliere tra la riduzione della povertà e il contenimento del riscaldamento globale.
Ritiene che l’accusa di «due pesi e due misure» debba essere ascoltata? Come dovremmo rispondere?
Abbiamo un modello politico istituzionale unico. La politica estera è condivisa tra gli Stati membri e le istituzioni europee. È un processo che sta attualmente convergendo, ma non accadrà da un giorno all’altro, ci vuole tempo.
In questa nuova esplosione di violenza in Medio Oriente, l’Unione Europea deve quindi rimanere costante e, soprattutto, coerente. Se difendiamo il diritto internazionale, dobbiamo difenderlo ovunque allo stesso modo. Poiché siamo uniti da un insieme di valori e sono i nostri valori a ispirare le nostre azioni, dobbiamo mantenerci coerenti. Va da sé che condanniamo questo attacco terroristico contro Israele e il popolo israeliano nei termini più forti possibili. È anche ovvio, ma va detto lo stesso, che riconosciamo il diritto del popolo israeliano e di Israele a difendersi in stretta conformità con il diritto internazionale e il diritto umanitario internazionale.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da una profonda destabilizzazione nel Sahel. L’Europa ha ancora un ruolo da svolgere in Africa?
In alcuni Paesi dell’Africa occidentale, abbiamo assistito allo sviluppo di una nuova minaccia ibrida contro l’Africa. Prende di mira prima gli africani e poi l’Europa. Si tratta del modello Wagner della Russia: catturare risorse economiche e naturali dando in cambio sicurezza a regimi e politiche fragili. La Russia sta utilizzando questa presenza sia per destabilizzare le relazioni tra Africa ed Europa, sia per cercare di diffondere la sua falsa narrativa, che mette in discussione i nostri principi democratici e il multilateralismo.
Vorrei fare un primo esempio, nel campo della sicurezza. Abbiamo lavorato con molta buona fede sia da parte africana che europea nel Sahel, su richiesta degli africani. Abbiamo messo in atto dei meccanismi con il G5 Sahel, che sono piuttosto complessi da un punto di vista istituzionale. È stata una mossa coraggiosa. Il Mozambico è un esempio leggermente diverso. Lì abbiamo visto una determinazione africana, espressa dalla SADC e dal Ruanda, a mobilitare le risorse di sicurezza africane per combattere i terroristi. Gli europei hanno fornito loro risorse materiali, finanziarie e militari. Questo processo sembra dare i suoi frutti e abbiamo anche iniziato a innestare un programma economico per garantire che, mentre il terrorismo si ritira, i territori della regione si sviluppino.
Anche la questione della migrazione è tornata sotto i riflettori. Recentemente ha criticato il modo in cui è stato raggiunto l’accordo con la Tunisia. Come mai?
Sono un forte sostenitore di una politica di coinvolgimento dei Paesi di origine e di transito e della costruzione di partenariati globali. In effetti, sono stato molto attivo nel far sì che il Consiglio europeo sostenesse il principio di questi negoziati.
Nel caso della Tunisia, ho criticato innanzitutto le modalità che, è vero, forse non sono l’elemento centrale. Penso che se l’Unione Europea deve funzionare correttamente, dobbiamo garantire il rispetto delle procedure, semplicemente perché servono a garantire l’unità. Su un tema così vitale come la migrazione, la Commissione da sola non può prendere una decisione del genere. Gli Stati membri devono essere consultati e devono approvarla. Questo garantisce l’armonia nel modo in cui sviluppiamo le nostre strategie. Non possiamo ignorare questa realtà. Ora che l’accordo è in vigore, dobbiamo ovviamente fare tutto il possibile per farlo funzionare.
E quale potrebbe essere secondo lei il giusto approccio?
Dobbiamo essere precisi. Quando si tratta di concludere questo tipo di accordo, dobbiamo considerare innanzitutto il rapporto che i Paesi hanno con altri Stati in termini di regimi di visto. Poi dobbiamo esaminare il legame tra gli aiuti macrofinanziari europei e le riforme richieste dal FMI. Si tratta di una questione piuttosto delicata e tecnica che sto cercando di formulare con molta attenzione. La prassi è la seguente: l’Unione Europea mobilita risorse macrofinanziarie in coordinamento con il FMI, tenendo conto del fatto che il FMI ha stipulato accordi con i Paesi interessati. Credo che dovremmo andare un po’ oltre: se il FMI richiede riforme che pongono grandi problemi ai governi, perché c’è il rischio di tensioni sociali, dovremmo esaminare nel dettaglio ciò che viene chiesto e cercare di trovare delle soluzioni. Se vogliamo un’Unione veramente geopolitica, dovremmo smettere di subappaltare col pilota automatico questo tema al FMI. Si tratta di un dibattito estremamente complicato, perché il FMI fornisce anche una garanzia di rigore nelle riforme.
Penso anche che non stiamo facendo abbastanza per smantellare le reti di trafficanti. Non possiamo permettere alle reti criminali di decidere chi può o non può entrare in Europa. Quando il terrorismo islamico ha colpito l’Europa, a Parigi e a Bruxelles, è stato un campanello d’allarme per la cooperazione di polizia e servizi giudiziari. Dobbiamo essere molto più ambiziosi per prevenire e smantellare davvero questi gruppi terroristici. Ritengo che la situazione che dobbiamo affrontare con i gruppi criminali transfrontalieri – presenti sull’altra sponda del Mediterraneo e nei Paesi terzi, ma che hanno anche centri operativi nei nostri Paesi – sia simile. Gli Stati membri devono rafforzare la loro volontà politica. L’Unione Europea non dispone di molti strumenti di intelligence o di azione diretta; possiamo coordinarli e incoraggiarli, ma spetta agli Stati membri sfruttarli davvero.
Dobbiamo anche sollevare la questione della migrazione legale. Infine, c’è la questione dei rimpatri e delle riammissioni. Oggi, la media dei rimpatri è del 20%: per i trafficanti, è un ottimo marketing.
Ai confini dell’Unione, infuria un’altra guerra: il conflitto tra Armenia e Azerbaigian…
È molto importante che l’Unione Europea si impegni nel Caucaso meridionale. Per troppo tempo siamo stati assenti e abbiamo lasciato che altri sviluppassero il loro cinico gioco. La nostra agenda nella regione non è occulta: vogliamo la pace e la prosperità, perché è nel nostro interesse strutturale avere un vicinato stabile e prospero nel Caucaso meridionale, in cui possiamo ridurre la tensione e il rischio di guerra. La nostra linea rossa sono i diritti e la sicurezza degli armeni del Karabakh, nei cui confronti l’Unione, insieme ad altri attori internazionali, ha un ruolo da svolgere.
A che punto è il processo di mediazione?
Ci sono diversi parametri sul tavolo. Prima di tutto, dobbiamo raggiungere una normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Azerbaigian basata sul riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale e della sovranità, senza alcuna ambiguità. Dobbiamo poi garantire che gli accordi di connettività – le vie di comunicazione terrestri tra le diverse regioni – rispettino i principi di sovranità, integrità territoriale e giurisdizione. Questo è l’aspetto principale su cui stiamo lavorando. Poi ci sono una serie di elementi che toccano il dolore del passato, le dimensioni più umanitarie. E c’è l’intera questione dello scambio di prigionieri. Ci sono prigionieri di guerre precedenti. Ci sono persone scomparse. Ci sono parti del territorio che sono state cosparse di mine…
Il nostro ultimo scambio risale al giorno successivo allo shock del ritiro americano da Kabul e alla presa di potere dei Talebani. Oggi, la guerra in Israele minaccia di estendersi. Perché, in queste due crisi geopolitiche che influenzano profondamente le nostre relazioni con il resto del mondo – dal Mediterraneo al Medio Oriente e all’Asia Centrale – l’UE sembra semplicemente reagire?
Dal ritiro da Kabul, l’Unione ha fatto progressi sulla scena internazionale. Il nostro coinvolgimento nel resto del mondo si sta intensificando, ma è un processo continuo. A Kabul, siamo mobilitati per individuare come rispondere alle esigenze del popolo afghano in termini di aiuti umanitari e per sostenere le iniziative volte a garantire una maggiore stabilità e sicurezza nella regione.
All’epoca, dissi al Grand Continent che, per noi, la cosa più importante era garantire che l’Afghanistan non tornasse ad essere un santuario del terrorismo internazionale; che era essenziale non fare un passo indietro in termini di diritti delle donne e di istruzione delle ragazze. Oggi possiamo constatare che la situazione è ancora peggiore di quella descritta all’epoca. Tutti i miei contatti in Asia Centrale mi dicono che sono preoccupati per l’Afghanistan, che pochi giorni fa è stato colpito da un terremoto estremamente letale. Dobbiamo restare in allerta.
La scorsa settimana, a Granada, avete avviato le discussioni tra i leader europei sulla prossima agenda strategica per il periodo 2024-2029. Qual è il suo obiettivo?
Siamo chiaramente a un punto di svolta. Guardiamo agli ultimi cinque anni: una crisi climatica in accelerazione, che ci mette di fronte alla nostra dipendenza dai combustibili fossili; una pandemia di Covid-19, che rivela la nostra dipendenza dai prodotti di base; una guerra scatenata contro l’Ucraina e ora la conflagrazione in Medio Oriente, che minaccia la stabilità e la sicurezza del continente. La nostra generazione si trova fondamentalmente in una situazione simile a quella dei padri fondatori. Il XX secolo è stato fratturato dalle guerre. Oggi, la guerra imperversa sul suolo europeo. Questo è il punto di partenza del nostro ragionamento: la nostra generazione ha il dovere di non vivere di illusioni. Le decisioni che prendiamo ora sono una scommessa per il futuro.
L’allargamento dell’Unione fa parte di questa riflessione?
L’allargamento è un investimento per la pace, la prosperità e la sicurezza. Pensiamo in termini controfattuali. Riusciamo a immaginare come sarebbe la situazione oggi, in caso di questa guerra contro l’Ucraina, se fossimo con un’Europa limitata ai suoi Paesi fondatori? Riusciamo a immaginare quale sarebbe il livello di insicurezza, instabilità e pericolo? Significa che i Paesi che oggi fanno parte dell’Unione Europea sarebbero probabilmente rimasti in una sorta di zona grigia, sospesi tra pericolo e incertezza. È un argomento piuttosto provocatorio, ma è innegabile.
Questo allargamento è una necessità – ma non significa che sarà facile.
Cosa comporta questo processo concretamente?
Dobbiamo creare le condizioni per rendere l’allargamento una realtà. Vedo due elementi chiave. Dobbiamo essere molto chiari e trasparenti con gli Stati che vogliono unirsi a noi: se loro devono fare delle riforme, anche noi dobbiamo rispettare i nostri doveri. Non possiamo sempre trovare scuse. È fondamentale imparare dal passato, e in particolare dalla delusione dei Balcani occidentali, che probabilmente ha facilitato coloro che volevano destabilizzare la regione. La nostra mancanza di chiarezza e coerenza ha facilitato la narrazione russa e forse anche quella cinese
La nostra vocazione è quella di vivere nello stesso spazio politico, nel senso di valori giuridici ed economici: il mercato interno con regole di diritto comuni, lo Stato di diritto basato su trattati e standard. E affinché questo funzioni, i Paesi candidati devono avere un sistema giudiziario indipendente, garantire il rispetto dello Stato di diritto e mettere in atto misure per combattere la corruzione. In secondo luogo, non vogliamo importare altri conflitti all’interno dell’Unione. La questione delle minoranze devono essere affrontate. Se ci sono controversie, si devono risolvere.
Poi, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo anche riconoscere che questa famosa capacità di assorbimento, come si dice in gergo tecnocratico, non ha nulla di teorico. Dobbiamo guardarci negli occhi, tutti e ventisette, non appena siamo sinceri sull’allargamento e sulle decisioni prese di recente, per prepararci insieme.
Si parla sempre più spesso di integrazione graduale dei Paesi candidati: è favorevole a questo approccio?
Non dobbiamo aspettare la fine del processo per lavorare più da vicino con i Paesi che vogliono unirsi a noi. Siamo favorevoli a un’integrazione graduale. È fondamentale che, man mano che le riforme progrediscono, questi Paesi possano beneficiare di alcune politiche e far parte di alcuni elementi del mercato interno. Questa è l’importante conversazione iniziata a Granada.
Pensa che un’Unione allargata a 35 membri possa funzionare senza cambiamenti istituzionali?
Dobbiamo porci tre domande, che forse sono le stesse che si sono posti i padri fondatori dopo la Seconda Guerra Mondiale. Cosa vogliamo fare insieme? Con quali mezzi decidiamo di finanziare e realizzare ciò che decidiamo di fare insieme? Come prendiamo decisioni insieme?
L’Unione con oltre trenta Paesi sarà molto diversa. È sempre molto difficile: non appena si parla di denaro, i dibattiti sono tesi; le emozioni a volte prevalgono sulla politica. Quindi, come finanzieremo le nostre politiche? Con i contributi nazionali? Con altre modalità di finanziamento del progetto europeo? Poi, se vogliamo essere in grado di continuare ad agire e reagire quando necessario, potremmo dover pensare di adattare i nostri processi decisionali. Si tratta di questioni difficili e complesse, ma non possiamo più permetterci il lusso di evitarle.
Sono lieto di constatare che i responsabili decisionali europei sono motivati ad affrontare questo tema e a partecipare pienamente al dibattito. Diversi Stati membri stanno apportando dei contributi e alcuni stanno incaricando degli esperti di preparare dei rapporti e di valutare i pro e i contro. La vitalità del dibattito democratico su questo tema è un prerequisito per raggiungere una posizione comune. Lo sappiamo meglio di chiunque altro: per essere uniti, abbiamo prima bisogno di un processo in cui scambiare opinioni, discutere e talvolta litigare. Questo è iniziato a Granada, con un impegno veramente sincero ai massimi livelli. Era importante, perché era in gioco la nostra credibilità: ora ci siamo arrivati.
Lei è stato il primo a parlare del 2030 come orizzonte temporale coerente per l’allargamento. Potrebbe ripercorrere il suo ragionamento, come è arrivato a stabilirla?
Questa data, 2030, è estremamente importante. È stata la prima volta che un funzionario europeo in veste istituzionale ha messo sul tavolo una tale scadenza.
Per me, è un modo per dire che siamo seri e che capiamo che non possiamo perdere altro tempo. Soprattutto, è una data che segna il nostro orizzonte con una duplice responsabilità: gli Stati che si uniscono a noi devono ovviamente mettere ordine in casa loro e realizzare le loro riforme. Ma abbiamo anche un obbligo morale nei confronti di noi stessi. Senza un orizzonte temporale, avremmo rischiato di continuare a temporeggiare, procrastinare e rimandare decisioni difficili.
Quali sono, secondo lei, i nodi problematici che renderebbero disfunzionale un’Europa a 35 o più membri?
Le politiche di coesione, le politiche agricole e questioni come il rapporto tra contributori netti e beneficiari netti del progetto europeo sono tutti argomenti che avranno un impatto su un’Unione con più di trenta membri. Alcuni di quelli che oggi sono beneficiari netti diventeranno contribuenti netti nei prossimi anni.
Tutto questo deve essere preparato con cura. Alcuni temono che l’Ucraina sia un Paese grande e che, in termini di coesione e agricoltura, possa alterare l’equilibrio. Ma l’Ucraina si trova in una situazione particolare: il Paese dovrà essere ricostruito. In ogni caso, dovremo trovare il modo di finanziarlo per aiutare gli ucraini a ricostruire il loro Paese – non solo gli europei, ma anche i nostri partner americani, il G7 e il Regno Unito. Lo faremo meglio con l’Ucraina all’interno o all’esterno del nostro mercato? Credo che la risposta sia evidente.
Su tutte queste questioni, la priorità è soprattutto quella di non cadere nei binarismi, ma di applicare le sfumature ovunque, al fine di produrre un dibattito di qualità.
Quali sono, secondo lei, le priorità strategiche principali dell’Unione Europea per il prossimo ciclo?
Per il futuro dell’Europa, quattro punti mi sembrano fondamentali.
Il primo è il rafforzamento della nostra base economica e tecnologica. L’approfondimento del nostro mercato interno e la finalizzazione dell’unione dei mercati dei capitali dovrebbero essere una potente leva per rendere più fluido il finanziamento della nostra autonomia. Dobbiamo essere una terra di innovazione, una terra di sviluppo. Dobbiamo quindi affrontare le nostre vulnerabilità e mobilitare i nostri punti di forza.
Il secondo elemento è la transizione energetica. La storia ci dice che il progetto europeo è iniziato con la questione delle materie prime, l’acciaio, e dell’energia, il carbone. È abbastanza sorprendente che nel 2023 il carbone e l’acciaio siano ancora al centro delle nostre discussioni. Come intendiamo sviluppare la sovranità energetica dell’Unione Europea? C’è un pericolo in agguato: o ci lanciamo in una concorrenza interna, tra europei o, al contrario, guardiamo all’Unione come un’entità economica, una potenza e un grande mercato interno. Abbiamo chiarito alcune questioni, stiamo facendo progressi sulle energie rinnovabili e sull’efficienza energetica, ma dovremo andare oltre questi temi.
Terzo elemento: sicurezza e difesa. Molto prima della guerra in Ucraina, ero tra coloro che erano convinti della necessità di compiere progressi in materia di difesa e sicurezza europea, in collaborazione con la NATO. Non possiamo esternalizzare la sicurezza. Stiamo consegnando armi all’Ucraina e sviluppando meccanismi come lo Strumento europeo per la pace. Ora dobbiamo sviluppare una base industriale di difesa e sicurezza con i nostri partner, che hanno anche interesse a rafforzarci. Saremmo i migliori partner e le nostre alleanze sarebbero più forti e solide se ci impegnassimo maggiormente su questo tema.
Quarto elemento: il coinvolgimento del resto del mondo. Il progetto europeo non è semplicemente quello di un grande mercato economico, né semplicemente quello di un’area in cui condividiamo valori fondamentali basati sulla dignità umana e sulla democrazia. Dobbiamo anche avere l’ambizione di difendere i nostri interessi e promuovere il nostro modello.
La combinazione di questi quattro punti costituisce la sovranità europea: l’autonomia strategica, di cui abbiamo parlato per tutto questo mandato. Non è più un tabù. Abbiamo bisogno di più sovranità, più controllo sul nostro futuro, sul nostro destino. In un certo senso, è quello che hanno fatto i padri fondatori dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando si sono messi a lavorare insieme per la pace e la prosperità. Non vogliamo subire il nostro destino.
Come pensa di convertire questi quattro elementi in un messaggio capace di mobilitare, mentre il ciclone politico non farà che accelerare per i prossimi mesi?
Questo è un punto essenziale. Per le generazioni dei miei nonni e persino dei miei genitori, il progetto europeo era una cosa ovvia. Queste generazioni avevano vissuto la guerra in Europa e potevano vedere che il progetto avrebbe portato pace, sviluppo e prosperità. Per la mia generazione e quella dei miei figli, la percezione del progetto europeo era già diversa, forse meno spontanea. La guerra in Ucraina e la pandemia prima ancora hanno cambiato tutto. Hanno dimostrato che l’Europa protegge. Molti cittadini, che siano molto interessati o meno al progetto europeo, sentono intuitivamente, istintivamente, cosa ha fatto l’Europa di fronte a queste due crisi. Vedono che l’azione concertata, il coordinamento e la volontà di agire insieme sono molto più efficaci per la loro vita quotidiana rispetto all’alternativa, che sarebbe stata la frammentazione, con ventisette reazioni diverse.
La narrativa mobilitante, quindi, è l’Europa. L’Europa propone una visione coerente per il nostro futuro comune. L’Europa protegge. Ha un impatto positivo sulle condizioni di vita, rispetta la dignità, la libertà. l’Europa può mobilitarci.