Il conflitto, l’etica, la guerra, l’onore, ritorno sui valori di Cormac McCarthy

Per Lorenzo Castellani lo scrittore americano è stato una scoperta adulta, avvenuta durante la pandemia, che ha dato profondità alla sua visione del mondo. In una lunga analisi del pensiero mcCartiano, lo storico italiano prova a cogliere l’importanza dei suoi temi per leggere la società contemporanea

Autore
Lorenzo Castellani
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Cormac McCarthy nel 1973, David Styles (dominio pubblico)

Il mio primo libro di Cormac McCarthy, La Strada, l’ho letto durante la pandemia, nel corso del secondo lockdown. Non sono un esperto di letteratura, infilo romanzi di varia epoca senza un filo rosso tra le miriadi di saggi che costellano il mio lavoro quotidiano, ma di questo scrittore americano, che a mala pena conoscevo di nome perché della propria ignoranza non ci si deve mai meravigliare, ho letto tutta l’opera in meno di tre anni. Sono un dilettante e dunque non ho alcuna pretesa dottrinaria o di fare letteratura sull’argomento, vorrei soltanto commemorare un grande scrittore, che forse è stato qualcosa in più anche di un semplice scrittore, probabilmente un classico, forse uno dei grandi umanisti di questo tempo. 

La Strada è un romanzo ambientato in un mondo post-apocalittico che racconta il cammino di un padre e di un figlio in un mondo devastato e terrificante. L’ho letto quando mio figlio aveva pochi mesi, regalatomi da mia moglie, e mentre eravamo rinchiusi in casa per un virus che uccideva e devastava. Forse per tutto questo sono rimasto così legato a McCarthy. Ma al di là della contingenze sono lo spirito biblico e la potenza della prosa ad aver attirato tutta la mia attenzione fin da quel primo incontro letterario. Cormac ci costringe subito alla solennità e al confronto con l’infinito.

«Ti parlerò tutti i giorni, sussurrò. E non mi dimenticherò. Per niente al mondo. Poi si alzò, si voltò e tornò verso la strada. Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno. Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle terre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero»1

L’afflato di Melville, i concetti di Flannery O’Connor, il tocco stilistico di William Faulkner. Non ci sono fronzoli in McCarthy, asciutto, duro ed essenziale come sono i classici, nei suoi romanzi si occupava soltanto delle questioni fondamentali come, ad esempio, il rapporto tra uomo e natura, tra uomo e catastrofe

«Tutto bene?, chiese l’uomo. Il bambino annuì. Poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro».2

Oppure la libertà, con noi studiosi di cose politiche che rintracciamo uno spirito burkiano nei suoi romanzi: la libertà dell’uomo e i suoi limiti naturali, i legami del passato, il katechon delle istituzioni, la conoscenza umana sempre indefinita e limitata. 

«Non riusciamo piú a badare a noi stessi, e l’unica cosa che rimane da vedere è se il fato vorrà proteggerci con una sua forma di pietà. O se invece ne avrà poca. O nessuna. Gli uomini parlano di destino cieco, di qualcosa che agisce senza schemi o fini. Ma che sorta di destino è mai questo? Ogni atto compiuto in questo mondo è irreversibile, ed è preceduto da un altro, e da un altro ancora. Tutti insieme formano una rete immensa nello spazio e infinita nel tempo. Gli uomini immaginano di poter scegliere fra le possibilità che vedono davanti a sé. Ma noi siamo liberi di agire solo in base a ciò che ci è stato dato. La libertà di scelta si smarrisce nel labirinto delle generazioni, e in questo labirinto ogni atto è in sé un asservimento, poiché sgombra il campo da tutte le alternative e ci lega sempre piú strettamente alle costrizioni di cui è fatta la nostra vita».3

«Non avevano alcun rapporto con nulla, forse neppure con lo spazio che occupavano. Le loro esperienze di vita li avevano condotti alle stesse convinzioni dei loro padri. Anche solo questo è una forma di proprietà».4

«L’eredità del mondo è una cosa fragile pur nella sua potenza, ma so bene come la pensi, ’sere. So bene che ci sono parole pronunciate da uomini scomparsi da secoli che ti porterai per sempre nel cuore».5

Il rapporto cardine della trasmissione umana, il passato che si addentra nel presente, un testimone passato tra padri e figli, legame indissolubile tra morte e vita, tra cose abbandonate e proprietà tramandate. 

Sono questi gli unici appigli alla verità, a qualche certezza mondana, nella versione cruda di McCarthy che poi riprende un topos tipico del ventesimo secolo, ossia lo sfasamento tra utopia e realtà, tra sogno e concretezza. Senza infingimenti, senza indorare la pillola, con un forma intrinseca di nostalgia il grande americano segna la rottura.

«Ci svegliamo ricordando gli eventi di cui erano composti, mentre spesso la storia narrata nel sogno è elusiva e difficile da ricostruire. Eppure la storia è la vita del sogno, mentre gli eventi in sé sono spesso intercambiabili. D’altra parte gli eventi del mondo diurno ci sono imposti, e la storia è l’asse invisibile sul quale devono allinearsi. Spetta a noi soppesare, dividere e ordinare questi eventi. Siamo noi a metterli insieme nella storia che è noi stessi. Ogni uomo è il bardo della propria esistenza. È questo ciò che lo lega al mondo. Sfuggire al sogno che il mondo sta facendo su di lui, questo è al tempo stesso la sua punizione e la sua ricompensa».6

La storia è l’asse da comporre, mentre il sogno inganna ogni uomo. Ne discende una concezione di cristiana limitatezza dell’essere umano, la necessità di accettare il mondo per quel che posto inospitale che è, l’ineluttabilità di un destino che somiglia alla Provvidenza e può essere scoperto ma mai condotto, l’impotenza dell’uomo in un luogo che per gran parte ignora, non è conoscibile o dominabile e che prima o poi sbatterà con violenza i desideri umani per terra.

«Tu puoi chiamare a te il mondo che Dio ha creato, nient’altro che quel mondo. E questa tua vita alla quale dai tanta importanza non è opera tua, qualunque sia il nome che decidi di darle. La sua forma è stata imposta al vuoto fin dall’inizio del mondo, e tutto ciò che si può dire di come sarebbero potute andare altrimenti le cose è senza senso, perché non si dà nessun altrimenti. Di cosa potrebbe essere fatto? Dove potrebbe nascondersi? Come potrebbe fare la sua comparsa? La probabilità di ciò che è reale è assoluta. Il fatto che non abbiamo il potere di intuirlo prima che accada non lo rende meno certo e determinato. Il fatto che possiamo immaginare storie alternative non significa nulla».7

Se queste sono le condizioni di minorità nell’uomo allora si può solo lottare per credere, portare il «fuoco» che il padre e il figlio de La Strada immaginano, resistere nelle sparatorie e nella violenza della Trilogia della Frontiera, nelle atrocità del Far West di Meridiano di Sangue.

«Questa tua vita non è un ritratto del mondo. È il mondo stesso, e non è fatta di ossa o di sogni o di tempo, ma di devozione. Non c’è nient’altro che possa contenerla. Nient’altro che possa esserne contenuto. La cosa che cerchiamo è tutt’altra. Sebbene possa venire costruita nei sogni degli uomini o dalle loro azioni, non sarà mai quella giusta. Questi sogni e queste azioni rispondono a una terribile fame. Si sforzano di venire incontro a un bisogno che non possono mai soddisfare, e di questo dobbiamo essere grati».8

Devozione, credo e gratitudine sono i sentimenti di rassegnazione e speranza per sopravvivere alla natura maligna e all’impotenza della conoscenza che l’uomo deve racimolare.  Proprio perché la natura è terribile e insondabile essa deve essere contemplata e riverita in quanto portatrice del mistero della vita

«Disse che il lupo è un essere di ordine superiore, che sa cose che gli uomini non sanno: che non c’è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte. Alla fine disse che gli uomini bevono il sangue di Dio senza capire l’importanza di quello che fanno. Disse che gli uomini vorrebbero agire seriamente ma non sanno come fare. Tra i loro atti e le loro cerimonie c’è il mondo e in questo mondo scoppiano temporali e gli alberi si torcono al vento e tutti gli animali creati da Dio vanno e vengono, eppure gli uomini questo mondo non lo vedono. Vedono le azioni delle proprie mani, oppure vedono ciò che nominano e si chiamano per nome l’un l’altro, ma il mondo lì in mezzo per loro è invisibile».9

Ne consegue una sfiducia nella ragione e nella sua strumentalità che McCarthy sbatte in faccia al lettore europeo nelle prime pagine di Cavalli Selvaggi per bocca dei suoi cowboy.

«Noi non crediamo che la ragione possa migliorare il carattere dell’uomo. Questa è una idea francese […]. Penso che la nozione che la specie umana possa migliorare in qualche modo, che tutti possano vivere in armonia, sia un’idea molto pericolosa. Coloro che sono viziati da quest’idea sono anche quelli che svenderanno le proprie anime, la libertà».10

Ma ciò non significa certo rinunciare alla ricerca o abbandonarsi alle scorciatoie del pensiero magico quanto a prendere atto dei suoi limiti.

«L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino».11

Una sintesi tra il filo rosso che tutto ordisce e il rifiuto del razionalismo pedagogico conduce ad un romanticismo originale, forgiato da un ordine dei sentimenti che deve avere a che fare con un mondo spietato e manicheo.

«Il mondo poteva solo essere conosciuto per come esisteva nei cuori degli uomini. Perché per quanto sembrasse un luogo che conteneva degli uomini, in realtà era un luogo contenuto nei loro cuori e quindi per conoscerlo era lí che bisognava guardare, e imparare a conoscere quei cuori, e per far ciò si doveva vivere con gli uomini e non limitarsi a passare in mezzo a essi».12

Concetto ribadito nel più recente Il Passeggero, sul mistero dell’uomo.

«E cosa siamo noi? Dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno».13

Senza il mistero, senza il cuore, la ragione si tramuta in un mostro arido e mortale perché capace di annientare ogni differenza che è invece fonte di creazione e vita.

Una tale premessa conduce ad una visione politica che mescola lo scetticismo metodologico del conservatore ad una visione hobbesiana della vita associata, sentite cosa McCarthy fa dire al Giudice Holden, forse la sua figura letteraria più riuscita che unisce crudeltà e saggezza sapienziale.

«La selezione di un uomo a danno di un altro è una preferenza assoluta e irrevocabile, ed è davvero ottuso l’uomo che considera una decisione cosí profonda priva di un agente o di un significato. In giochi del genere, in cui la posta è l’annichilimento dello sconfitto, le decisioni sono del tutto trasparenti. L’uomo che tiene in mano una particolare combinazione di carte è in forza di ciò rimosso dall’esistenza. Tale è la natura della guerra, in cui la posta in gioco è a un tempo il gioco stesso e l’autorità e la giustificazione. Vista in questi termini, la guerra è la forma più attendibile di divinazione. È la verifica della propria volontà e della volontà di un altro, all’interno di quella piú ampia volontà che è costretta a compiere una selezione proprio perché li lega insieme. La guerra è il gioco per eccellenza perché la guerra è in ultima analisi un’effrazione dell’unità dell’esistenza. La guerra è dio.14

Nel Passeggero questa legge di natura, che prevale sulla legge formale, si riaffaccia.

«Ma naturalmente a minacciare chi si fa beffe della legge non è tanto la società equa quanto quella decadente. È qui che pian piano il bandito finisce col diventare indistinguibile dalla collettività. Col ritrovarsi cooptato. Difficile oggigiorno essere un gaudente o un farabutto. Un debosciato. Un deviante? Un pervertito? Stai scherzando. I nuovi ordinamenti hanno pressoché cancellato dalla lingua queste categorie. Non puoi piú essere una donna dissoluta. Per esempio. Una sgualdrina. Il concetto stesso è privo di senso. Non puoi manco essere un drogato. Se va bene sei un semplice consumatore. Un consumatore? Che cazzo significa? In un paio di annetti siamo passati dai fattoni ai consumatori. Non ci vuole Nostradamus per prevedere dove andremo a finire. I criminali piú efferati reclamano uno status. Serial killer e cannibali rivendicano il diritto al loro stile di vita. Come chiunque altro cerco di capire quale sia il mio posto in questo zoo. Senza malfattori il mondo dei giusti è completamente spogliato di senso».15

È ancora in Oltre il confine, in un passaggio che sembra quasi richiamare la visione di Kissinger, il conflitto è l’unico mezzo per definire chi siamo, l’unico meccanismo che stabilisce un limite alla possibilità umana, un freno al dominio indefinito e distruttore.

«Lui comprendeva quello che al prete sfuggiva. Che siamo in cerca di un avversario di valore. Sferriamo il primo colpo per cadere flagellati tra demoni di cartapesta e aneliamo alla presenza di un avversario di valore. Qualche cosa che ci limiti o che ci blocchi la mano. Altrimenti non vi sarebbero confini al nostro essere e anche noi dovremmo estendere a tal punto le nostre rivendicazioni da perdere ogni definizione. Fino a venire inghiottiti proprio da quel vuoto al quale desideravamo essere contrapposti».16

Ne consegue una inevitabile filosofia della storica di stampo machiavelliano.

«La legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprivare il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo».17

Come ha scritto il poeta italiano Davide Brullo, direttore di Pangea Rivista: «Come Tolstoj, Cormac McCarthy è l’ultimo erede della tradizione del romanzo ‘morale’ – cioè, naturalmente immorale»18. Se così è, la condizione naturale si può sopportare soltanto credendo in qualche valore antico, come l’onore. McCarthy così fustiga l’America dell’ultimo secolo, dimentica delle grandi fondamenta del passato. Nel Passeggero la contesa tra i Kennedy, simbolo per eccellenza dell’élite democratica, e la mafia italo-americana viene risolta a favore degli uomini di onore.

«Il punto è che i Kennedy non erano assolutamente in grado di afferrare l’implacabile etica di guerra dei siciliani. I Kennedy erano irlandesi e credevano che si vincesse parlando. Non si erano veramente resi conto che esisteva quest’altra cosa. Ricorrevano ad astrazioni per fare discorsi politici. La gente. La povertà. Non chiedete cosa il vostro paese bla bla bla. Non capivano che in giro c’era ancora gente che credeva davvero in cose come l’onore»19

Il conflitto, l’etica, la guerra, l’onore sono i valori che, nel mistero irrisolto dell’uomo e di Dio, fanno vibrare i romanzi di McCarthy. Un mondo dove la giustizia non esiste perché non può essere data. Dunque, McCarthy come profeta reazionario e cupo.

«La gente vuole che il mondo sia giusto. Ma il mondo su questo non si esprime. Vincere una guerra o una rivoluzione non convalida la causa».20

Dunque, McCarthy come profeta reazionario e cupo.

«Se tutto quel che amavo al mondo non c’è più che cosa cambia se sono libero di andare a fare la spesa?».21

«Una disgrazia non può essere cancellata da nessun bene. Può solo essere cancellata da una disgrazia peggiore».22

«Qualsiasi rimedio alla solitudine non fa che rimandarla. E verrà il giorno in cui non ci sarà piú nessun rimedio».23

Ma nella sua visione cristiana esiste sempre una possibilità fornita dal libero arbitrio e un’altra offerta dalla catarsi. Nel Passeggero il suo protagonista ombroso viene attinto da parole come coltelli tra una bevuta al bar e un omicidio.

«La sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. Ma l’infelicità è una scelta.24

Mentre il perdono è la vera liberazione, unico esercizio rivoluzionario di fuga dalla massa.

«Pietà è la contrada dell’uomo solo. Esiste l’odio di massa e il cordoglio di massa. La vendetta di massa e il suicidio di massa addirittura. Ma non c’è il perdono di massa. Ci sei solo tu».25

Cormac McCarthy si è spento pochi giorni fa a quasi novant’anni, alla fine di una vita condotta da randagio e da eremita. Orfano di un Nobel negato, dopo aver licenziato altri due capolavori pochi mesi prima di morire. Come accade per i giganti, anche per sigillare l’addio alla vita terrena, nessun ricordo è meglio raccontato che non quello generato dalla loro prosa, Il guardiano del frutteto in questo caso.

«Sera. I morti custoditi nella crosta terrestre, che girano ogni giorno la lenta ruota del mondo, in pace fra le eclissi, gli asteroidi, le polverose stelle nuove, con le ossa chiazzate di terra e le cellule del midollo che si trasformano in fragile pietra, le dita intrecciate alle radici, uniti a Thot e ad Agamennone, ai semi e alle cose non nate».26

Mentre a noi profani, ma segnati dalla grandezza del maestro, basta la dolcezza inquieta della poesia che mette alla fine alla Trilogia della frontiera per continuare a giocare e per commemorare.

«Io sarò il bimbo, perché tu mi abbracci, E tu me, negli anni in cui sarò vecchio. Nel mondo cresce il gelo, Qualcosa infuria in cielo. La storia è ormai finita, Volta la pagina fra le tue dita».27

Note
  1. Cormac McCarthy, La strada, trad. di Martina Testa,  Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2010.
  2. ibid.
  3. Meridiano di sangue, trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1996.
  4. Città della pianura (Cities of the Plain, 1998), trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1999.
  5. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  6. Città della pianura (Cities of the Plain, 1998), trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1999.
  7. ibid.
  8. Meridiano di sangue, trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1996.
  9. Oltre il confine, trad. di Rossella Bernascone e Andrea Carosso, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1995
  10. Cavalli selvaggi, trad. di Igor Legati, Einaudi, 1996
  11. Meridiano di sangue, trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1996.
  12. Oltre il confine, trad. di Rossella Bernascone e Andrea Carosso, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1995
  13. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  14. Meridiano di sangue, trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1996.
  15. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  16. Oltre il confine, trad. di Rossella Bernascone e Andrea Carosso, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1995
  17. Meridiano di sangue, trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1996
  18. Panottico, newsletter di Rivista Pangea, pangeanews.it, giugno 2023
  19. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  20. Cavalli selvaggi, trad. di Igor Legati, Einaudi, 1996
  21. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  22. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  23. Oltre il confine, trad. di Rossella Bernascone e Andrea Carosso, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1995
  24. Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2023
  25. ibid.
  26. Il guardiano del frutteto, trad. di Silvia Pareschi, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2002
  27. Città della pianura (Cities of the Plain, 1998), trad. di Raul Montanari, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1999.
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