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La Brexit è tanto un divorzio tra la Gran Bretagna e l’Europa quanto la manifestazione di un divorzio interno alla società britannica. La rottura tra Leavers e Remainers (che Jonathan Coe descrive brillantemente nel suo ultimo romanzo, che va oltre la politica per diventare una questione di “stile di vita”) potrà essere ricucita dal sistema politico britannico?
Occorre distinguere due questioni fondamentali: quella della natura di tale rottura e quella della sua profondità.
La natura di questa divisione sembra senza dubbio essere più culturale che economica. In generale, non c’è una differenza economica sostanziale tra coloro che hanno votato a favore della Brexit e quelli che hanno votato contro – infatti, i sostenitori del Leave sono solo leggermente più ricchi dei sostenitori del Remain. Alcuni suggeriscono che il voto pro-Brexit è stato determinato dalle vittime, dagli esclusi della globalizzazione – in poche parole dai poveri del Nord-Est dell’Inghilterra. In realtà, questa non è altro che una minima parte di un gruppo di sostenitori molto più ampio, che comprende anche molte persone ricche che hanno votato a favore della Brexit.
Ora, questa divisione ha, in qualche misura, sostituito la classica divisione interna alla politica britannica, tradizionalmente basata sull’appartenenza di classe. Un famoso sociologo dell’inizio del XXI secolo ha stabilito che la classe era alla base della politica britannica, mentre gli altri fattori erano puramente incidentali. Alla fine degli anni ’40 e all’inizio degli anni ’50, la classe sociale di ciascuno determinava effettivamente la scelta di voto. Al giorno d’oggi la divisione sembra presentarsi soprattutto come una divisione culturale, la cui caratterizzazione cambia in base al gruppo nel quale ciascuno si riconosce. Se si è dalla parte degli elettori anti-Brexit, si tende a descrivere i Remainers come più aperti e i Leavers come più chiusi. Se si è pro-Brexit, si tende a dire che i Leavers sono più orgogliosi della Gran Bretagna e i Remainers più cosmopoliti. Questo è ormai fortemente radicato nella storia e nell’identità britannica.
Ma forse la cosa più interessante è la profondità di questa rottura. Quella britannica è una società che non conosce la rivoluzione dal XVII secolo. E, a differenza della maggior parte dei paesi del mondo sviluppato, quando si fanno i sondaggi di opinione si scopre che le priorità degli elettori tendono ad essere molto simili. Ciò è, ad esempio, molto diverso negli Stati Uniti, dove gli elettori democratici si preoccupano maggiormente di questioni legate all’istruzione e alla sanità e quelli repubblicani di sicurezza ed economia.
Finora non era questo il caso della Gran Bretagna: tutti gli elettori, conservatori e laburisti, erano generalmente d’accordo sul fatto che la salute fosse la priorità. E, sorprendentemente, c’era molto poco disaccordo su questioni come la monarchia o la politica di difesa. In generale, il popolo era unito attorno alla volontà di mantenere un’economia di mercato regolata pragmaticamente, per di più la Gran Bretagna non ha mai conosciuto movimenti comunisti o fascisti di rilievo. Inoltre, i mezzi di espressione e di azione democratica erano generalmente accettati da tutti.
Ora, ciò che è senza precedenti nel referendum sulla Brexit non è tanto che il popolo non si sia trovato d’accordo, ma il fatto che gli elettori anti-Brexit abbiano rifiutato di accettare il risultato del voto. Mi sarei aspettato, data la storia britannica passata, che la maggior parte di quegli elettori avesse la mia stessa reazione: ho votato per rimanere nell’Unione Europea ma ho perso, i nostri avversari hanno ottenuto 1,5 milioni di voti in più, quindi dobbiamo accettarne le conseguenze.
Bensì, sin dai primi istanti dopo il risultato della votazione, gli elettori anti-Brexit hanno insinuato che il risultato non fosse valido, basandosi sul fatto che i sostenitori del Leave sarebbero degli ignoranti; in seguito hanno provato a chiedere un secondo referendum. Nella politica britannica, questo fenomeno è estremamente nuovo ma allo stesso tempo leggermente pericoloso. Infatti, nella misura in cui le persone che hanno votato per la Brexit lo hanno fatto perché credono che la fonte dei loro mali sarebbe un’élite distaccata che li disprezza, e considerando che queste persone hanno vinto per 1,5 milioni di voti, ignorarle, impedire che la Brexit avvenga, chiedere un secondo referendum, non fa che esacerbare queste tensioni.
Questo fenomeno solleva anche molte domande insolite su ciò che le persone intendono per democrazia nel nostro paese. I cittadini non avevano mai pensato alla possibilità che gli elettori potessero non avere lo stesso livello di istruzione? Qual è la loro reale concezione di come il paese dovrebbe essere governato, di come i problemi dovrebbero essere risolti: non è forse vero che tutti i britannici hanno diritto ad un voto eguale? Queste riflessioni hanno davvero lasciato intendere da entrambe le parti che il consenso fondamentale che pensavamo esistesse nella politica democratica britannica si è incrinato in un modo estremamente pericoloso ed insolito, ed è stato improvvisamente vittima di contestazioni.
La crisi della Brexit finirà per influenzare la monarchia, in particolare nel periodo che seguirà al regno di Elisabetta II?
La monarchia è infinitamente cerimoniale e apolitica. Anche nei momenti più importanti della sua esistenza non ha preso posizione, non si è schierata. Non ha nemmeno espresso un parere sull’indipendenza scozzese che minacciava l’unità del Regno Unito, nonostante questa fosse la ragion d’essere della monarchia stessa. La monarchia potrà dunque sopravvivere alla Brexit, ma solo a costo di diventare sempre più periferica. Ciò che è più preoccupante è l’effetto sull’intera costituzione politica del regno, poiché vengono messi in discussione il ruolo del Parlamento, della Camera dei Lord, del potere giudiziario, del nostro sistema elettorale, ecc. E nessuno capisce più veramente quale dovrebbe essere la vera natura di queste istituzioni. Cos’è il Parlamento, per esempio, e quali sono le sue prerogative? Le nostre libertà sono garantite dal Parlamento o dai cittadini? Questa è una domanda essenziale perché oggi vediamo il popolo che vota in un certo modo e il Parlamento che cerca di ostacolare quel voto. Da questa prospettiva, nessuna istituzione uscirà indenne da questa crisi, tranne forse la monarchia.
Sotto molti aspetti Londra sembra più vicina a Parigi, Barcellona o Milano che a molte altre città britanniche di medie dimensioni. Sebbene candidato a sindaco di Londra, lei ha una conoscenza intima, politica e letteraria della provincia britannica. Quale pensa che dovrebbe essere il rapporto tra la capitale e gli altri territori britannici?
C’è un urgente bisogno di capire che Londra non è una città-stato 1. Non è Hong Kong o Singapore o la Venezia del XV secolo; è la capitale del nostro paese. Londra ha enormi obblighi nei confronti delle aree marginali del Regno Unito. La città genera denaro per il Regno Unito, certo, ma trae da questo anche molta della sua energia. È quindi di estrema importanza impedire che la politica londinese diventi provinciale. I miei avversari tendono a rivendicare legittimità elettorale dal loro essere londinesi, perché sono nati lì e lì hanno passato tutta la loro vita. Io voglio far valere l’argomentazione opposta. Abbiamo bisogno di qualcuno che rappresenti Londra riuscendo allo stesso tempo a percepire la posizione di Londra all’interno del Regno Unito. Penso inoltre che sia importante che io abbia vissuto a Hong Kong, Lahore, Kuala Lumpur, Jakarta, Sarajevo, Boston, Kabul: porto a Londra il senso di cosa sia una città, ovvero un senso molto più ampio di quello che potrei portare se avessi passato tutta la mia vita a Londra. Anche il venire oggi a Parigi è molto importante: mi permette di vedere come si stanno evolvendo la pianificazione urbana, le politiche di sviluppo e di gestione, ecc. in città diverse da Londra. Come si può immaginare il futuro di Londra se non si hanno punti di confronto?
Come va concepito il rapporto di Londra con le altre capitali europee dopo la Brexit?
Vorrei cercare di fare in modo che Londra rimanesse una delle capitali d’Europa. Mi piacerebbe costruire un’alleanza con tutte le altre capitali europee, perché vedo Londra come un mezzo per tenerci più strettamente legati all’Unione Europea.
Tuttavia, ciò non significherebbe rompere il legame tra Londra e le regioni periferiche della Gran Bretagna. Dobbiamo fare entrambe le cose. In questo senso, la mia grande ispirazione è il direttore del British Museum, il mio amico Neil McGregor, che ha creato legami forti con Berlino, ma ha anche portato i tesori del British Museum in tutte le città di provincia del Regno Unito, in 400 musei regionali in totale.
In un’intervista con Gilles Kepel, lei ha spiegato come un paesaggio come quello lungo il confine scozzese, la zona del Vallo di Adriano, originariamente di lingua gallese, poi vichinga, “mette a nudo i molti modi in cui la Gran Bretagna non è britannica” (“the many ways in which Britain is not British”). La nazionalizzazione della linea del partito conservatore non ha reso impossibile un tale discorso per i vostri elettori?
É solo una questione di invenzione di comunità immaginarie e di tendenza a semplificare e ridurre. Di fronte a questo mondo sconcertante e complicato, ci tiriamo indietro e ci perdiamo d’animo. È proprio questa l’origine del desiderio di indipendenza scozzese, della Brexit, e anche di coloro che vogliono fare di Londra una città-stato e dimenticare tutto il resto. Il mondo sembra più semplice se lo si semplifica. Eppure il coraggio, la resistenza e l’ostinazione politica nella vita consistono nel rimanere aperti alla complessità e all’ambiguità.
Intorno a quali valori dovrebbe riorientarsi il discorso del partito conservatore?
Dobbiamo innanzitutto prendere coscienza del fatto che la nostra concezione di democrazia e la nostra pratica di democrazia in Gran Bretagna non sono davvero democratiche. Non mobilitiamo le menti dei nostri 70 milioni di cittadini. Questo modo di fare politica è ancora troppo radicato nelle idee ereditate da Rousseau, nella concezione generale, nell’idea che c’è un Popolo, che le persone esprimono la loro volontà e poi stanno zitte per quattro o cinque anni, durante i quali il governo attua questa volontà generale, prima di richiamarle per esprimere il loro parere. Dobbiamo tornare alla nozione inglese, molto più antica, di giuria, composta da normali cittadini scelti a caso non per prendere una decisione isolata, ma per deliberare, per riflettere. La verità che caratterizza Parigi o Londra è che i cittadini non seduti al governo sono intelligenti, forse più intelligenti, più esperti e meglio informati delle persone che effettivamente governano. Noi esseri umani siamo animali politici, e come tali abbiamo tutti bisogno di partecipare attivamente alla nostra cittadinanza e di contare di più nelle nostre decisioni. L’attuale modello di governo è condiscendente, offensivo e infantilizzante per i nostri cittadini. Gran parte del populismo deriva dalla nostra incapacità di includere le persone in una conversazione adulta sul cambiamento pratico.
Per farlo, i politici devono rendersi molto più vulnerabili e aperti al pubblico. Il modello ideale è, in un certo senso, quello del sindaco di una città francese, che puoi fermare al supermercato per dirgli cosa pensi delle sue politiche. Ma siamo ancora molto lontani da questo. Ritornare a quel senso di impegno civico è vitale per il rispetto di noi stessi e la nostra vita politica.
Lei è, come Boris Johnson, un puro prodotto delle istituzioni che compongono l’élite britannica (conservatrice). Da dove viene la sfiducia nei confronti dell’élite in Gran Bretagna e come può la sfiducia costringere le élites a ripensare la loro utilità sociale?
Eton, dove ho fatto il liceo così come Boris, è quasi come una scuola professionale specializzata, che funziona come una sorta di versione britannica dell’ENA, trasposta al liceo. La gente fraintende la sua natura quando immagina che la selezione sia basata sulle tradizionali differenze di classe. In realtà, gli ex Etoniani che ora sono parlamentari, Arcivescovi di Canterbury, ecc. non sono generalmente di origine aristocratica. Di solito sono figli di professionisti, accademici o funzionari pubblici, ma quello che hanno in comune è il fatto che hanno frequentato una scuola secondaria che si è concentrata sulla formazione di ufficiali dell’esercito, politici e alti funzionari statali per quasi cinquecento anni. Ciononostante, nel discorso britannico questa realtà non è conosciuta; al contrario, Eton è additata come simbolo di un presunto potere esercitato dalla vecchia aristocrazia sulla vita pubblica, e la sua immagine è usata per stigmatizzare un’illusoria opposizione tra il popolo ed i miliardari. In realtà, il 7-8% della popolazione britannica frequenta scuole private con rette paragonabili a quelle di Eton; pochissimi di loro entrano in politica.
Tuttavia, se i sospetti nei confronti delle élites possono essere legati a Eton nella mente di alcune persone, a un livello più profondo c’è un sospetto nei confronti del governo, basato sulla sensazione che il governo sia irragionevole, che la sua attività sia palesemente assurda, che le sue infinite promesse non vengano mantenute: in breve, che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato e disfunzionale. Qualcuno si chiederà: nessuno gestirebbe mai un ristorante in questo modo, quindi perché comportarsi così con un governo? Penso che questa reazione non rappresenti un’opposizione rivoluzionaria nei confronti dell’1% più ricco del paese; ma è principalmente una reazione di indignazione al fatto che i nostri parlamentari, il nostro partito, il nostro governo, le nostre istituzioni, hanno manifestamente fallito nel loro modo di governare.
Per rispondere a questa sensazione diffusa tra la popolazione, qual è l’alternativa alla soluzione scelta da Boris Johnson, vale a dire l’adozione di uno stile populista?
A mio giudizio, l’opzione alternativa è quella di coinvolgere nuovamente il pubblico in una conversazione molto più dettagliata, ovvero di rifondare una democrazia deliberativa attraverso assemblee di cittadini. Prendiamo l’esempio della Brexit: 300 persone verrebbero selezionate a caso da tutto il paese e verrebbe permesso loro di dibattere per tre settimane, allo scopo di esaminare i dettagli della Brexit e fare raccomandazioni al Parlamento. Questo è del resto ciò che ha fatto l’Irlanda con il dibattito sull’aborto. Così facendo, le persone passerebbero da discussioni astratte sulla Brexit a conversazioni molto più dettagliate sul tipo di politica immigratoria, di politica economica che vogliono, o sul tipo di società che immaginano. In generale, questi dibattiti conducono ad un livello notevole di compromesso. Per risolvere le opposizioni binarie bisogna far sì che le persone vedano e discutano con gli stessi dati alla mano, e far sì che emergano evidenze comuni.
Quella impiegata da Boris Johnson è una versione esagerata di ciò che la politica ha sempre fatto, cioè raccontare favole. Tutti i politici praticano un esercizio di marketing molto curioso, semplificando le idee in modo grottesco. Si riferiscono ai loro elettori come alle vittime di un nemico immaginario – comunque lo si voglia chiamare: i banchieri, l’élite, l’altro partito politico – e si atteggiano a salvatori offrendo una soluzione semplicistica. E, per qualche misteriosa ragione, il pubblico si lascia ancora e ancora abbindolare da questa favola, senza essere in grado di smascherarne il funzionamento.
La società, infatti, non è mai divisa tra la massa sofferente e la piccola élite che la tormenta. Giusto il 5-10% della popolazione può trovarsi davvero in una situazione di miseria e di estrema precarietà, d’impotenza politica, ma la maggior parte di noi ha la capacità di definire la propria vita. Una delle verità nascoste della politica americana ed europea, e anche una verità nascosta dalla teoria di Thomas Piketty, è che il cambiamento più drammatico avvenuto tra il 1980 e il 2019 sta nel divario che si è ampliato non tra l’1% più ricco della popolazione ed il restante 99%, ma tra il 50% più ricco e il 50% meno ricco. È in quel periodo che le curve prendono direzioni opposte, in gran parte a causa di fattori come l’aumento del valore dei beni mobiliari e immobiliari.
Tuttavia ci sentiamo a disagio con l’idea che potremmo davvero vivere in una società in cui non è poi vero che il 99% della popolazione soffre della persecuzione esercitata dall’1% più ricco. Più della metà di noi vive abbastanza bene, e solo il 10-20% di noi vive in condizioni molto povere. Tutto ciò è tanto meno visibile dal momento che questo 10-20% non vota, il che rende la situazione ancora più problematica. Voglio parlare a nome degli immigrati clandestini, delle popolazioni nomadi, dei malati mentali, degli anziani più poveri, di coloro che dormono per strada e altrettanti soggetti impopolari di cui i politici sono restii a parlare. Eppure queste persone di solito non votano, anche se sono quelle che soffrono di più. A Londra, le condizioni di vita più difficili sono spesso quelle dei lavoratori polacchi o lituani, che spesso vivono a trentacinque anni in spazi minuscoli, in edifici che infrangono tutte le regole che dovrebbero garantire un alloggio decente.
Queste sono le cose che mi preoccupano della nostra società, e non credo che le stiamo affrontando. Parte della colpa sta nel modo in cui la politica viene insegnata nelle scuole – in una modalità che asseconda gli ideali degli studenti. Qui vengono branditi gli esempi di Nelson Mandela, Martin Luther King o Gandhi per suggerire che la politica è una sorta di rivoluzione permanente: lezione che deriva anche dal discorso ereditato dalla rivoluzione francese. Tuttavia, non viene insegnato ai giovani cosa significa concretamente ad esempio mandare un ispettore degli alloggi in una casa per assicurarsi che non ci siano 30 lavoratori polacchi che vivono ammassati in tre stanze.
Preferiamo guardare alle grandi idee, concentrarci ad esempio sulle questioni climatiche, evitando di chiederci perché la metropolitana è sporca, i suoi vagoni fatiscenti, la segnalazione urbana difettosa, la polizia inadempiente, ovvero evitiamo tutte quelle questioni essenziali alla gestione di un buono stato o una buona società – cosa che, invece, sarebbe stata ovvia per un romano. Se aveste chiesto ad Adriano o a Marco Aurelio in cosa consistesse il mestiere d’imperatore, loro non avrebbero risposto offrendo queste visioni utopiche. Avrebbero definito l’essenza dell’imperatore come il cercare ogni giorno di essere giusto, riflessivo, il provare ad essere un buon romano, l’assicurarsi che le persone siano trattate in modo equo, che la fornitura di acqua funzioni correttamente. Lo stesso vale per la democrazia in Grecia nel suo momento di massima espansione: gli ateniesi cercavano di immaginare come vivere insieme in una città, non di reimmaginare l’universo.
Note
- Grande camminatore attraverso le regioni di tutto mondo, Rory Stewart ha pubblicato una traduzione francese del suo Les Marches. Aux frontières de l’identité britannique (Gallimard, collezione Esprit du monde, 2019), che racconta una meditazione itinerante lungo il Vallo di Adriano sul confine scozzese.