La chiave di lettura dominante della politica americana negli ultimi due decenni è stata la polarizzazione. Gli stati Uniti sarebbero un paese diviso in due, tra Democratici e Repubblicani, coste e terre di mezzo, città e zone extraurbane.
La vittoria di Biden appare tuttavia difficile da conciliare con questo schema: la sua campagna elettorale ha insistito nel presentarlo come centrista moderato, mentre la polarizzazione implicherebbe uno svuotamento dell’area di centro.
Vi è senz’altro una componente anti-Trump nel voto per Biden. Ma nemmeno questo rende conto di come il futuro Presidente degli Stati Uniti abbia potuto imporsi sull’ala più radicale del suo partito, rappresentata da candidati come Bernie Sanders, Elizabeth Warren, e ora Alexandria Ocasio Cortez.
Per spiegare la vittoria di Biden – e anticiparne qualche conseguenza – è necessario aprire le ‘scatole nere’ rappresentate dai due poli artificialmente creati dallo schema della polarizzazione. Così facendo, si scoprirà immediatamente che in America esistono almeno quattro poli ideologici distinti.
Ciò disegna uno schema multi-polare che ricorda più i sistemi politici pluralisti dell’Europa continentale del secolo scorso rispetto al bi-polarismo caratteristico dei sistemi politici anglosassoni. Approfondire quest’analogia con l’Europa di ieri offre ulteriori spunti per capire cosa aspettarsi dagli Stati Uniti di domani.
Partendo da sinistra, troviamo prima di tutto una corrente progressista all’interno del partito Democratico Americano che si ispira esplicitamente alla tradizione socialdemocratica Europea. Le sue proposte di spicco – come ad esempio il ‘Medicare for All’ e il ‘Green New Deal’ – possono apparire radicali negli Stati Uniti, ma in realtà corrispondono a una forma di welfarismo abbastanza classico da un punto vista Europeo.
Spostandosi più verso il centro, si incontra una corrente più moderata dei Democratici che per molti versi ricorda i vecchi partiti della Democrazia Cristiana Europea. Oltre al fatto che Joe Biden ha dichiarato esplicitamente di trarre ‘ispirazione’ dalla sua fede cattolica nella sua offerta politica, in essa si ritrovano molti elementi dell’ideologia caratteristica dei partiti democristiani di una volta: dal centrismo che si pone come ‘terza via’ tra la sinistra e destra estreme, fino all’obiettivo di ricomposizione dell’armonia sociale secondo una concezione organicistica del corpo politico, condensata nello slogan ‘Restore the Soul of America’.
Passando poi dall’altro lato del versante politico americano, si incontra prima di tutto una corrente di Repubblicani tradizionali, rimasta sommersa durante gli ultimi quattro anni, ma che ora sembra destinata a riemergere insieme alle ambizioni politiche di figure come Mitt Romney o Mitch McConnell. Più liberista in ambito economico e socialmente conservatrice rispetto ai Democratici moderati, questa corrente ideologica ha più di un aspetto in comune con l’orientamento storico dei partiti liberali dell’Europa continentale.
Per finire, all’estrema destra del sistema politico statunitense di oggi troviamo una forma di nazionalismo populista fino a poco tempo fa considerata estranea alla cultura politica degli Stati Uniti, ma fin troppo nota dall’altro lato dell’Atlantico. Nonostante vi sia ancora disaccordo tra gli esperti se il trumpismo possa essere adeguatamente descritto come forma di proto- o neo-fascismo, è evidente che rappresenta una trasformazione radicale di ciò che viene considerato politicamente accettabile nel nuovo continente.
Nella misura in cui queste analogie permettono di parlare di una ‘europeizzazione’ del sistema politico americano, appare anche plausibile cercare nel repertorio della scienza politica europea categorie più adeguate a descrivere la situazione attuale negli Stati Uniti.
In particolare, appare illuminante il concetto di “pluralismo polarizzato” coniato da Giovanni Sartori durante gli anni ’60 per spiegare l’impasse politica della Prima Repubblica italiana. La tesi di fondo è che in contesti di alta frammentazione sociale e ideologica tendono a prodursi due conseguenze principali:
- Una competizione politica “centrifuga”, dato che le forze ai due estremi dello spettro politico hanno interesse a distinguersi dalle altre avanzando proposte sempre più radicali, con poche probabilità di doverle mettere in pratica concretamente.
- Una coalizione di governo “centripeta”, dato che le varie forze moderate sono costrette a cooperare tra loro per assenza di alternative percorribili, facendo perno sulle poche cose che hanno in comune, cioè una difesa dello status quo e del sistema istituzionale.
La combinazione di queste due tendenze spiega ciò che Sartori descrisse come “l’immobilismo” della Prima Repubblica italiana. Ora, qualcosa di molto simile sembra delinearsi anche negli Stati Uniti. Indipendentemente da ciò che succederà al Senato dopo il ballottaggio in Georgia di gennaio, l’ipotesi più probabile rimane una linea di governo estremamente moderata, assediata da una duplice opposizione radicale, da destra e sinistra.
Le prime nomine ministeriali ne danno un assaggio. Il Presidente eletto ha fatto ricorso a figure ben note dell’establishment centrista, suscitando uguale indignazione tra i Trumpisti e i progressisti. Il futuro Segretario di Stato, Antony Blinken, era già stato il vice di John Kerry durante l’amministrazione Obama. La futura Ministra del Tesoro, Janet Yellen, è stata a capo della Fed sia sotto Obama che sotto Trump.
Qui vale la pena ricordare che nell’analisi Sartoriana “l’immobilismo” centrista della Prima Repubblica italiana non era supposto avere un effetto stabilizzante sul sistema politico. Al contrario, Sartori temeva che esso avrebbe finito col mettere in causa le istituzioni stesse, in quanto generava domande di cambiamento sempre più radicali, alle quali non poteva dare risposta.
Il paradosso è quindi che il centrismo può avere un effetto destabilizzante sul sistema istituzionale, nella misura in cui è – nelle parole di Sartori – “sia un residuo che una causa di sempre crescente polarizzazzione” in contesti di alta frammentazione ideologica.
Lo stesso vale per gli Stati Uniti di oggi. Infatti, se il centrismo residuale dell’amministrazione Biden sembrerebbe aver per il momento rassicurato gli interessi di mercato, alla lunga rischia di mettere ulteriore pressione sul sistema istituzionale, contribuendo a rafforzare le ali estreme del sistema politico senza dargli alcuno sbocco sulle politiche di governo.
Possiamo quindi aspettarci più turbolenza dagli Stati Uniti, non malgrado, ma proprio perché un governo di centro moderato appare ora inevitabile.