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Le banche centrali, dopo essere state protagoniste nella gestione della crisi economica del 2008, sono al centro della scena anche nel fronteggiare l’epidemia di coronavirus.
È evidente che tali istituzioni agiscano su impulsi politici di governi democraticamente eletti, ma è altrettanto palese che i centri delle decisioni fondamentali sono sempre più dislocati in corpi a carattere tecnocratico.
Negli ultimi anni ho più volte definito i nostri regimi politici come tecnopopulismo, per identificare le due tendenze prevalenti, quella tecnocratica e quella populista appunto, che li attraversavano. Di fronte alla pandemia, l’impressione è che si corrobori la tesi della compresenza di queste due spinte all’interno delle democrazie europee.
L’attuale agenda politica, radicalmente trasformata dall’emergenza, è per gran parte espressione delle richieste dei nuovi partiti populisti (di destra e sinistra) e nazionalisti. Maggiore interventismo monetario della BCE, maggiore flessibilità delle regole sui bilanci pubblici, maggiore controllo sui confini, ri-nazionalizzazioni di alcune utilities, barriere protezionistiche e massicci piani d’azione gestiti ed attuati dagli Stati nazionali sono tutte proposte che hanno attraversato i programmi di gran parte dei partiti radicalizzati di destra e sinistra.
Il paradosso è che l’implementazione di queste politiche vedrà, con ottime probabilità, il coinvolgimento di un gran numero di tecnocrati. Infatti, come la banca centrale aumenta il flusso monetario, così serviranno a breve burocrazie pubbliche e private, nazionali e sovranazionali, per pianificare e svolgere gli interventi economici. In altre parole, le strutture tecnocratiche svolgeranno l’agenda politica dei populisti.
D’altronde, questo esito era prevedibile: dopo la seconda guerra mondiale ci fu sì una positiva esplosione democratica con la ri-organizzazione dei partiti di massa, ma a seguito del piano Marshall e della linea economica keynesiana vi fu anche uno straordinario sviluppo degli enti e delle aziende statali per gestire sia le economie nazionali che lo sviluppo del welfare state.
Nei prossimi anni le fabbriche della competenza, le università, i think tank e gli enti di formazione non conosceranno crisi e lavoreranno senza sosta per certificare nuovi esperti e tecnici. L’azione di impulso monetario ed i futuri piani di spesa dei governi europei necessiteranno di economisti, statistici ed informatici; le nuove infrastrutture richiederanno una nuova leva di ingegneri e progettisti; il “New Deal” sanitario reclamerà più medici e scienziati; si moltiplicheranno le agenzie, le autorità, gli istituti e gli enti specialistici per fronteggiare l’emergenza sia a livello nazionale che europeo; le grandi aziende coinvolte nelle commesse di Stato aumenteranno l’osmosi tra burocrati, manager e consulenti.
È evidente che questo personale tecnico sarà coinvolto nello sviluppo delle politiche, riceverà impulso dalla politica, ma svolgerà un ruolo fondamentale nel definire praticamente quelle decisioni prese dai governi. Di fatto, già nei primi giorni della crisi del coronavirus abbiamo visto un’influenza senza precedenti da parte di medici, scienziati e istituzioni sanitarie sulle decisioni ed i provvedimenti assunti dalla politica. “Tutte le decisioni prese dal governo sono supportate scientificamente” ha dichiarato il segretario di stato del Primo ministro francese.
A dimostrazione che le idee politiche possono cambiare molto più rapidamente delle infrastrutture istituzionali, un ordine che continua ad operare anche di fronte ai cambi di paradigma politico.
Alexis de Tocqueville nel suo fondamentale libro “L’antico regime e la rivoluzione” fu forse il primo storico della modernità a mettere a fuoco la continuità delle istituzioni di fronte alle rivoluzioni politiche: in una scena politica completamente mutata nell’arco di pochi anni, la centralizzazione dello Stato francese non solo resisteva, ma ne usciva rafforzata. Con il sistema delle istituzioni burocratiche e tecnocratiche, nazionali e sovranazionali, andrà probabilmente alla stessa maniera. Non vi sarà alcuna decentralizzazione o democratizzazione delle istituzioni come sognano alcuni teorici populisti, sovranisti e anche libertari. Esse si perpetuano, pur nel rovesciamento delle idee politiche e nell’alternarsi delle correnti del pensiero economico.
Certo, questo non significa che non possano farsi spazio tecnici e specialisti d’idee diverse rispetto a quelli del passato. La realtà spesso non corrobora le teorie politiche ed economiche, e gli ultimi quindici anni ce lo testimoniano. Questa fragilità delle scienze sociali ci mostra forse la debolezza maggiore del sistema di governance tecnocratica, e cioè la difficoltà di legittimare a lungo la propria posizione da parte dei tecnici al potere. La legge di circolazione delle élite si applica alla gestione tecnocratica allo stesso modo che per la politica rappresentativa.
Essendo afferenti al kratos, al potere, essi di fatto incorrono nelle dinamiche della politica. Occupano il loro posto sulla base del principio di competenza e non di quello democratico, ma non sono protetti dalla scientificità del loro sapere di fronte ai rivolgimenti politici. Di fatto, una posizione politica può essere mascherata, per essere meglio legittimata sotto forma di scienza, tecnica o regole, ma al fondo resta sempre tale. Può vincere o perdere a seconda degli eventi. E più si nasconde il suo essere politica, più è rovinosa la caduta nella sconfitta. Questa appare dunque la maggiore difficoltà della classe tecnocratica, costretta a rinnovarsi tanto rapidamente quanto quella politica di fronte alle deviazioni della realtà.
Da ultimo, vi è da considerare la complessa posizione dei partiti populisti (di destra e sinistra) e nazionalisti. Essi oggi scontano il rischio di una possibile vincente stabilizzazione economica e sociale effettuata dai governi europeisti e centristi, con le idee che gli stessi hanno cullato per anni. La nuova agenda politica ispirata dai partiti politici polarizzati verrebbe così assorbita e controllata dalle forze di governo. Con il rischio per i movimenti anti-establishment che i loro consensi vengano riassorbiti e stabilizzati dai governanti nell’esercizio della sovranità sullo “stato d’eccezione”. In questo caso i vecchi partiti resterebbero in sella, seppure con un programma scritto da altri. Alla continuità istituzionale che abbiamo visto in precedenza dunque, si aggiungerebbe quella degli attori politici. Cambierebbero le politiche, ma non i gestori del potere.
Oppure, nello scenario opposto, quest’agenda di matrice “populista”, che viene legittimata pubblicamente oggi dai partiti di governo, potrebbe risultare troppo soft oppure inefficace, dunque incapace di riassorbire anni di malcontento e delegittimazione delle élite politiche oggi al governo. Di conseguenza si spianerebbe la strada ad una futura vittoria elettorale delle opposizioni (di destra, ma anche di sinistra) nei prossimi anni. Con un programma politico verosimilmente ancora più duro e radicale. In questo secondo scenario va considerata, come aggravante della situazione, la distanza nei programmi e nelle prospettive delle varie forze populiste e nazionaliste tra i vari paesi europei (si pensi alle differenti posizioni di politica economica tra sovranisti del sud e del nord ad esempio). Differenze che sarebbero esacerbate ulteriormente dalla spinta ancora più forte alla ri-nazionalizzazione della politica e dell’economia, come conseguenza della crisi e del fallimento della cura.
Tuttavia, un’analisi realista non può escludere le sfumature, che spesso predominano sulle visioni nette.
In conclusione, si deve considerare che questo nuovo allineamento tra idee e realtà politica potrebbe incentivare nuove possibili combinazioni, fino a ieri impensabili, tra partiti centristi e partiti radicali. Uno dei possibili elementi positivi dello stimolo monetario e fiscale varato durante la crisi potrebbe essere l’affievolimento delle conflittualità sul piano economico-finanziario tra partiti mainstream e partiti anti-establishment.
Sulla base di questo nuovo consensus, inedite coalizioni potrebbero vedere la luce nel prossimo futuro. Non va dimenticato infatti, osservando l’ultimo secolo di storia, che spesso i momenti di crisi, quando non hanno prodotto il collasso del sistema, hanno dato vita a nuove grandi convergenze politiche.