Dramatis Personae

Li Ka-shing, fondatore di CK Hutchinson
Laurence “Larry” Fink, fondatore e CEO di BlackRock
Gianluigi Aponte, fondatore della Mediterranean Shipping Company
Donald Trump
Xi Jinping

Non sono stati loro a farlo. Siamo stati noi. I panamensi non hanno nemmeno fornito la manodopera, che proveniva dalla Cina, dall’Africa, dal Madagascar, dai Caraibi e dall’India.

Gli operai di Panama 

Uno dei personaggi del romanzo di spionaggio di John Le Carré, “Il sarto di Panama” (1996), rivendica che sono stati gli Stati Uniti, e non Panama, a costruire il Canale. “Non l’hanno costruito loro. L’abbiamo costruito noi. I panamensi non hanno nemmeno fornito la forza lavoro, che è arrivata dalla Cina, dall’Africa, dal Madagascar, dai Caraibi, dall’India”. Tra i vari costruttori materiali del Canale, in quel passaggio di Le Carré, spuntano i cinesi. 

Il rapporto tra Panama e la Cina torna al centro dell’attenzione il 20 gennaio 2025. 

Il riferimento a Panama, infatti, è l’unico passaggio del discorso inaugurale in cui si parla in modo diretto della Cina, all’interno dell’esaltazione compiuta da Trump del suo punto di riferimento preferito, il presidente McKinley. 

Nella narrazione di Trump, McKinley, patrono dei dazi, prima della sua uccisione “dà a Teddy Roosevelt i soldi per molte delle grandi cose che ha fatto, compreso il Canale di Panama, che è stato follemente dato a Panama dopo che gli Stati Uniti – pensateci – ci hanno speso più denaro di quanto sia stato mai speso per un progetto e hanno perso 38.000 vite per costruirlo (…). La Cina ora opera il Canale di Panama. Non l’abbiamo dato alla Cina. L’abbiamo dato a Panama, e ora ce lo riprendiamo”. 

Il sogno di un canale che collegasse gli oceani attraverso l’istmo di Panama esisteva da secoli ma era considerato, nell’Ottocento, un progetto troppo ambizioso.

Come ricorda Julie Greene dell’Università del Maryland nei suoi vari studi su questo tema, un tentativo francese sotto Ferdinand de Lesseps negli anni ’80 del XIX secolo fallì in modo spettacolare a causa di cattiva gestione, malattie devastanti, problemi finanziari ed errori ingegneristici. 

Nel 1904, gli Stati Uniti trovarono un nuovo impulso, sotto la spinta di Theodore Roosevelt, grande costruttore del “secolo americano”. 

Il Canale di Panama doveva diventare e divenne un mito visibile della forza infrastrutturale e della perizia ingegneristica degli Stati Uniti, capaci di organizzare una enorme lavoro per un grande obiettivo e capaci anche – di conseguenza – di “organizzare il mondo”.

Chi costruì il Canale di Panama? Quasi 200.000 lavoratori erano presenti nella Zona del Canale durante l’era della costruzione. Nel corso del decennio di costruzione, tra le 150.000 e le 200.000 persone migrarono sull’istmo per lavorare al progetto. I lavoratori provenivano da tutto il mondo, inclusi Stati Uniti e Canada, i Caraibi, il nord e il sud Europa e l’India. 

La gestione di questa forza lavoro diversificata e la determinazione su chi impiegare rappresentarono una sfida significativa per i funzionari statunitensi. John F. Stevens, capo ingegnere dal 1905 al 1907, svolse un ruolo cruciale nel plasmare il progetto di costruzione, concentrandosi in particolare sulla riorganizzazione della ferrovia e sul trasporto efficiente dello scavo. Stevens e il suo staff dibatterono a lungo sulle virtù di vari tipi di lavoratori, classificandone l’efficienza per provenienza e nazionalità.

I lavoratori delle Indie Occidentali, in particolare quelli di origine africana provenienti dai Caraibi britannici, erano la maggior parte della forza lavoro durante lo sforzo francese e rimasero una scelta naturale per il progetto statunitense. Tuttavia, molti funzionari, e lo stesso Stevens, criticarono la loro prevalenza. Comunque, i lavoratori afro-caraibici formarono la maggior parte della forza lavoro. 

La possibilità di importare lavoratori cinesi fu seriamente considerata, e sostenuta da Stevens.

L’Europa era distruzione (e si sarebbe auto-distrutta), mentre l’America era la terra della costruzione, perno dell’infrastruttura del mondo.

Alessandro Aresu e Antonio Caffaro

Tuttavia, l’idea di importare lavoratori cinesi incontrò opposizioni sia da parte degli Stati Uniti che da parte del governo cinese del tempo, che vietò questa possibilità. 

La questione della manodopera e della sua gestione era strettamente legata al desiderio del Presidente Roosevelt di completare il canale il più rapidamente possibile. Roosevelt fece una visita molto pubblicizzata nella Zona del Canale nel novembre 1906, diventando il primo presidente statunitense a lasciare il paese durante il suo mandato. Roosevelt si concentrò sugli aspetti tecnici del progetto, visitò le grandi macchine e mostrò il suo vigore fisico salendo su una pala a vapore. Nei discorsi ai lavoratori e ai funzionari, parlò della costruzione del Canale come della più grande impresa ingegneristica di ogni tempo. Respinse ogni critica, affermando che le critiche sarebbero sparite dalla storia, mentre la grande opera infrastrutturale sarebbe rimasta.

Tra l’enorme massa di lavoratori, molti erano uomini che firmarono contratti di lavoro con il governo statunitense, mentre altri giunsero autonomamente. Diverse migliaia di donne si unirono a loro, lavorando come lavandaie o domestiche. La pretesa che gli Stati Uniti abbiano costruito il Canale coi loro lavoratori e le loro vittime, pertanto, deve sempre considerare la realtà di questa forza lavoro afro-caraibica, fatta di persone che lasciavano vite difficili nelle loro terre d’origine nella speranza di guadagnare di più, acquisire nuove competenze e iniziare una nuova esistenza.

L’apertura del canale ad 1914, quasi contemporaneamente all’inizio della Prima Guerra Mondiale, ne rafforzò il mito. 

Fu visto come un “raggio di sole tra le nuvole della guerra”: l’Europa era distruzione (e si sarebbe auto-distrutta), mentre l’America era la terra della costruzione, perno dell’infrastruttura del mondo. Soprattutto, l’America diventava una compiuta potenza marittima, come nel progetto del capitano Alfred Mahan, influente nelle scelte di Roosevelt.

La Zona del Canale era una colonia degli Stati Uniti. 

Il Trattato Hay-Bunau-Varilla del 1903 garantiva agli Stati Uniti il controllo completo e perpetuo su una zona di dieci miglia che divideva in due la Repubblica di Panama. Panama fu ampiamente cancellata dalla narrativa dominante sulla costruzione. Durante l’Esposizione Panama-Pacifico del 1915, i rappresentanti panamensi non furono nemmeno ammessi alle cerimonie di apertura, un trattamento umiliante.

Un osservatore britannico nel 1910, come ricorda Julie Greene, notò che la Repubblica di Panama si trovava alla totale mercé degli Stati Uniti, che ne disponevano come di una loro proprietà. La relazione tra Panama e gli Stati Uniti è rimasta di natura coloniale fino alla fine del ventesimo secolo, quando il Trattato Carter-Torrijos ha stabilito la procedura per la graduale consegna del canale e della Zona alla piena custodia della Repubblica di Panama.

È la storia che ci conduce alla contesa attuale e ai “sarti” di Panama: Li Ka-shing, Laurence Fink, Gianluigi Aponte, alle prese con la contesa tra Cina e Stati Uniti.

Li Ka-shing, il Superman dei porti

Nato a Chaozhou nella provincia del Guangdong, in Cina, nel 1928, in una famiglia con radici intellettuali, la prima infanzia di Li Ka-shing fu segnata dalla guerra sino-giapponese che portò la sua famiglia, nel 1940, a cercare rifugio a Hong Kong, allora colonia britannica. 

Così si sviluppa il rapporto fondamentale della vita di Li Ka-shing: la relazione con le trasformazioni economiche e politiche del “porto profumato”. 

Dopo i primi impieghi, il giovane Li Ka-shing fondò nel 1950, a 22 anni, la Cheung Kong Industries. L’azienda, che comincia il suo percorso con la produzione di fiori di plastica, evoca nel suo nome il Fiume Yangtze. Da questo primo mercato, negli anni ’60 passa agli investimenti immobiliari, prevedendo l’aumento dei valori di Hong Kong e divenendo una “tigre” immobiliare. Alla fine degli anni ’70, con l’acquisto di Hutchison Whampoa dalla HSBC, Li Ka-shing entra nel sancta sanctorum dell’economia dell’élite commerciale britannica, con un portafoglio che comprende porti, negozi, infrastrutture delle telecomunicazioni.

Nel corso degli anni, l’acume dell’imprenditore per gli affari gli vale il soprannome di “Superman”. 

Continua sempre a scommettere su Hong Kong nei momenti di incertezza politica, e la crescita delle sue imprese accompagna la transizione del “porto profumato” verso il ritorno alla Repubblica Popolare Cinese. Li Ka-shing è anche un grande diversificatore: non solo nei settori (dall’immobiliare, ai porti, alla vendita al dettaglio, all’energia agli operatori di telecomunicazioni), tenendo presente anche gli ambiti con flussi di cassa stabili per equilibrare il rischio politico, ma anche a livello geografico. Il suo impero tocca oltre 50 Paesi e punta sempre più sull’Europa, che tra i suoi affari in questo secolo pesa molto di più di Hong Kong e della Repubblica Popolare Cinese. 

“Superman” pratica anche l’arte del disinvestimento: non si innamora degli asset ma cerca di liberarsene al momento giusto, come ha fatto per esempio alla fine degli anni ’90 nella telefonia, cogliendo il picco di un mercato. 

© AP Photo/Matias Delacroix

Una ristrutturazione fondamentale dell’impero di Li Ka-shing è avvenuta nel 2015, con la creazione di CK Hutchison Holdings (porti, vendita al dettaglio, infrastrutture) e CK Asset Holdings (immobiliare e alberghi). I porti sono un pilastro storico del suo impero, che parte da Hong Kong per poi fare investimenti nei porti container britannici (di nuovo, col rovescio della subordinazione coloniale) fin dai primi anni ’90 e nel corso degli anni espandersi in tutti i continenti.

Il rapporto tra Li Ka-shing e il Partito Comunista Cinese ha visto alterne fortune. 

La stagione di “riforme e apertura” sotto Deng Xiaoping crea per imprenditori come lui grandi opportunità anche nella Repubblica Popolare. “Superman” si allinea agli interessi del Partito nei momenti difficili, per esempio investendo in Cina dopo i fatti di Piazza Tienanmen. Il suo rapporto con Jiang Zemin è solido. 

L’acquisizione dei porti del Canale di Panama nel 1997, poco dopo la restituzione di Hong Kong alla Cina, si può interpretare anche come un passaggio delle ambizioni globali di Pechino, che non vengono perseguite in modo esplicito ma attraverso capitali “amici”. Nell’era di Xi Jinping, invece, si rafforzano le critiche per la diversificazione geografica dell’impero di Li Ka-shing.

“Superman” pratica anche l’arte del disinvestimento: non si innamora degli asset ma cerca di liberarsene al momento giusto

Alessandro Aresu e Antonio Caffaro

A quasi un secolo di età, Li Ka-shing si muove in un mondo radicalmente cambiato, mentre suo figlio ed erede designato Victor Li è il presidente di CK Hutchinson. 

Per la Repubblica Popolare, Hong Kong non è più un esempio economico da seguire e il crocevia per eccellenza dei rapporti con l’Occidente e le altre economie asiatiche. È un luogo ormai inglobato nella sfera politica cinese. 

Inoltre, la storia della crescita economica cinese è anche sempre più la vicenda di un’ascesa impressionante nelle filiere marittime, dalla cantieristica navale in tutte le sue forme fino agli spedizionieri, passando per la terminalistica, i cavi sottomarini, le gru, le piattaforme digitali di gestione logistica. 

Da un lato, quest’ascesa impensierisce in modo crescente gli Stati Uniti, nell’allineamento bipartisan anti-cinese che caratterizza la politica di Washington, nell’era del capitalismo politico.

Dall’altro lato, il Partito Comunista Cinese vuole salvaguardare e rafforzare questo potere delle infrastrutture, ed è disposto a utilizzare per questo scopo i suoi strumenti di controllo del mercato e delle transazioni, sulla base della sicurezza nazionale. 

Da un lato, il Partito ha bisogno degli imprenditori e delle loro capacità. Dall’altro lato, come ha confermato più volte, il Partito non tollererà mai che qualcuno metta in discussione il primato della sua politica, che continuerà ad affermare. 

Laurence Fink: gestire tutto, oltre la “passività” 

La storia di BlackRock, la “roccia nera” che gestisce oltre 10.000 miliardi asset, è legata al suo fondatore e CEO, Laurence Fink, da decenni una delle principali personalità della finanza globale. Fink.

Nato nel 1952, cresce in California e inizia la carriera finanziaria negli ’70 a New York nella banca d’investimento First Boston. Dopo essere diventato il più giovane managing director della banca e membro del comitato direttivo, subisce uno smacco notevole quando la sua divisione registra pesanti perdite per previsioni errate sui tratti d’interesse. 

Dopo aver lasciato la banca, non getta la spugna. 

I capi del gruppo Blackstone, Stephen Schwarzman e Pete Peterson, videro in lui il candidato ideale per guidare un nuovo gruppo focalizzato sugli investimenti a reddito fisso.

Alla fine degli anni ’80, offrirono a Fink e al suo team una linea di credito per avviare la joint venture Blackstone Financial Management (BFM). Blackstone ottenne una quota del 50% nella nuova attività, mentre Fink e il suo team possedevano l’altro 50%. Questa “startup” divenne BlackRock. Partita con pochi spiccioli di linea di credito, giunge a gestire quasi 3 miliardi di dollari alla fine degli anni ’80.

© AP Photo/Matias Delacroix

Il 1994 è un anno decisivo, con la separazione da BlackStone. Mentre il mondo finanziario era preso dall’euforia di Internet alla fine degli anni ’90, Fink e i suoi rimasero fedeli al mercato obbligazionario, un settore meno scintillante ma su cui stavano costruendo la loro forza. Quando la bolla scoppiò all’inizio degli anni 2000, BlackRock consolidò la sua posizione, gestendo 200 miliardi di asset.

È solo l’inizio. 

L’altro passaggio fondamentale è la Grande Recessione del 2008. Mentre le banche crollavano, BlackRock, con il suo focus ossessivo sulla gestione del rischio e i suoi modelli computerizzati (attraverso l’infrastruttura informatica Aladdin) si posizionò come attore centrale. Governi e banche centrali, alle prese con bilanci pieni di asset tossici, si rivolsero a BlackRock per chiedere aiuto. La società fu incaricata di analizzare e gestire asset tossici per la Federal Reserve di New York, il Dipartimento del Tesoro USA, varie banche centrali europee. BlackRock giocava diverse parti in commedia, mentre la voce di Fink era sempre più autorevole dentro il mondo finanziario. 

Tuttavia, Fink non ama più di tanto i riflettori. La sua leggenda è legata agli asset in gestione, con una crescita imponente, non alle feste e allo sfarzo. A questo si unisce senz’altro l’influenza politica, perché BlackRock è da tempo protagonista del sistema di “porte girevoli” degli Stati Uniti.  

Fink ha definito le infrastrutture “una delle opportunità di investimento a lungo termine più entusiasmanti, mentre una serie di cambiamenti strutturali rimodellano l’economia globale”. 

Alessandro Aresu e Antonio Caffaro

Nell’ultimo decennio, BlackRock ha acquisito sempre più un ruolo geopolitico, attraverso i prodotti, la presenza pubblica, la geografia degli investimenti. Da gestore che opera in questo mondo, uno dei suoi compiti principali è identificare le tendenze a breve e lungo termine nell’economia globale che potrebbero influenzare gli investimenti dei clienti. Tra cui l’analisi di rischi di investimento a lungo termine come inflazione, politica e transizione energetica. Nelle sue lettere annuali, Fink evidenzia come BlackRock fornisca prospettive su questioni che possono influenzare i prezzi degli asset e aiuti i clienti a navigare mercati e industrie in continua evoluzione. Le incertezze geopolitiche sono esplicitamente citate come fattori di rischio nei vari rapporti di BlackRock.

In tempi recenti, BlackRock ha mostrato un marcato interesse per le infrastrutture. 

Fink ha definito le infrastrutture “una delle opportunità di investimento a lungo termine più entusiasmanti, mentre una serie di cambiamenti strutturali rimodellano l’economia globale”. Fink ritiene che l’espansione delle infrastrutture fisiche e digitali continuerà ad accelerare, viste le esigenze di sicurezza dei governi e le nuove politiche industriali.  

Quest’attenzione strategica si è concretizzata in un’operazione di vasta portata: l’acquisizione di Global Infrastructure Partners (GIP). Il 1° ottobre 2024, BlackRock ha completato l’acquisizione del 100% delle quote, per un totale di circa 12 miliardi di dollari. L’acquisizione è significativa perché GIP, guidata dal suo Fondatore, Presidente e CEO Bayo Ogunlesi, è il più grande gestore indipendente di infrastrutture per asset in gestione a livello globale, con oltre 100 miliardi di dollari in asset gestiti. GIP ha un portafoglio di oltre 40 aziende che generano oltre 75 miliardi di dollari di entrate annuali. Il successo di GIP è guidato dal suo focus mirato su asset infrastrutturali nei settori trasporti, energia, digitale, e acqua e rifiuti. 

L’interesse di BlackRock nelle infrastrutture è evidente anche nell’esempio dei porti. Il profilo di GIP cita esplicitamente, tra i suoi investimenti, Gatwick, Edinburgh e Sydney Airports, così come Peel Ports e Port of Melbourne. 

BlackRock, pertanto, non è più “solo” 11.500 miliardi di asset gestiti a fine 2024. 

Il suo potere non si limita più alla gestione passiva ma ad operazioni e azioni che, attraverso la lettura dei trend, modellano in modo più attivo i mercati, estendendo un’enorme influenza che allarga, a sua volta, il potere finanziario degli Stati Uniti.   

Gianluigi Aponte, da Sorrento alla flotta verticale

Nato a Sorrento (in provincia di Napoli) nel 1940, Gianluigi Aponte ha costruito, insieme alla moglie Rafaela, un impero marittimo oggi considerato il primo operatore mondiale del trasporto container.

L’anno della fondazione di Mediterranean Shipping Company S.A. (MSC) è il 1970. 

Da allora la storia pubblica di Gianluigi Aponte è quella della sua creatura, e viceversa. Diplomato all’Istituto Nautico, aveva iniziato a navigare su traghetti-passeggeri su uno dei quali, per Capri (narra la leggenda), conobbe la futura moglie. Lei svizzera, la coppia trovò casa e i primi fondi per avviare l’impresa a Ginevra, da dove oggi controlla quasi un quinto dei traffici containerizzati globali, dopo uno sviluppo non paragonabile, per rapidità, a quello di nessun’altra compagnia armatoriale nella storia.

Ostinatamente fedele al proprio core business — che ha visto la sua MSC crescere organicamente dal primo bastimento degli anni ’70 alle attuali novecento (circa) portacontainer — Aponte solo negli ultimi anni ha intrapreso una strategia di integrazione verticale sempre più assertiva: non solo navi (comprese quelle per passeggeri: traghetti, aliscafi e, dai primi anni ’90, da crociera), ma anche terminal, logistica a terra, aerei cargo, immobiliare, treni merci e passeggeri, oltre ad un accenno di diversificazione nella sanità privata sull’onda degli enormi extra-profitti del trasporto containerizzato durante i recenti anni della pandemia.

Il riserbo di Gianluigi Aponte che ha ormai del proverbiale: una nave alla volta, senza mai rivolgersi al mercato azionario

Alessandro Aresu e Antonio Caffaro

Le cifre sono “sfuggite” alla riservatezza del gruppo (che, lo ricordiamo, non è quotato) in occasione dell’acquisto del 50% di Italo, operatore ferroviario ad alta veolcità per passeggeri in Italia: gli utili prima di interessi, imposte, deprezzamento e ammortamento (EBITDA) sarebbero stati di 6,8 miliardi nel 2020, di 40 miliardi nel 2021 e di 43,2 miliardi nel 2022. Non è dato di sapere la valuta, ma si tratterebbe di cifre notevolissime e atipiche per un settore da sempre con bassi margini, fossero esse in dollari, in euro o in franchi svizzeri. Il gruppo, così, è senz’altro in grado di ridurre le ovvie perdite nel settore crocieristico dell’era covid a un irrilevante incidente di percorso. 

Il fattore geopolitico rafforza queste dinamiche. 

© AP Photo/Matias Delacroix

La crisi di Suez determinata dagli attacchi degli Houthi a fine 2023 ha dato una nuova spinta ai noli marittimi, che tutti prevedevano in calo a seguito della graduale normalizzazione post-pandemia (principalmente, l’aumento di capacità di stiva previsto – dal momento che i cantieri navali avevano ripreso l’attività a pieno regime e proceduto a riparazioni e consegne richieste negli anni precedenti – e il decongestionamento dei colli di bottiglia costituiti da terminal e depositi). L’impossibilità su molte rotte di evitare la circumnavigazione dell’Africa, per motivi di sicurezza che durano ancora oggi, ha immediatamente ridotto l’offerta disponibile e ha assestato le tariffe globali ad un livello superiore.

Il braccio terminalistico del gruppo è Terminal Investment Limited (TiL), fondato nel 2000 e controllato oggi al 70%, mentre il 10% è del fondo sovrano di Singapore ed il restante 20% della citata Global Infrastructure Partners, entrata nel 2013 e che dal 2024, come detto, fa parte dell’impero di BlackRock.

La relativamente recente ribalta mediatica di Aponte (pur contenuta) deriva dalle classifiche patrimoniali di Forbes e soprattutto dalle acquisizioni – comprese quelle mancate, come per i Chantiers de l’Atlantique da STX France a fine anni 2010. 

Ma il suo modo di operare resta la costruzione di un impero mantenendo un riserbo che ha ormai del proverbiale: una nave alla volta, senza rivolgersi al mercato azionario (unica azienda del settore) e affinando uno stile dove convivono l’ambizione globale e il pragmatismo mediterraneo.

L’incontro dei sarti di Panama

Il mercato del commercio marittimo si misura in milioni di TEU (“twenty-foot equivalent unit”, corrispondenti ad un container standard da venti piedi, o mezzo da quaranta piedi) movimentati. Nel 2023, Hutchinson Ports ed il gruppo MSC si collocano rispettivamente al sesto e settimo posto nella classifica globale: con l’acquisizione, MSC balzerebbe al primo anche in questo settore, non lontana dal vedere un decimo del volume mondiale passare attraverso i propri terminal.

L’acquisizione dei porti di CK Hutchison, dal punto di vista di MSC, si inserisce nel movimento verso un ruolo più ambizioso, legato alla verticalizzazione e al controllo diretto della catena del valore. 

L’annuncio dell’operazione è arrivato a marzo 2025. 

Benché l’accordo, del valore complessivo di 22,8 miliardi di dollari, preveda la cessione di 43 terminal in 23 paesi (l’80% della loro proprietà, che è la quota di CK Hutchinson), tutta l’attenzione è andata subito ai due di Balboa e Cristobal rispettivamente, situati alle estremità del Canale di Panama.

Secondo i termini dell’accordo, TiL — filiale di MSC — acquisirà direttamente 41 dei 43 porti (l’intera quota oggi di CK Hutchinson, ripetiamo, corrispondente all’80% della proprietà), mentre i due terminal panamensi saranno co-posseduti: BlackRock (tramite la controllata Global Infrastructure Partners) deterrà una quota di maggioranza del 51%, e TiL il restante 49%.

Solo gli attori direttamente coinvolti hanno colto che l’espansione del gruppo MSC avrebbe interessato praticamente tutte le rotte e tra tutti i continenti, coinvolgendo porti dal Messico ai Paesi Bassi, dall’Egitto all’Australia e al Pakistan.

Attualmente, la transazione dei “sarti di Panama” è soggetta a verifiche normative e approvazioni da parte delle autorità cinesi.

Alessandro Aresu e Antonio Caffaro

L’importante transazione è stata infatti subito letta come l’inveramento (e in forme inattese e repentine) del discorso d’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, avvenuto pochi giorni prima. Come abbiamo ricordato, Trump annunciava che gli USA “si sarebbero ripresi” il Canale rispetto all’influenza cinese. Il più ampio scossone agli equilibri del mercato dovuto all’imponente acquisizione complessiva è rimasto (come spesso e inspiegabilmente accade in questo mondo “esoterico”) materia per gli operatori del settore.

A livello geopolitico, se l’operazione ha suscitato reazioni favorevoli negli Stati Uniti (e addirittura entusiastiche alla Casa Bianca), la Cina ha subito espresso preoccupazioni, criticando la vendita come una mossa che potrebbe compromettere gli interessi nazionali e l’accesso a rotte commerciali vitali.

L’arma della sicurezza nazionale, così, viene utilizzata in modo speculare dagli Stati Uniti e dalla Repubblica Popolare Cinese, secondo la logica del capitalismo politico, in una dinamica di divieti e di attese.

In particolare l’antitrust cinese, a partire dalla costituzione della SAMR (State Administration for Market Regulation) nel 2018 ha attuato una politica sempre più interventista, interrompendo numerose transazioni nel mercato dei semiconduttori perché non ha concesso la sua autorizzazione alle imprese, e il suo intervento è giustificato dagli interessi nel mercato cinese. La strategia cinese in quest’ambito rientra nella costruzione di strumenti sempre più pervasivi per “difendersi” dagli attacchi commerciali statunitensi, e avere “carte” da tirare fuori per contrattaccare e aumentare la pressione: chiaramente, quest’armamentario è stato costruito con attenzione e precisione — come è lecito attendersi da parte del sistema cinese e della sua “burocrazia celeste” — sulla base dell’esperienza con la prima amministrazione Trump. 

Attualmente, la transazione dei “sarti di Panama” è pertanto soggetta a verifiche normative e approvazioni da parte delle autorità cinesi.

Nel quadro dei negoziati sino-americani a Ginevra, la Cina potrebbe aver ottenuto l’inclusione di un attore cinese (Cosco) nel consorzio candidato all’acquisizione delle quote di Hutchison. Mentre Trump cerca un accordo globale con la Cina, Xi potrebbe anche scegliere di utilizzare la questione dei porti di Panama come leva negoziale

Intanto parrebbe scontata la conferma del governo panamense per la parte relativa ai porti di Balboa e Cristobal, dopo i molteplici segnali di insofferenza degli ultimi mesi nei confronti della proprietà cinese, su esplicita pressione dell’amministrazione Trump.

Siamo di fronte a un’operazione che va oltre la logica puramente commerciale.

Alessandro Aresu e Antonio Caffaro

In questo contesto di frammentazione del commercio mondiale, MSC si posiziona come attore di stabilità. 

Indipendente da logiche statali, è tuttavia capace di dialogare con tutti i poli geopolitici, impone in questa operazione la presenza di un modello ormai raro nei grandi giochi mondiali della politica e degli affari: quello del capitale privato, europeo e familiare, in un’epoca di rinnovata centralità strategica delle infrastrutture.

© AP Photo/Matias Delacroix

Il punto di vista di CK Hutchinson e di Li Ka-shing, di cui pure abbiamo detto il grande acume nelle strategie di disinvestimento, è più difficile da decifrare. I rapporti di forza tra i capitali privati di Hong Kong e il Partito Comunista Cinese sono ormai cambiati, a favore di quest’ultimo.  In termini politici, i terminal portuali si presentano come nodi o punti nevralgici attraverso cui transitano flussi commerciali, finanziari e, sempre più spesso, interessi strategici nazionali: cederli significa rinunciare a una porzione del controllo su queste reti, ma anche sottrarsi all’esposizione crescente alle relative tensioni (attraverso ogni sorta di pressione diretta o indiretta, dai dazi alla revisione unilaterale delle concessioni su pressione politica). Diversificare vuol dire proteggersi, ma significa anche perdere influenza. 

Il forte risalto dato all’operazione dall’amministrazione americana e il coinvolgimento di due acquirenti del calibro di TiL — braccio infrastrutturale del primo armatore mondiale — e BlackRock — che si trasforma, come abbiamo visto, da gestore passivo ad architetto delle infrastrutture su scala globale — confermano che siamo di fronte a un’operazione che va oltre la logica puramente commerciale. 

Si tratta di ridefinire le geografie del potere marittimo.

 Non a caso, la svolta di Panama avviene proprio mentre le voci del potere degli Stati Uniti – a partire dal vicepresidente J.D. Vance nel discorso all’American Dynamism Summit presentato e commentato su Le Grand Continent – usano il rapporto di 250 a 1 di capacità produttiva di navi tra Pechino e Washington per mostrare dove l’America deve tornare “grande”. Progetto di difficile realizzazione pratica ma che sarà comunque perseguito.

La controversia sull’influenza a Panama è testimoniata anche dall’enfasi data dall’ambasciata degli Stati Uniti alla sostituzione di alcune torri di Huawei, che ha sollevato aspre critiche della Cina

Anche per queste ragioni, la Cina non può stare a guardare. Xi Jinping, poiché sa che Donald Trump persegue l’idea di un “grande calderone” di trattativa tra Pechino e Washington, potrebbe inserire anche la grande operazione portuale nell’accordo (o disaccordo) generale.