Di fronte al constatato declino economico e all’indebolimento strategico dell’Europa, la volontà di reindustrializzare è ormai diventata una tappa obbligata in tutti i discorsi. Dopo il salutare risveglio provocato dal rapporto Draghi dello scorso autunno, si tratta di un passo nella giusta direzione.

La dichiarazione franco-tedesca del 7 maggio scorso («Rimettere a nuovo le relazioni franco-tedesche per l’Europa» 1) contiene una serie di annunci che, anche in questo caso, potrebbero segnare una svolta. È ad esempio il caso della volontà proclamata di armonizzare la nostra base industriale e tecnologica della difesa, della ripresa delle principali proposte del rapporto Draghi, o ancora di un’apertura verso altre piste come una politica più protezionista o una preferenza europea in alcuni appalti pubblici.

Da parte sua, la Commissione ha proceduto rapidamente: Ursula von der Leyen ha presentato il 26 febbraio il Patto per un’industria pulita, che mira a rafforzare la competitività industriale dell’Unione europea creando al contempo condizioni sostenibili per la decarbonizzazione.

Questo annuncio è stato seguito a marzo da quelli relativi a piani d’azione per il settore automobilistico e per l’acciaio, a cui dovrebbero aggiungersi misure per l’industria chimica, le tecnologie pulite, integrandosi così con i piani per l’IA generativa e le industrie della difesa.

Sebbene non sia ancora pienamente riconosciuta come una vera politica industriale, con tutto ciò che questa parola, a lungo tabù a Bruxelles, implica, ne assume sempre più i tratti ed è un motivo di soddisfazione. Era ora, dopo il lancio da parte dell’amministrazione Biden, sotto la copertura dell’Inflation Reduction Act, del piano di reindustrializzazione più importante dai tempi del Piano Marshall, basato su una serie di misure protezionistiche e sovvenzioni massicce. Il «tsunami trumpiano» potrebbe farlo dimenticare, ma è già coronato da successi in alcuni settori, come ha dimostrato la ripresa della filiera dei semiconduttori negli Stati Uniti grazie a una declinazione settoriale — il CHIPS Act.

Fidiamoci dunque all’ottimismo e poniamo come ipotesi che l’Unione, nel Parlamento e nella Commissione, ma soprattutto a livello degli Stati membri, prenda definitivamente una nuova direzione, proseguendo sulla via tracciata per i vaccini durante la crisi della Covid-19 e per l’industria bellica dopo la seconda invasione dell’Ucraina.

Nell’ondata di cattive notizie geopolitiche ed economiche che il 2025 finora ci riserva, potrebbe emergere un effetto positivo da questa combinazione esplosiva tra il neo-imperialismo senza freni di Donald Trump e il techno-industrialismo visionario di Elon Musk: il rapporto Draghi, che ha detto l’essenziale sul nostro declino industriale e tecnologico e sui mezzi per rimediare, e che rischiava di essere sepolto, potrebbe ispirare una vera svolta per l’Europa.

Perché ciò diventi possibile, è importante soprattutto tenere a mente due messaggi chiave del rapporto: da un lato, il declino industriale e tecnologico europeo coincide con la rivoluzione digitale della fine degli anni ’90 e l’irruzione di internet. Reagire in questo campo, dove il ritardo accumulato può sembrare scoraggiante, è la priorità. Torneremo su questo punto nella prima parte di questo contributo.

Dall’altro lato, questo declino non potrà essere arrestato senza una politica industriale volontaristica, costosa e duratura, che passi per un coordinamento europeo ma soprattutto per azioni diversificate a seconda degli Stati membri e dei settori. Qui si tratta più di un impegno generazionale che di annunci a breve termine, la cui attuazione spesso si perde nelle sabbie mobili.

Tuttavia, se nei prossimi due anni potessero emergere i primi risultati concreti, questi potrebbero fare la differenza in un Paese come la Francia, il cui probabile appuntamento elettorale del 2027 sarà, a parità di condizioni, da confrontare con quanto è appena successo negli Stati Uniti per importanza geopolitica, almeno su scala continentale. Ridare speranza all’Europa e alla capacità delle sue élite di «fare la differenza», secondo l’espressione americana, anche a costo di rinunciare a una vecchia dottrina, passerà soprattutto attraverso una politica di reindustrializzazione volontaria e concreta, ma anche realista.

Il digitale è il settore in cui il nostro ritardo è più evidente e completo — sia per quanto riguarda i software sia per le infrastrutture.

Jean-Noël Tronc

Nel mondo di Donald Trump, scegliere l’Europa di Mario Draghi

L’attualità internazionale, sempre più minacciosa, potrebbe farci dimenticare l’essenziale: il continuo declino della produzione industriale in Europa resta uno dei principali fattori di destabilizzazione delle nostre società, alimentando la fuga dell’elettorato popolare verso gli estremi. La capacità di invertire questa tendenza condiziona in parte la preservazione di un’Unione democratica e integrata.

Ora che il timore che il rapporto Draghi venga sepolto si è allontanato, è ancora più utile tornarci sopra.

Il Grand Continent ne ha proposto un’analisi dettagliata e si può riassumere il quadro che ne tracciava del nostro ritardo economico partendo da un dato chiave: il divario di PIL pro capite tra l’Unione e gli Stati Uniti è passato dal 15% nel 2002 al 30% nel 2023. Oltre al declino demografico iniziato in Europa, il rapporto elencava una serie di fattori, tra cui la frammentazione delle politiche industriali ed energetiche, i sottofinanziamenti, lo sforzo insufficiente in R&S, la diminuzione della produttività e la dipendenza europea dalle tecnologie e dalle materie prime.

Il Patto presentato dalla presidente della Commissione europea si ispira ampiamente al rapporto attraverso un triplice obiettivo: sostenere l’industria europea di fronte alla concorrenza mondiale; accelerare la decarbonizzazione agendo sui costi energetici e sull’innovazione affinché la transizione ecologica sia un motore di crescita economica e non un ostacolo; semplificare le regole amministrative e proporre un quadro stabile per favorire gli investimenti nelle tecnologie pulite e nelle infrastrutture necessarie alla transizione energetica.

Il rapporto Draghi individua una serie di settori prioritari, da cui la Commissione sembra trarre piena ispirazione: energia, materie prime essenziali, digitalizzazione e tecnologie avanzate, banda larga, informatica e IA, semiconduttori, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automobilistico, difesa, spazio, industria farmaceutica, trasporti.

In questo approccio settoriale, il digitale occupa necessariamente un posto a parte: è il settore in cui il nostro ritardo è più evidente e completo — sia per quanto riguarda i software che le infrastrutture hardware.

Ma soprattutto, è il settore che irrora il resto dell’economia, determinandone in larga misura la capacità di innovare.

Basti pensare alle rivoluzioni che l’intelligenza artificiale porterà in settori come l’energia, le tecnologie pulite, l’automotive, la difesa, lo spazio, la salute e i trasporti.

Un solo esempio per illustrare quanto dietro la maggior parte dei progressi oggi ci sia una spiegazione digitale: nel novembre 2020, l’annuncio della scoperta da parte dei laboratori Pfizer e BioNTech di un vaccino contro il Covid-19 efficace oltre il 90% provocò un doppio shock in Europa: di orgoglio, poiché gli scienziati di BioNTech erano europei (tedesco di origine iraniana, per essere precisi… sottolineando l’importanza di attrarre talenti da tutto il mondo); di innovazione, poiché bastarono poche ore per individuare la soluzione biologica, mentre il precedente record per lo sviluppo di un vaccino era di quattro anni. Il vaccino Moderna era stato sviluppato negli Stati Uniti in due giorni.

Spesso si dimentica di precisare che tutto ciò è stato possibile solo perché il sequenziamento genetico del coronavirus è stato realizzato in poche ore grazie all’innovazione digitale messa in campo da DeepMind, filiale di Alphabet, la casa madre di Google. Proprio per questo due suoi ricercatori, Demis Hassabis e John Jumper, sono stati premiati con il Nobel per la Chimica nel 2024 per AlphaFold, il modello di intelligenza artificiale da loro sviluppato, che ha rivoluzionato la ricerca delle strutture proteiche.

Se l’IA dipende dalla potenza di calcolo fenomenale messa a disposizione dai tre principali attori del Cloud — Amazon, Microsoft e Google — dipende anche dalla loro considerevole capacità finanziaria. Al contrario, OpenAI, l’azienda americana dietro ChatGPT, è valutata 300 miliardi di dollari ma rimane finanziariamente molto fragile e dipende soprattutto dai 40 miliardi di dollari annunciati dalla giapponese SoftBank per finanziare i suoi sviluppi futuri.

Il continuo declino della produzione industriale in Europa rimane uno dei principali fattori di destabilizzazione delle nostre società, che ha alimentato la fuga verso gli estremi dell’elettorato popolare.

Jean-Noël Tronc

L’IA e il Cloud, strettamente legati, sono due settori in cui gli europei sono marginalizzati.

Per lo sforzo di rilancio da intraprendere, l’effetto scala si imporrà come una realtà scomoda, visto che i nostri margini di manovra di bilancio sono limitati. Per il programma europeo importante EuroHPC (High Performance Computing), che mira a dotare l’Europa di supercomputer potenti, in particolare per l’IA, la questione del numero di progetti selezionati è cruciale. Per la ricerca fondamentale nell’atomo civile europeo, è stato un solo sito, quello del CERN di Ginevra, a concentrare gli investimenti considerevoli negli acceleratori, permettendo all’Europa di mantenere una leadership mondiale nel settore.

Il fatto che il primo piano settoriale annunciato riguardi l’automobile riassume l’impatto del nostro ritardo digitale come elemento sistemico di declino: l’industria automobilistica europea nel suo complesso ha tardato a riconoscere la rottura fondamentale verso il nuovo modello di «piattaforma digitale» che sconvolge l’intero settore e rimescola le carte.

Non è in Europa che l’industria automobilistica ha saputo integrare questa rivoluzione, i cui concetti sono stati prima sviluppati da Tesla, poi ripresi e accelerati dai costruttori cinesi, la cui supremazia in termini di innovazione, produttività, prezzo, ma soprattutto di marketing industriale, è impressionante.

Per la prossima fase, quella dei veicoli autonomi, restiamo nella fase affascinante delle start-up innovative. Troppe volte, in passato, l’Europa si è entusiasmata per progetti adatti a annunci politici freschi e a una copertura mediatica abbondante, senza poi trasformarli in un settore industriale credibile. Il ritardo accumulato qui è evidente. Un esempio: Alphabet, la casa madre di Google, possiede due filiali dedicate ai veicoli autonomi. Una, Waymo, per i taxi senza conducente, molto apprezzati dai genitori americani per un trasporto «più sicuro» dei bambini alle loro attività, di fronte alla paura di aggressioni da parte di autisti NCC poco controllati. L’altra, Wing, per le consegne tramite drone in Australia. Quanto tempo passerà prima che queste soluzioni siano davvero disponibili per i consumatori europei?

Per la Commissione, di fronte all’offensiva tariffaria americana che dovrebbe spingerci a cercare un’intesa con la Cina, l’arbitrato sarà difficile: non si può immaginare di sacrificare il settore automobilistico come si è lasciato progressivamente affondare il nostro settore delle telecomunicazioni, salvo pagare un prezzo economico e politico che potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso, dato che è vero che il consumatore soddisfatto di un giorno è il disoccupato infelice del giorno dopo — e l’elettore passato agli estremi in seguito.

Prima di tutto dobbiamo essere lucidi sulla profondità del ritardo da colmare. Se possiamo gioire per il crollo delle vendite di Tesla e per le sue perdite in borsa a causa delle sue posizioni contro gli europei, dobbiamo riconoscere cosa rappresenta Musk per noi nell’Unione. In tre settori dove il nostro leadership era reale — l’automobile, le telecomunicazioni e lo spazio — non abbiamo visto arrivare nessuna delle rotture dei modelli industriali preesistenti introdotte da Tesla, SpaceX e Starlink.

In tutti e tre i casi, l’innovazione — e in particolare l’innovazione digitale — è stata al centro di queste rotture, e una certa forma di pesantezza burocratica, persino di arroganza da parte dei grandi industriali esistenti, è stata una temibile fonte di cecità che ci costerà cara, e per lungo tempo.

Il vantaggio preso dagli Stati Uniti nel campo dell’IA generativa non è dunque che un nuovo episodio dei ritardi industriali e tecnologici accumulati dall’Europa fin dall’inizio della rivoluzione digitale. Il suo effetto di rottura sarà almeno equivalente all’irruzione di internet. Motivo in più per allarmarsi e reagire in modo concentrato e credibile.

Il ritardo europeo nei settori digitali è tanto più preoccupante quanto è massiccio e strutturale. Rappresenta un rischio di civiltà per il futuro dell’Europa, per la sua sovranità così come per il suo modello culturale, poiché con l’onnipresenza delle piattaforme, dei social network e ora la rottura totale introdotta dall’IA generativa in molti ambiti, a cominciare da quello della conoscenza e dell’educazione, della salute e della sicurezza, ma anche quello dell’informazione e quindi del potere, la capacità dell’Europa di preservare il proprio modello di società è direttamente messa in discussione dalla perdita della sua sovranità digitale.

Un triste anniversario: le cause del fallimento del digitale europeo

Per quanto riguarda il digitale, la sfida da affrontare per l’Unione è notevolmente cambiata di portata rispetto agli inizi degli anni 2000, quando alcuni dei maggiori industriali di un settore digitale in cammino verso la convergenza si chiamavano Nokia, Siemens, Philips, Ericsson o Alcatel. 25 anni fa, gli Stati Uniti dominavano ampiamente l’industria informatica, l’Asia era principalmente una fabbrica di apparecchiature, e l’Europa era leader nelle telecomunicazioni.

L’Europa ha ignorato a inizio marzo un triste anniversario.

Il 23 e 24 marzo 2000, l’Unione adottò la sua celebre «Strategia di Lisbona», che mirava a fare dell’Europa «l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo entro il 2010, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale» 2.

L’enunciato, simbolo di quegli anni «felici», tra la caduta del Muro e la caduta delle Torri, fa sorridere oggi se lo confrontiamo con la nostra realtà, ma, per aver contribuito alla sua elaborazione, vogliamo ricordare che le condizioni per il successo c’erano.

Sia nel campo dell’innovazione, dell’industria e dei servizi digitali, nelle telecomunicazioni, ma anche nell’informatica, all’epoca l’Europa era in una posizione molto favorevole per avere successo.

Se il protocollo Internet (IP) era stato inventato all’inizio degli anni Settanta da un gruppo di scienziati guidato da due americani, l’ipertesto, all’origine del world wide web, era invece frutto dei lavori di due europei, il britannico Tim Berners Lee e il belga Robert Caillau, la cui messa online nel 1993 ha dato il via a Internet per il grande pubblico. Tra le proposte che potrebbero aiutare a rafforzare il senso della loro identità comune per gli europei, le future banconote in euro, che la BCE ha deciso porteranno, dopo il 2026, dei volti, potrebbero così render loro omaggio, allo stesso tempo che permetterebbero di informare milioni di turisti extra-europei sul recente passato tecnologico dell’Europa 3.

Archeologia di una dipendenza: il caso delle telecomunicazioni

Negli anni ’80 e ’90, tutti gli sforzi degli Europei si concentrarono sull’organizzazione della concorrenza nelle loro industrie delle telecomunicazioni, con la privatizzazione dei vecchi operatori pubblici e la creazione di concorrenti privati e autorità di regolamentazione indipendenti. L’armonizzazione tecnologica e l’integrazione nel mercato unico permessa dalla norma franco-tedesca di seconda generazione per la telefonia mobile, il GSM, aveva consentito all’Europa di raggiungere la leadership mondiale. Questo movimento aveva generato un’innovazione commerciale e tecnologica straordinaria, a grande beneficio dei consumatori e delle imprese europee.

Come spiegare il declino europeo che ne seguì?

È complicato distinguere tra errori industriali, svantaggi strutturali e scelte sbagliate delle politiche pubbliche sia nazionali sia europee. Tuttavia, un rapido richiamo ad alcune cause del declino del settore europeo delle telecomunicazioni può fare luce sul futuro, indicando gli errori da non ripetere.

Si ricorda la frase di Serge Tchuruk, CEO di Alcatel, che a giugno 2001 a Londra annunciava la sua ambizione di costruire un’azienda «fabless» (senza fabbriche). Il naufragio fu totale, ma avvenne in tappe: fusione con Lucent nel 2006, vendita di Alcatel-Lucent a Nokia nel 2008, e successivo acquisto da parte di Microsoft qualche anno dopo.

Alcune date sono, in retrospettiva, momenti di svolta: il lancio dell’iPhone nel giugno 2007, che ha dato potere a un’azienda informatica e al software in un mercato dominato dagli industriali e dagli operatori telecom — essenzialmente europei — aprendo la strada a una quasi «commoditizzazione» di questi attori. Questi ultimi non vollero vedere il pericolo, e il massiccio disinvestimento in innovazione e R&S che le loro strategie finanziarie li hanno tutti portati ad adottare è una delle principali cause del loro declino.

Hans Snook, il fondatore di Orange, aveva all’inizio degli anni ’90 una formula visionaria per descrivere il futuro del telefono mobile come «life universal remote control» («telecomando universale della vita»). Le tecnologie che hanno trasformato questa visione in realtà sono state americane e asiatiche.

L’acquisizione di Android da parte di Google e la sua imposizione come sistema operativo alternativo a iOS, quello di Apple, insieme all’affermazione del modello smartphone e all’esplosione di Internet mobile, hanno così determinato un trasferimento della leadership dall’Europa verso gli Stati Uniti e l’Asia, in particolare Cina, Taiwan e Corea del Sud.

Un’altra causa importante è stata la «rapine» delle licenze 3G (UMTS) da parte dei tesori pubblici britannico e tedesco. Non dimentichiamo che il costo proibitivo delle licenze messe all’asta tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, circa 100 miliardi di euro all’epoca, equivalenti oggi a 65 miliardi di euro 4, ha aiutato alcuni governi a rispettare i «criteri di Maastricht» in materia di conti pubblici — ma a discapito a lungo termine di tutta l’industria europea delle telecomunicazioni.

In effetti, all’epoca, la grande maggioranza dei fornitori industriali di apparecchiature e terminali erano industrie europee. Tuttavia, una volta che gli operatori europei si sono indebitati pesantemente per pagare le loro licenze, questi hanno ritardato, spesso di diversi anni, il dispiegamento delle nuove reti, facendo gravare sugli industriali una buona parte del costo dello sforzo finanziario.

Nell’autunno del 2001, il Primo Ministro francese Lionel Jospin dovette autorizzare una riduzione del prezzo di queste licenze in Francia per evitare una catastrofe industriale annunciata — due dei tre operatori dell’epoca non erano infatti in grado di finanziare il prezzo inizialmente fissato, sebbene fosse molto inferiore ai prezzi britannici o tedeschi. I nostri operatori si erano già fatti «svuotare le tasche» partecipando a queste aste.

Nel 2025, la pressione esercitata sulla capacità finanziaria degli Stati di sostenere qualsiasi processo di reindustrializzazione si scontra, in modo molto diseguale, con un altro muro: quello del debito.

A questo proposito, la situazione francese è particolarmente grave e bisogna sperare che gli sforzi reali mobilitati da dispositivi come France 2030 o dalla BPI negli ultimi dieci anni non vengano compromessi dalla indispensabile riduzione della spesa pubblica.

A partire dall’inizio degli anni 2000, due altre cause hanno contribuito alla perdita del settore, sotto forma di consumismo e libero scambio. Volendo a tutti i costi ridurre i margini degli operatori europei per privilegiare costantemente la diminuzione delle tariffe per i consumatori, le autorità pubbliche europee — a livello degli Stati spesso, alla Commissione sempre — hanno segato il ramo su cui il settore si appoggiava per finanziare la sua innovazione. Allo stesso tempo, il mercato americano restava ancora più frammentato di quello dell’Unione ma solidamente protetto, per non parlare del mercato cinese, dove le tariffe delle comunicazioni tra operatori (il «roaming») erano aumentate del 40% nel momento in cui la Commissione faceva crollare quelle degli operatori europei.

Il risultato di questo accumulo di errori fu tanto rapido quanto brutale e si fece sentire già all’inizio degli anni 2000.

Meno di cinque anni dopo l’adozione della Strategia di Lisbona, il suo fallimento veniva constatato nel novembre 2004 in un rapporto di Wim Kok, ex Primo Ministro dei Paesi Bassi, e l’Unione si dotava di una nuova strategia, «Europa 2020», per una «crescita intelligente, sostenibile e inclusiva».

Cinque anni dopo questa nuova scadenza, è un eufemismo constatarne ancora una volta il fallimento e appare difficile immaginare come l’Europa possa, a breve termine, uscire da questa dipendenza quasi totale nel campo delle tecnologie digitali.

Cloud, IA, satelliti: difendere bastioni, costruirne di nuovi

Di fronte alla nuova minaccia del decoupling (separazione) dall’alleato americano, l’urgenza maggiore, per alcuni settori chiave delle tecnologie digitali, è assicurarsi che l’Unione rafforzi la propria autonomia strategica oppure che almeno avvii una strategia di nuova generazione.

Nel primo caso, si può salutare con favore la nascita del progetto Galileo. Immaginiamo la fragilità europea di fronte a un leader americano che decidesse, per qualche ragione, di interrompere il segnale GPS, anche solo per poche ore.

Per alcune tecnologie duali o puramente militari, membri della NATO scoprono che l’alleato americano ha la possibilità di ridurre o paralizzare l’efficacia degli armamenti venduti anni fa. Ma uscire da questa dipendenza richiederà anni a causa dei tempi insiti nelle grandi catene di produzione di equipaggiamenti militari.

Per lo spazio europeo, è prioritario dotarsi di una costellazione satellitare alternativa a Starlink o ad altri progetti come Kuiper di Amazon. Il progetto IRIS 5, i cui lanci iniziano quest’anno, dovrebbe rispondere a questa esigenza.

Allo stesso modo, è necessario rafforzare i settori strategici in cui l’Europa è forte, come i supercomputer, gli industriali dei semiconduttori — come l’olandese ASML o STMicroelectronics — la ricerca e sviluppo nel campo del quantistico, produttori mondiali leader di software industriali come Dassault Systèmes, o ancora i cavi sottomarini, visto che oltre il 90% delle comunicazioni passa attraverso i cavi oceanici. Per questi asset strategici non dovrebbe essere consentita alcuna cessione a non europei. Su questo fronte, le autorità pubbliche, soprattutto francesi, sono molto evolute.

Nel secondo caso, molto più frequente, cioè quando il nostro ritardo nelle tecnologie digitali non è assolutamente critico, o resta impossibile da recuperare nel breve termine, sarà necessario ispirarsi al principio del double leap frog, il «doppio salto della rana»: quando il ritardo accumulato in una fase tecnologica è troppo grande, si consiglia di concentrarsi sulla fase successiva.

Molti Paesi in Africa, Asia o America Latina hanno fatto proprio questo nel settore delle telecomunicazioni negli anni 2000-2010, rinunciando a sviluppare infrastrutture fisse per la telefonia e passando direttamente alla telefonia mobile ad alta velocità.

Ma l’Europa ha le risorse, e la necessità strategica e industriale, di interrogarsi in modo più ampio sulla sua totale dipendenza attuale da apparecchiature e software, inclusi quelli più «elementari» o di uso comune, come nel campo dell’ufficio, della messaggistica, o dei social network, per i quali le 8 applicazioni più usate in Europa sono americane e una cinese (TikTok).

Gilles Babinet, copresidente del Consiglio nazionale del digitale, ha descritto i numerosi scenari in cui un’amministrazione americana ancor più aggressiva potrebbe causare danni massicci all’economia europea, da una sospensione delle licenze di Office 365 — utilizzate dall’80% delle imprese del CAC 40 — fino all’accesso al cloud e ai suoi diversi livelli applicativi.

Le dichiarazioni sull’IA si moltiplicano e i numeri impressionano, come quelli annunciati dalle autorità pubbliche francesi durante il Vertice di Parigi nel febbraio 2025.

Anche qui, sarà necessario vigilare sulla realtà della loro attuazione, e agire con pragmatismo: non esiste nessuna soluzione di vera sovranità europea a breve termine, se non i modelli stessi, che si basano sulle grandi IA che già permettono di offrire soluzioni europee. Per quanto riguarda la potenza di calcolo, senza la quale non è possibile alcuna IA generativa, essa dipende essenzialmente da cinque attori: Amazon, Microsoft, Oracle, Nvidia e Google.

La questione delle condizioni di mercato eque, degli abusi di posizione dominante, o del mancato rispetto delle regole comunitarie di altro tipo, si pone in modo pressante da quando è stata coniata la nozione di GAFAM. Negli ultimi quindici anni la Commissione europea ha annunciato regolarmente di voler intraprendere azioni di controllo o sanzione contro i giganti americani della tecnologia, ma la realtà è che oggi nessuna procedura è stata portata a termine. Si attende con interesse di vedere come la nuova Commissaria incaricata del digitale e della sovranità intenda agire in questi settori, e quali saranno le conseguenze delle sanzioni comminate il 23 aprile dalla Commissione ad Apple e Meta ai sensi del Digital Market Act.

Al contrario, il conflitto aperto dal governo americano contro TikTok, su base bipartisan, è interessante: riflette un atteggiamento deciso e diretto — un «Yes we can» molto lontano dalle nostre complicazioni.

Un’altra sfida per la nostra politica digitale è la performance del suo quadro regolatorio. Con l’ambizione espressa nel Patto per un’industria pulita di semplificare le procedure amministrative, la Commissione sembra voler ascoltare anche la critica di un’Unione soprattutto brava a regolamentare, a rischio di ostacolare la capacità d’innovazione dei propri industriali.

Il dibattito è solo accennato e va approfondito con equilibrio, tra la necessaria lotta contro l’eccesso di norme e la necessità di proteggere il consumatore e preservare il soft power europeo come area di rispetto delle regole democratiche.

Perché un rilancio digitale dell’Europa sia possibile, il dibattito resta comunque necessario, se si pensa all’accumulo di testi normativi, dalle direttive SMA e diritto d’autore, e dal GDPR della penultima legislatura, passando per il Digital Service Act (DSA) e il Digital Market Act (DMA) del 2022, fino all’IA Act e alla direttiva NIS-2 (Network Infrastructures Security) del 2024.

Così, a partire dal nuovo corso che si profila a livello di Unione, si dovrà contare sulla nuova Commissione e sul nuovo Parlamento, stimolati dalla società civile, dagli industriali, dagli esperti e dal mondo associativo, affinché una strategia di nuova sovranità digitale prenda forma progressivamente.

Capire gli ostacoli alla reindustrializzazione europea

Oltre alla strategia per restaurare progressivamente un’industria digitale europea, si pone la questione più ampia della credibilità di una reindustrializzazione europea.

Per riflettere sul nostro futuro industriale, bisogna partire dallo stato attuale mondiale, caratterizzato da una larga dominanza cinese, mentre la dominanza americana resta vera per la finanza, la maggior parte dei servizi e la tecnologia. L’economista Jean Pisani-Ferry fornisce elementi di ragionamento su questo rapporto di forze 6: se il dollaro rappresenta il 60% del sistema finanziario mondiale, «contro circa il 20% per l’euro e una frazione minima per le altre valute», la Cina rappresenta oggi quasi un terzo dell’industria mondiale, molto davanti agli Stati Uniti (16%).

Dietro i numeri c’è un fatto, più importante: la Cina «dispone dell’unico sistema industriale completo e domina le catene del valore internazionali».

Soprattutto, il vantaggio industriale della Cina «oggi deriva più dalla densità del suo tessuto industriale e dalla quantità di competenze concentrate sul suo territorio che da costi salariali più bassi».

È dunque piuttosto sul modello cinese che sul suo equivalente americano che bisogna concentrare lo sforzo di confronto per trarne conseguenze sulla strategia industriale europea.

Prima di proclamare una volontà di reindustrializzazione all’interno dell’Unione, bisogna ancora analizzare bene la nostra situazione.

Per quanto riguarda il tessuto industriale, le nostre debolezze sono molteplici. Se ne possono citare diverse, che qui si intende illustrare rapidamente con alcuni esempi: l’effetto dimensione e filiera, l’assenza di una strategia a lungo termine e di una cultura di politica industriale, le frammentazioni del mercato unico, le competenze mancanti, la perdita di innovazione, l’insufficienza di garanzie attraverso gli appalti pubblici.

Aggiungiamo, nel caso della Francia, una quota dell’industria nel PIL (17%) inferiore alla media dell’Unione (23,5%) e lontana dai campioni industriali europei come la Germania (27%), la Polonia (28%) o la Repubblica Ceca (30%) 7.

Per quanto riguarda l’effetto dimensione, questa è una delle cause della fragilità della nostra filiera industriale nucleare. Durante i lavori della Commissione Attali sulla liberazione della crescita in Francia, nel 2007-2008, Anne Lauvergeon, allora presidente di Areva, ci aveva messo in guardia sul vantaggio che la Cina stava prendendo nella filiera nucleare civile, semplicemente per la quantità di centrali allora previste o in costruzione.

Questo effetto si è poi tradotto nella perdita di know-how per mestieri e gesti tecnici di alta precisione, senza necessariamente corrispondere a livelli elevati di formazione iniziale, come per le saldature, con il risultato disastroso di una perdita di affidabilità della filiera nucleare civile francese e notevoli ritardi nei calendari.

Per quanto riguarda l’esistenza di una strategia a lungo termine, un errore è stato probabilmente quello di aspettare troppo a livello comunitario, più orientato verso la regolazione e l’organizzazione delle condizioni di mercato che verso una vera strategia industriale. Il miglior esempio è stato il destino della filiera delle telecomunicazioni già menzionata.

Riguardo alla carenza di competenze nell’industria, le insufficienze sono di due tipi: mancanza di ingegneri, ma anche, a seconda dei paesi, debolezza dei percorsi di apprendistato, come in Francia, anche se è in corso dal 2018 un’evoluzione fondamentale che sta dando frutti con una spettacolare rivalutazione dell’apprendistato, prova che le mentalità possono cambiare.

Riguardo alla mancanza di integrazione del mercato unico, Mario Draghi, nel suo discorso al Parlamento europeo dello scorso febbraio, è tornato sull’urgenza di una semplificazione regolamentare affermando che «le barriere interne nell’Unione equivalgono a dazi del 45% sull’industria manifatturiera e del 110% sui servizi».

In questa logica, la recente dichiarazione franco-tedesca chiede una semplificazione delle regole europee e punta espressamente a due direttive recenti, denunciate per la pesantezza dei controlli supplementari imposti alle imprese: una sulla pubblicazione di informazioni in materia di sostenibilità da parte delle imprese (CSRD), l’altra sul dovere di vigilanza delle imprese in materia di sostenibilità (CSDDD).

Anche in Francia, come altrove nell’Unione, la rottura culturale con un modello in cui creare norme appare ai decisori pubblici come il culmine della loro azione resta tanto indispensabile quanto ancora fuori portata. La violenza e l’eccesso delle politiche incarnate da Javier Milei in Argentina o dal D.O.G.E. negli Stati Uniti non dovrebbero impedirci di guardare concretamente a ciò a cui esse condurranno realmente. Con la deindustrializzazione, l’accumulo di norme, combinato con l’intervento crescente del giudice in ambiti dove l’azione pubblica è contrastata o indebolita di conseguenza, costituiscono un altro fattore temibile che alimenta la perdita di fiducia degli elettori nelle nostre istituzioni.

Per quanto riguarda la perdita di innovazione, quanto accaduto nell’industria spaziale e in quella automobilistica è probabilmente il più emblematico, anche perché l’Europa conserva ancora una base industriale considerevole e di altissimo livello industriale e tecnologico, che fa sperare in una ripresa.

La rottura culturale con un modello in cui creare norme appare ai decisori pubblici come il culmine della loro azione resta tanto indispensabile quanto ancora fuori portata.

Jean-Noël Tronc

L’Unione soffre anche del suo libero scambio spesso asimmetrico e, cosa che le fa onore, del suo rispetto del diritto e delle regole multilaterali.

Un buon esempio è stato fornito all’inizio di gennaio 2025 dal Dipartimento del Commercio americano, a seguito di un’indagine condotta nell’ambito del Trade Act, finalizzata a identificare le misure adottate dal governo cinese in violazione delle regole dell’OMC per dominare l’industria marittima mondiale.

In quell’occasione è stata messa in luce l’importanza del sistema Hukou, una regolamentazione che distingue i cittadini cinesi tra rurali e urbani.

Poiché soltanto i secondi hanno accesso alla protezione sociale secondo gli «standard urbani», che riguardano alloggi, sanità o istruzione, e considerando che solo un terzo della popolazione è classificato come «urbano» — mentre il 50% della popolazione cinese vive in aree urbane — il sistema Hukou ha permesso, rileva il rapporto americano, di creare una «immensa classe di lavoratori super-sfruttabili, altamente mobili e flessibili per la nuova economia industriale cinese» 8.

Questo rapporto illustra il modo molto particolare in cui la Cina è entrata nell’OMC e ne ha sfruttato la posizione per consolidare la sua dominanza industriale in un numero crescente di settori. Nel Vietnam della fine degli anni 2010, che era appena entrato nell’OMC, si sentiva spesso questa espressione: «il Vietnam è entrato nell’OMC alle condizioni dell’OMC, mentre la Cina è entrata nell’OMC alle condizioni della Cina».

Nel mondo di Trump, l’Unione Europea ha il temibile privilegio di poter restare l’unico polo democratico al mondo con una dimensione economica sufficiente per imporre il mantenimento di un’economia mondiale aperta e il rispetto di un certo numero di regole. Questo passa attraverso un’intesa con la Cina, a condizione di ripensare una parte di ciò che è diventata una forma di «scambio ineguale», questa volta a svantaggio dell’economia europea, contrariamente a quanto le potenze coloniali occidentali avevano imposto all’Impero di Mezzo nel XIX secolo.

Una convergenza franco-tedesca sull’atteggiamento da adottare verso la Cina e gli Stati Uniti è fondamentale, poiché l’eccedenza commerciale tedesca, basata soprattutto su settori come quello automobilistico, ha molto contribuito alla cautela tedesca in materia di politica commerciale ferma. La continuità in questo senso è stata totale, da Angela Merkel e i suoi predecessori fino a oggi.

Da questo punto di vista, la dichiarazione franco-tedesca del 7 maggio 2025 può far sperare in un vero cambiamento di rotta, anche se il discorso resta a livello di una evidente buona intenzione («Di fronte a una concorrenza mondiale più dura, agiremo per un nuovo agenda di politica commerciale sostenibile per l’Unione, (…) conformemente al nostro impegno continuo per un commercio aperto, equo e basato su regole. Questo non deve essere preso per ingenuità. Se si vuole che le relazioni economiche siano reciprocamente vantaggiose, è necessario che le condizioni di concorrenza siano realmente eque.» 9).

Per tornare all’analisi di Jean Pisani-Ferry, al di là del tessuto industriale si pone anche la questione dei costi salariali.

Qualunque siano gli sforzi per trasferire il peso del finanziamento del nostro elevato livello di protezione sociale su altre risorse diverse dal costo del lavoro, l’effetto «cricchetto» è tale che è illusorio pensare di essere competitivi con la Cina su questo piano.

Pensare alla reindustrializzazione richiede una forza lavoro altamente qualificata e quindi un vero e proprio ripensamento delle priorità fin dal sistema scolastico. Per un paese come la Francia, per esempio, questo significa andare molto più lontano nel senso del modello tedesco, dove l’apprendistato è al centro dell’istruzione professionale.

Un dato illustra la differenza: il 40% dei giovani tedeschi sostiene l’Abitur — l’equivalente della maturità francese generale — contro l’80% dei giovani francesi che conseguono un bac professionale o generale, con prestazioni molto mediocri dei bac professionali in termini di occupabilità e un tasso di insuccesso nel primo anno di università superiore superiore al 70%.

Finché le imprese rimarranno periferiche nella gestione degli apprendisti — come è ancora la regola negli istituti professionali — il modello tedesco resterà fuori portata.A questo stato di cose si aggiunge la questione delle rappresentazioni simboliche. In Francia, ad esempio, il lusso, l’amministrazione o la finanza attirano più dell’automobile, dell’informatica, delle costruzioni o del nucleare 10.

Un altro ambito in cui l’asimmetria tra l’Unione da una parte e gli Stati Uniti e la Cina dall’altra è spettacolare riguarda gli appalti pubblici e la possibilità di privilegiare i nostri industriali. Nel 2001, fu necessario lottare contro alcune amministrazioni che invocavano le regole di Bruxelles per convincere che non era possibile acquistare un Boeing per il futuro aereo destinato al Presidente della Repubblica o al Primo Ministro, soprattutto perché la sicurezza dei mezzi di comunicazione a bordo non avrebbe certamente potuto essere garantita.

L’Unione ha il terribile privilegio di poter rimanere l’unico polo democratico al mondo a disporre di una dimensione economica sufficiente per imporre il mantenimento di un’economia mondiale aperta e il rispetto di un certo numero di regole.

Jean-Noël Tronc

Anche in questo caso, la dichiarazione franco-tedesca del 7 maggio scorso richiama un’idea necessaria: «Esamineremo la questione della preferenza europea negli appalti pubblici, in particolare per i prodotti a basso contenuto di carbonio.» 11

Speriamo che sarà necessario superare al più presto la fase di studio di questa questione urgente.

Pensare all’industrializzazione a lungo termine e far sognare di nuovo l’Europa

Si tratta anche di evitare la «fiera delle illusioni»: l’Unione europea non può più permettersi il lusso di moltiplicare annunci e piani senza effetti, così come non possono farlo i poteri pubblici nazionali che, per esempio in Francia, sono spesso i più grandi fautori di questo fenomeno. Effetto annuncio che, combinato con le esigenze elettorali e la speranza che ogni notizia cancelli la precedente, fa sì che nessuno venga a verificare la realtà di quanto annunciato. La frammentazione e il riciclo degli stessi annunci rappresentano un altro sport nazionale deleterio, come dimostra l’esempio dei più di 100 poli di competitività progressivamente elencati, che rendono illeggibili e poco efficaci le misure industriali legate a gran parte di questi poli.

La speranza di una reindustrializzazione a breve termine si scontra con tante realtà vincolanti da risultare spesso illusoria. Jean Pisani-Ferry cita così l’opera non tradotta di Robert Lawrence, Behind the Curve: Can Manufacturing Still Provide Inclusive Growth 12, secondo cui i posti di lavoro manifatturieri persi non si recuperano. Quel che è certo, in ogni caso, è che più lo sforzo sarà concentrato su poche filiere, minore sarà il rischio di delusione.

L’Unione può cambiare software e superare gli effetti annuncio e i piani di dispersione senza veri risultati? Niente è meno certo. L’unica cosa che potrebbe condurvi è la consapevolezza che non abbiamo più scelta.

La nostra Europa deve anche trovare vie e mezzi per far sognare di nuovo il proprio futuro. Arianespace e Airbus hanno costituito simboli di potenza industriale e indipendenza tecnologica, ma anche di orgoglio e identità comune per tutti gli europei. Quali nuove frontiere immaginare? Dopotutto, l’esplorazione spaziale — ben oltre la conquista di Marte — non è fuori portata se volessimo darci i mezzi necessari.

Alcuni progetti tecnologici potrebbero anche alimentare concretamente il modello europeo fondato, secondo il nostro motto, sull’unità nella diversità.

La lingua, per esempio, per la quale avevo proposto nel 2019 il lancio di un progetto Babel di ricerca industriale comparabile per ampiezza al sequenziamento del genoma, avviato con successo dopo la Strategia di Lisbona del 2000. Questo progetto potrebbe mirare a creare dispositivi miniaturizzati di traduzione automatica istantanea che permettano agli eurocittadini — di cui solo l’1% è madrelingua inglese (gli irlandesi) — di parlarsi ciascuno nella propria lingua 13.

Per tornare al rapporto Draghi e al Piano presentato dalla Commissione, essi indicano già molti settori, dalle tecnologie verdi a quelle militari, passando per il computer quantistico e la fusione, in cui la scienza e la tecnologia di cui il nostro continente dispone in abbondanza devono alimentare la nostra speranza di reindustrializzazione.

Presentando il suo Patto lo scorso febbraio, la Commissione europea ha comunque mantenuto l’impegno preso sin dal suo insediamento, proponendo misure concrete per rispondere al rapporto Draghi.

Bisogna esserne grati — e sottolineare la necessità che la guerra commerciale, da una parte, e la minaccia di guerra tout court, dall’altra, sul fronte dell’Europa orientale, non impediscano alla Commissione e agli Stati membri di mantenere a tutti i costi la volontà di agire rapidamente e con decisione. L’argomento di Mario Draghi è senza dubbio il più convincente: «ogni giorno di ritardo fa allontanare il confine tecnologico da noi».

Note
  1. Eliseo, Remettre à plat les relations franco-allemandes pour l’Europe.
  2. Conclusioni del Consiglio Europeo di Lisbona, 23 e 24 marzo 2000.
  3. Questa proposta figurava nel libro Et si on recommençait par la culture. Plaidoyer pour la souveraineté européenne, di Jean-Noël Tronc, Seuil, 2019.
  4. Sui prezzi delle « aste 3G », si veda: Élie Cohen e Michel Mougeot, Enchères et gestion publique, rapporto del Conseil d’Analyse Économique, p. 93.
  5. IRIS (Infrastructure for Resilience, Interconnectivity and Security by Satellite) deve diventare una costellazione di 290 satelliti in orbita bassa o media con una messa in servizio completa prevista per il 2030.
  6. Jean Pisani-Ferry, «L’Europe face aux incohérences de Trump», Le Monde, 20-22 aprile 2025.
  7. Le poids de l’industrie dans l’économie en Europe Statista, Banque Mondiale, 2022.
  8. Vedi in particolare: Rana Foroohar, «Trump’s trade challenge», Financial Times, 20 gennaio 2025.
  9. Dichiarazione franco-tedesca del 7 maggio 2025, op. cit.
  10. «Les jeunes et le travail, aspirations et désillusions des jeunes de 16-30 ans», Institut Montaigne, avril 2025.
  11. Dichiarazione franco-tedesca del 7 maggio 2025, op. cit.
  12. Peterson Institute, 2024.
  13. Vedere testo op. cit., disponibile online (in francese), p. 195.