Per la prima volta la Chiesa avrà un papa statunitense. Da un punto di vista geopolitico si tratta di una rottura storica.
L’elezione di Robert Francis Prevost rompe una tradizione secolare che aveva sempre escluso gli Stati Uniti dallo scranno pontificale. Non è un caso. In un mondo dove le idee viaggiano più rapidamente che mai, gli Stati Uniti rappresentano un centro egemonico di produzione culturale e ideologica. È lì che il trumpismo si è sviluppato e diffuso, irradiandosi bene oltre i confini nazionali, finendo per diventare una minaccia evidente per la Chiesa.
In che senso?
Il trumpismo produce una forma di concorrenza diretta tra autorità politica e autorità spirituale. Emblematica è la figura di J. D. Vance. Il primo vice-presidente repubblicano cattolico si permette di correggere i vescovi americani.
Il mondo degli intellettuali del trumpismo sintetizza in modo preciso questa tendenza quando scrive: “Permettere a un papa comunista di eleggere funzionari ecclesiastici negli Stati Uniti è un attacco alla sovranità nazionale americana… solo il rappresentante eletto dal popolo americano dovrebbe nominare i vescovi e simili” 1?
Siamo di fronte a un cristianesimo politicizzato, nazionalista, che cerca di erodere dall’interno l’autonomia della Chiesa. In questo contesto, la Libertas Ecclesiae torna al centro: non si può delegare l’autorità spirituale al secolo senza snaturare la missione stessa della Chiesa.
Significativo in questo senso, quanto accaduto quando Vance si è recato in Vaticano e che Alberto Melloni ha descritto in modo molto preciso in queste pagine parlando di opzione carolingia. Papa Francesco non ha incontrato J. D. Vance secondo il protocollo diplomatico previsto nei rapporti fra Stati — delegando l’incontro ufficiale al Segretario di Stato, Pietro Parolin —, ma ha voluto incontrarlo come capo religioso, e lo ha fatto a Casa Santa Marta. Un gesto volutamente eloquente: un richiamo discreto ma fermo all’ordine delle cose, un modo per ricordare all’uomo Vance che, sebbene potente agli occhi del mondo, egli resta soggetto all’autorità spirituale della Chiesa.
Quello era l’estremo rifiuto di un papa morente. Pensa che i cardinali in Conclave hanno quindi voluto assicurarsi di continuarlo, eleggendo Robert Francis Prevost?
Se davvero si vuole uno scudo, quello offerto oggi da un Papa americano è uno scudo formidabile.
Continuando questa linea interpretativa, lei si dice convinto che per capire il nome del nuovo papa stiamo dimenticando un dato essenziale. Quale?
La confusione che accompagna le ore immediatamente successive all’elezione di un Pontefice contribuisce, come spesso accade, ad aumentare l’entropia comunicativa. Colpisce che solo pochi commentatori abbiano aperto una pista di riflessione legata all’eredità di Leone XIII, non tanto rispetto alla dottrina sociale della Chiesa e alla ben nota Rerum Novarum, ma con riferimento alla forse meno conosciuta, ma almeno altrettanto importante, in questo contesto, lettera enciclica Testem Benevolentiae del gennaio 1889.
Di cosa si tratta?
Con il documento del 1889 Leone XIII voleva mettere in guardia i cattolici riguardo alla diffusione di alcune posizioni ritenute pericolose ed emerse nel contesto statunitense e che cominciavano a diffondersi anche in Europa. Riletta oggi quella lettera potrebbe forse aprire le porte ad una lettura peculiare della scelta di Robert Francis Prevost quale Pontefice.
Quali erano le posizioni che condannava Leone XIV?
Nella lettera del 1889 Leone XIII condannava la diffusione dell’ “americanismo” e di quegli approcci che sottolineavano la necessità dell’adattamento del cattolicesimo alla modernità americana con importanti implicazioni su alcuni concetti quali la libertà individuale, la svalutazione della vita religiosa a favore dell’attivismo sociale, la necessità, insomma, di subordinare la vita religiosa alle ragioni del secolo.
Vede un parallelo con il MAGA (Make America Great Again) che si trasforma in MACA (Make America Christian Again)? Una nuova crisi dell’americanismo che si struttura con un capovolgimento di fronte sostanziale ?
Ovviamente il pericolo dell’americanismo di oggi non è lo stesso di ieri. I due concetti divergono in maniera fondamentale, ma entrambi sono frutto del contesto sociale statunitense. Lo era quello di Leone XIII, come lo è quello di Leone XIV, profondamente influenzato dal cristianesimo nazionalista trumpiano e che manifesta una deriva dell’universalismo cattolico con profili quasi-scismatici.
Uno dei nodi fondamentali della critica all’americanismo di Leone XIII era dato dal timore che la subordinazione del religioso alle ragioni del secolo potesse portare all’assimilazione ideologica e quindi ad una guida del religioso sottratta alla Chiesa. Nella competizione fra autorità temporale e autorità spirituale, il cristianesimo nazionalista guidato da Donald Trump sembra assumere una posizione quasi religiosa in diretta concorrenza con l’autorità spirituale della Chiesa e con implicazioni che vanno oltre gli Stati Uniti.
Passando oltre alla spasmodica ricerca dell’attenzione del presidente americano, abbiamo tutti visto in questi giorni un Trump vestito da Pontefice…
Si tratta di un movimento complesso, ma allo stesso tempo chiaro. Se la fedeltà al Vangelo viene sostituita dall’adesione a una visione politica in cui trionfano il relativismo strategico, l’etnonazionalismo e l’esclusione sistematica, il confronto non è più solo politico, ma anche teologico. Leone XIII è chiarissimo al riguardo: “Una, per unità di dottrina come per unità di regime, è la chiesa, e questa è cattolica: il cui centro e fondamento, avendo Dio stabilito nella cattedra del beato Pietro, a buon diritto ha il titolo di romana, infatti ‘dove è Pietro, ivi è la Chiesa’”.
E si tratta in realtà di una posizione che struttura il suo pontificato. Già con la lettera enciclica Longiqua Oceani del 1895, il Pontefice scriveva ad arcivescovi e vescovi degli Stati Uniti con un indirizzo ben preciso: “Coloro che vogliono servire utilmente la Chiesa, coloro che si propongono davvero di promuovere con la penna gl’interessi cattolici, debbono combattere uniti, in schiere compatte, poichè se alcuni, con la discordia, disperdono le forze, sembrano operare più dalla parte dei nemici che dei difensori”.
Leone XIII non utilizzava mezze parole: “Ritornino, poichè nulla di meglio desideriamo, ritornino pur tutti, quanti vagano lungi dall’ovile di Cristo; ma non per altro sentiero se non per quello che lo stesso Cristo additò”. Numerose idee dell’americanismo risulteranno poi essere profondamente influenti durante il Concilio Vaticano II.
Leone XIV segnerebbe quindi l’inizio di una nuova transizione paradigmatica?
Come ha ricordato più volte Papa Francesco, “non siamo in un’epoca di cambiamento, ma in un cambiamento d’epoca”. Se l’eredità di Leone XIII può costituire una chiave ermeneutica rilevante per comprendere l’esito di questo pontificato, allora le parole della prima omelia di Leone XIV assumono una chiave quasi profetica: “Anche oggi non mancano i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto”.
Come spiega l’importanza che avrebbe assunto la storia del primo americanismo per Leone XIV, in fondo si tratterebbe di una risorgenza — in pochi ne studiano o conoscono la storia? Perché Robert Francis Prevost avrebbe voluto imprimere il suo programma in questa trama?
Non sappiamo e forse non sapremo mai se l’importanza di questo riferimento è per lui personale, psicologica, legata alla sua formazione o alla sua sensibilità o se invece sia emersa come necessità istituzionale dalle riflessioni condivise tra i cardinali nelle congregazioni generali o durante il conclave. La rapidità del conclave, la sua convergenza su una figura centrale ma ancora poco conosciuta, sembra indicare tuttavia che il programma di Leone XIV fosse largamente condiviso.
Nelle transizioni imperiali che stiamo subendo, la religione diventa una matrice politica: da Cirillo per Putin, fino all’islamizzazione di Santa Sofia o all’induismo per Modi. La Chiesa cattolica può ancora resistere? Come?
La variabile religiosa conferma la sua rilevanza in tutte queste transizioni. Ovviamente la religione non spiega e non può spiegare tutto. Tuttavia l’adesione miope ad una certa teoria della secolarizzazione ha impedito a tanti di vedere la rilevanza di questo fenomeno. La Chiesa cattolica, come da sua tradizione, prova a resistere alla cattura istituzionale perché solo in questo modo può conservare il margine di manovra necessario a tutelare la sua Libertas Ecclesiae. La libertà dell’istituzione è oggi, come tanti anni fa, dunque centrale.
Note
- Scambio su X tra Curtis Yarvin e Bronze Age Pervert (Costin Alamariu), 9 maggio 2025, ore 3:22.