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L’Italia si appresta a celebrare il rito per eccellenza del potere politico italiano, l’elezione del Presidente della Repubblica. Prima di analizzare gli scenari però, è bene capire perché questo appuntamento e questa carica siano diventati così centrali per il destino della Repubblica italiana.
Una storia italiana
Dall’inizio degli anni Novanta il ruolo del Capo dello Stato è cambiato di conseguenza allo scenario politico nazionale ed internazionale.
Tangentopoli è stato il grande bivio della storia politica italiana. I suoi effetti sono noti: distruzione del sistema politico; decapitazione delle élite eredi del miracolo economico e politico del dopoguerra; cortocircuito tra magistratura e politica; creazione di un sistema maggioritario, bipolare imperfetto, quindi instabile e incapace di avanzare riforme istituzionali. Tutto questo in concomitanza dell’ingresso dell’Italia in un mondo globalizzato e senza divisioni politiche precise e della crescente dipendenza del potere italiano dai vincoli finanziari ed europei. Ma gli effetti di Tangentopoli non sono stati soltanto politici o geopolitici, ma anche “psicologici”. Psicologici perché gli italiani hanno individuato nella politica il nemico, il capro espiatorio, una professione deprecabile da sottoporre ad una reiterata palingenesi.
Effetti che si sono dispiegati nel lungo periodo: dai “manager e gli imprenditori in politica” di Silvio Berlusconi al “Vaffa” di Beppe Grillo, dal “Roma ladrona” della Lega Nord fino al “facce nuove” di Matteo Renzi e ai “tecnici e società civile” di Mario Monti.
Per la classe politica italiana non c’è stata più pace e questa furia antipolitica è stata inframezzata, allo stringersi del vincolo esterno nelle varie crisi internazionali (1993-2011-2020), dalle parentesi dei tecnici e dei loro governi. Il sistema partitico e politico non è mai stato ricostruito su solide basi, sulla politica nazionale sono state scaricate tutte le colpe del declino del paese (ben diffuse anche in altri settori), il riconoscimento di reciproca legittimazione tra forze politiche avverse non vi è mai stato fino in fondo, la separazione tra paese legale e paese reale è aumentata progressivamente.
In questo mondo di rovine solo un bastione del potere è rimasto in piedi: il Quirinale. Mai toccato dagli scandali, sempre in cima alle classifiche della fiducia nelle istituzioni, il gradimento dei Presidenti della Repubblica è stato sempre superiore a quello dei leader partitici e di governo. Non soltanto perché il Capo dello Stato rappresenta l’unità nazionale, ma perché il suo ruolo di balia, di istituzione-provvidenza e di istituzione-collegamento con il mondo europeo ed internazionale, si è fatto molto più rilevante per le disfunzioni politiche del sistema italiano e per la forza crescente del vincolo esterno di fronte al declino italiano. I poteri del Presidente sono estremamente elastici. Un tempo chiamato “notaio della Costituzione” e “potere neutro” per la sua posizione arbitrale, oggi dimostra di essere l’epicentro ed il motore della politica italiana. Una sorta di monarca costituzionale che può influire sulla scelta del Presidente del Consiglio, sulla lista dei ministri, sul programma di governo, sulla durata della legislatura al fine di tenere nei binari che egli ha in mente il governo del Paese.
Ma oltre questo c’è di più, c’è quello che potremmo chiamare l’“apparato del Quirinale”. Una rete di potere molto radicata nei media, con i “quirinalisti” spesso dei veri e propri messaggeri del Presidente; nell’alta burocrazia e nella magistratura, il Segretario della Presidenza è in genere un consigliere parlamentare che può parlare ai vertici della macchina statale e il Capo dello Stato italiano presiede formalmente il Consiglio Superiore della Magistratura; nelle forze armate e nell’intelligence, grazie alla nomina di consiglieri del Presidente; in Parlamento, poiché il presidente è quasi sempre un politico di lungo corso ed esperienza che ha dei punti di riferimento nell’assemblea legislativa che si muovono all’ombra dei leader politici; con le cancellerie diplomatiche, con cui il Capo dello Stato può intessere rapporti ed incontri diretti ed indiretti.
Michel Debré, intelligenza occulta del Generale de Gaulle e sarto della sua costituzione semipresidenziale, scrisse un libro sull’argomento (“I principi che ci governano”) per mostrare come i destini della Francia fossero nelle mani di una élite di poche migliaia di uomini. Le decisioni fondamentali per il paese non erano prese da uno soltanto (il Presidente) né da tutti i cittadini. Lo stesso meccanismo vale per la Presidenza della Repubblica italiana, pur essendo essa giuridicamente dotata di minori poteri e non avendo l’investitura diretta del popolo.
Di conseguenza, chi crede che l’elezione del nuovo Capo dello Stato sia soltanto e tutto in mano ai partiti e ai sussurri mediatici si inganna. Sul piano legale e formale è il Parlamento ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, ma è ingenuo negare che sono tanti i potentati che si muovono intorno alla votazione. Naturalmente a questo gioco del potere partecipano anche le cancellerie estere, in particolare dei paesi che hanno legami più forti con l’Italia. La Francia ha appena incassato un nuovo trattato ed è molto interessata al futuro del Quirinale; la Germania guarda sempre con occhio attento, seppur con azioni meno evidenti rispetto a Parigi, la dinamica del potere italiano; il Vaticano ha sempre cercato garanzie interne e sicurezze sul piano delle linea diplomatica dal Capo dello Stato italiano; gli Stati Uniti e la Cina cercano di dispiegare la propria influenza imperiale, manovrando i propri uomini e attivando le proprie reti. In altre parole, non esiste in Italia una elezione più sistemica della Presidenza della Repubblica. Ciò è naturalmente collegato alle caratteristiche previste per il rinnovo di questa carica: voto segreto, inesistenza di candidature spontanee, trasversalità ai partiti della competizione politica. Elementi che favoriscono l’attivazione di reti nazionali ed internazionali, la compresenza tra principio di rappresentanza ed élite del potere. I leader politici e i loro peones saranno sottoposti a notevoli pressioni da parte di queste reti nei prossimi giorni. L’elezione del Presidente della Repubblica è un perfetto incastro di poteri in cui quello democratico-rappresentativo è il principale, ma non è esclusivo. Ciò vale tanto di più per una istituzione come quella italiana, sempre più perno inamovibile di un sistema politicamente debole e gravato da molteplici vincoli esterni.
L’autorevolezza, l’esperienza e l’empatia umana del possibile candidato alla Presidenza non sono che un frammento destinato ad incrociarsi con interessi strategici, diplomatici e finanche economici e amministrativi. La garanzia offerta dalla figura deve coprire uno spettro più ampio di quello meramente politico. Ed è proprio per questo che tale elezione ci appare così impronosticabile e misteriosa ed il prescelto ogni volta così autorevole e degno.
E adesso?
Come arriva l’Italia a questo momento così importante per il suo futuro istituzionale? Con un sistema politico in ghiaccio: Draghi è il grande manto di gelo che si sparge sopra il Parlamento. Da un anno i partiti hanno scelto di auto-commissariarsi, chiamare il tecnocrate Mario Draghi alla guida del governo per fronteggiare l’emergenza pandemica e le riforme del PNRR, sostenerlo con una maggioranza di unità nazionale che include tutti tranne Fratelli d’Italia.
Veniamo ora ai possibili scenari per l’elezione del Presidente della Repubblica. Sul piano parlamentare la situazione è la seguente: il blocco di centrodestra controlla 453 voti (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, NcI), quello di centrosinistra (Pd, M5Stelle, LeU) 408, i centristi 76 (Italia Viva, Azione, MAIE, ML), mentre nel gruppo misto ci sono 78 parlamentari. Per eleggere un Presidente nei primi tre scrutini la maggioranza richiesta è 678, mentre al quarto scrutinio si abbassa (50%+1) a 505. I numeri sono chiari: per eleggere subito un presidente serve un accordo molto ampio tra le due coalizioni di destra e sinistra. Mentre dal quarto scrutinio servono uno dei due blocchi più i voti dei centristi (nel caso della destra) oppure sia dei centristi che del misto (nel caso della sinistra). Una situazione di stallo che rende molto difficile l’elezione di un candidato di parte, anche dopo il quarto scrutinio. Una qualche convergenza totale, o almeno parziale, tra i due schieramenti resta la combinazione più probabile. Questa confluenza è incentivata anche dalla maggioranza di unità nazionale perché mai come questa volta il destino del governo è legato all’elezione del nuovo Capo dello Stato. In questo contesto gli scenari principali sono quattro:
A) Draghi viene eletto Presidente della Repubblica dalla sua maggioranza di governo e la coalizione riesce a mantenersi intatta. Viene incaricato un nuovo Presidente del Consiglio – probabilmente uno dei ministri tecnici di Draghi – che forma un esecutivo non troppo diverso rispetto a quello di Draghi dopo un accordo tra i leader di partito. Si prosegue in continuità con il solco tracciato dall’attuale Primo Ministro.
B) Draghi resta Presidente del Consiglio perché presto si materializza un altro nome su cui la maggioranza di governo (o gran parte di essa) riesce a convergere. Draghi sarebbe probabilmente indebolito e, pur restando al suoi posto, avrebbe difficoltà a tenere a freno gli appetiti e le scintille tra partiti politici in un anno pre-elettorale.
C) Un nome terzo viene eletto con una maggioranza diversa rispetto a quella di governo. Ciò implica la scelta di un candidato d’area (destra o sinistra) che passa dal quarto scrutinio in poi con i voti dei centristi e del gruppo misto, ma senza un accordo tra tutti i leader della maggioranza di governo. E’ lo scenario peggiore, poiché a quel punto la maggioranza potrebbe entrare in crisi mettendo a repentaglio anche la permanenza di Draghi. Si aprirebbero scenari per le elezioni anticipate o per una coalizione di governo precaria e debolissima. Il rischio è che Draghi esca sbattendo la porta e lasciando i partiti nel caos.
D) Lo stallo assoluto in Parlamento. Una serie di potenziali candidati bruciati dai disaccordi tra partiti conduce ad una situazione inestricabile. Tutti, o quasi, i partiti del Parlamento chiedono a Mattarella di accettare un secondo mandato, mentre Draghi resta presidente del Consiglio. È attualmente lo scenario meno probabile ma non può essere del tutto escluso.