La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali è stata chiara, sorprendendo molti osservatori che si aspettavano una ripetizione delle interminabili sequenze post-elettorali del 2000 e del 2020. Inoltre, il campo repubblicano ha conquistato una solida maggioranza al Senato e ha ottenuto una stretta maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, completando il trifecta 1 tanto desiderato da entrambi i campi prima delle elezioni. Quali sono i fattori che hanno portato a questa vittoria e quali lezioni si possono trarre per il futuro della politica americana?

1 — La vittoria di Trump è chiara, ma non si tratta di un’onda travolgente

Il giorno dopo il voto, molti media hanno definito i risultati come un “tsunami” o un'”onda” repubblicana. A questo punto, Donald Trump ha raccolto a livello nazionale 76 milioni di voti, pari al 50,2% dei consensi, contro i 73,1 milioni (48,2%) di Kamala Harris. La differenza di 2 punti e 3 milioni di voti a favore del candidato repubblicano è quindi significativa, ma comunque nettamente inferiore a quella a favore di Barack Obama nella sua rielezione del 2012 — 3,9 punti e 5 milioni di voti — o di Joe Biden quattro anni fa — 4,5 punti e 7,1 milioni di voti — due elezioni che erano state definite “molto combattute” al loro tempo.

Inoltre, questo non tiene conto di una delle peculiarità ormai ben note delle elezioni americane: la sorprendentemente lunga durata dello spoglio. In alcuni Stati, infatti, il processo non è ancora concluso: il 4% delle schede deve ancora essere conteggiato in Colorado e nello Stato di Washington, il 7% in Oregon, e soprattutto l’11% in California 2. Si tratta ancora di milioni di voti, per lo più provenienti da contee urbane e progressiste di Stati democratici. La differenza attuale tra i due candidati si ridurrà progressivamente con il proseguire dello spoglio, che dovrebbe prolungarsi per altre settimane: nel 2020, i risultati definitivi erano stati resi noti solo il 10 dicembre. Il New York Times stima che il vantaggio finale di Donald Trump sulla sua rivale democratica sarà di 1,6 punti, una vittoria che segnerà il primo successo in termini di voti popolari per l’ex imprenditore, ma che comunque è lontana dalla definizione generalmente accettata di “tsunami” elettorale.

Infine, negli swing states dove lo spoglio è terminato — o quasi —, il vantaggio di Donald Trump è più consistente rispetto a quello ottenuto da Joe Biden nel 2020, ma la differenza tra i due candidati resta comunque limitata: 0,8 punti di vantaggio per Donald Trump nel Wisconsin, 1,4 punti nel Michigan, 1,9 punti in Pennsylvania, 2,2 punti in Georgia… Certo, teoricamente sarebbe bastato a Donald Trump ottenere solo 43.000 voti in più distribuiti in tre Stati per battere Joe Biden nel Collegio Elettorale nel 2020. Kamala Harris, invece, avrebbe dovuto raccogliere 252.000 voti in più in tre Stati: una differenza nettamente superiore, ma che rimane comunque molto esigua per una consultazione che ha mobilitato circa 157,5 milioni di elettori.

La differenza attuale tra i due candidati si ridurrà quindi progressivamente con il proseguire dello spoglio, che dovrebbe prolungarsi per altre settimane.

Mathieu Gallard

2 — Una forte partecipazione negli swing states

La mobilitazione dell’elettorato in questa consultazione è stata meno forte rispetto a quattro anni fa: le ultime stime collocano la partecipazione al 62,3% della popolazione 3, in calo di 4,1 punti rispetto al livello del 2020 (66,4%). Questo tasso resta comunque un record, essendo il secondo miglior risultato dalle elezioni presidenziali del 1968. In generale, ciò conferma che il processo di polarizzazione, che oppone due partiti con opzioni ideologiche sempre più radicalmente contrapposte, tende almeno ad avere un effetto positivo in termini di partecipazione dei cittadini alla vita politica.

Nel dettaglio, la partecipazione è stata più alta negli swing states — 70,1% in media — e, soprattutto, è rimasta perfettamente stabile rispetto al 2020. Questi sono anche gli Stati dove il voto democratico è calato meno in quattro anni, il che sembra indicare una certa efficacia della macchina del partito nel mobilitare il proprio elettorato, anche se, chiaramente, non è stato sufficiente.

Al contrario, la partecipazione è diminuita in modo abbastanza marcato negli Stati favorevoli a uno dei due candidati — 61,7%, con una perdita di 5 punti. Tuttavia, l’evoluzione è molto dissimile tra gli Stati repubblicani e democratici: nei primi, la mobilitazione degli elettori è calata solo di 2,9 punti rispetto al 2020, mentre negli Stati “blu” la diminuzione è molto più accentuata (-7 punti). Infatti, gli Stati in cui la partecipazione è scesa di oltre 8 punti sono tutti roccaforti democratiche: -13,1 punti in California, -12,9 punti nel Maryland, -10,9 punti nel distretto di Columbia, -8,3 punti in Oregon e New Jersey… La demobilizzazione dell’elettorato democratico negli Stati dove il risultato delle elezioni sembrava già deciso è quindi talvolta molto forte, il che non ha avuto impatto sul risultato, ma è segno di un certo malessere nei confronti della candidata o della gestione dell’amministrazione uscente.

La partecipazione è stata più alta negli Stati in bilico — 70,1% in media — e vi è rimasta perfettamente stabile rispetto al 2020.

Mathieu Gallard

3 — “It’s the economy, stupid!”

In effetti, durante tutta la campagna, la situazione economica — e in particolare il livello dell’inflazione — sono state le principali preoccupazioni degli americani, che si mostravano critici nei confronti della gestione economica dell’amministrazione di Joe Biden. Inoltre, una maggioranza di elettori riteneva che Donald Trump fosse più credibile sui temi economici e sull’inflazione rispetto al suo avversario democratico. Un contesto naturalmente difficile per il Partito Democratico, poiché le possibilità di elezione di un candidato che soffre di una carenza di credibilità sul tema principale della campagna erano logicamente piuttosto limitate.

La predominanza della questione economica è stata confermata il giorno delle elezioni: secondo un exit poll realizzato per CNN, il 46% degli elettori riteneva che la situazione finanziaria della propria famiglia fosse peggiorata negli ultimi quattro anni — tra questi, l’81% ha votato per Donald Trump — contro solo il 24% che riteneva che fosse migliorata, di cui l’82% ha scelto Kamala Harris. In particolare, il 68% degli elettori riteneva che la situazione economica del paese fosse cattiva, e tra questi, il 70% ha votato a favore del candidato repubblicano, che continuava a beneficiare di una credibilità superiore (52%) sul tema rispetto al suo avversario (46%). Quattro anni fa, il semplice fatto che Joe Biden fosse giudicato altrettanto competente su questioni economiche quanto Donald Trump il giorno delle elezioni — con il 49% per ciascuno — gli aveva permesso in gran parte di vincere l’elezione.

4 — Aborto, immigrazione : dei temi che hanno avuto un impatto limitato

Le altre questioni largamente evidenziate dai candidati durante la loro campagna sembrano aver avuto un impatto nettamente più debole sull’elettorato.

Per quanto riguarda la questione dell’aborto, gli elettori che si sono recati alle urne avevano un’opinione decisamente più favorevole a questo diritto rispetto al 2020: il 65% di loro riteneva che dovesse essere possibile “in tutti i casi” o “nella maggior parte dei casi”, contro solo il 51% che condivideva questa opinione quattro anni fa.

Tuttavia, la decisione della Corte Suprema del 2022 che ha rovesciato la sentenza Roe vs. Wade, che proteggeva a livello federale il diritto all’aborto, ha reso il tema più polarizzante: l’87% degli americani che ritenevano che l’aborto dovesse essere legale “in tutti i casi” ha scelto Kamala Harris, con un incremento di 7 punti rispetto al 2020, mentre dall’altra parte, il 91% di chi riteneva che dovesse essere illegale “in tutti” o “nella maggior parte” dei casi ha votato per Donald Trump, con un aumento di 15 punti in quattro anni.

Tuttavia, per Kamala Harris, il problema è soprattutto venuto dalla scelta degli elettori “moderati” favorevoli al diritto all’aborto: tra coloro che ritenevano che dovesse essere legale “nella maggior parte dei casi”, il voto si è diviso equamente tra i due candidati — 49% ciascuno. Questo sembra indicare che la questione dell’aborto sia stata un fattore decisivo solo tra gli elettori che avevano un’opinione molto decisa sull’argomento — ma questi sono anche elettori che, nella stragrande maggioranza, avrebbero comunque votato per il Partito Democratico se fossero stati molto favorevoli al diritto all’aborto e per il Partito Repubblicano se fossero stati contrari. Non riuscendo a spingere i sostenitori “moderati” dell’aborto a votare maggiormente per i Democratici, questo tema non sembra aver avuto un ruolo significativo nel risultato delle elezioni 4. Il bilancio è sostanzialmente lo stesso per quanto riguarda l’impatto della questione migratoria, che non sembra aver fatto cambiare idea a un numero significativo di elettori, anche se potrebbe aver consolidato la mobilitazione delle basi elettorali di entrambi i partiti.

La questione dell’aborto è stata un fattore decisivo solo tra gli elettori che avevano un’opinione molto netta sull’argomento. Non riuscendo a spingere i sostenitori “moderati” del diritto all’aborto a votare maggiormente per i Democratici, la difesa di questo diritto non sembra aver avuto un ruolo significativo nei risultati delle elezioni.

Mathieu Gallard

5 — La progressione di Donald Trump è abbastanza uniforme a livello sociale e geografico.

Un altro segno dell’importanza dell’economia nella decisione elettorale degli americani si può riscontrare nell’assenza di cambiamenti significativi nelle coalizioni elettorali che i due candidati sono riusciti a formare. Donald Trump tende a guadagnare terreno in quasi tutte le categorie della popolazione, con un aumento relativamente vicino all’evoluzione del suo risultato nazionale tra il 2020 e il 2024 — circa 3 punti di progressione. Questo riflette l’importanza di un tema trasversale come l’economia, piuttosto che questioni come l’aborto, l’immigrazione o il rapporto con la democrazia, che avrebbero mobilitato in misura maggiore segmenti specifici dell’elettorato. Le uniche categorie che si distinguono sono gli ispanici, così come i gruppi in cui gli ispanici sono particolarmente presenti, come i giovani e i cattolici in particolare.

Si ritrova questa evoluzione relativamente stabile del voto a favore di Donald Trump rispetto a quattro anni fa nella geografia elettorale: il voto repubblicano cresce praticamente in tutto il paese, con poche zone dove Kamala Harris riesce a ottenere risultati migliori rispetto a Joe Biden nel 2020. Questo spostamento uniforme conferma che i Democratici hanno affrontato una difficoltà a livello nazionale: come già detto, sembrano infatti resistere meglio negli swing states, il che conferma che il problema della campagna di Kamala Harris non derivava da un difetto di targeting o di organizzazione sul territorio.

Inoltre, la progressione di Donald Trump rispetto al 2020 è poco legata alla composizione sociale dei distretti. Chiaramente, i Democratici hanno sofferto soprattutto di un contesto nazionale complicato, di fronte al quale era difficile imporsi.

6 — La svolta dei giovani latinos

Una categoria della popolazione ha tuttavia modificato considerevolmente il suo comportamento elettorale in quattro anni: gli elettori ispanici hanno infatti votato a favore di Kamala Harris al 52%, contro il 46% che ha scelto Donald Trump. Ciò rappresenta una progressione di 13 punti rispetto al punteggio del Repubblicano nel 2020 e di 18 punti rispetto al 2016. Sebbene l’ipotesi di una progressione di Donald Trump tra gli afro-americani fosse stata ampiamente discussa durante la campagna, non sembra essere molto concreta nei sondaggi usciti dalle urne: Donald Trump ottiene all’interno di questa comunità un misero 13% dei voti, contro il 12% nel 2020 e l’8% nel 2016.

Nel dettaglio, questa progressione repubblicana nell’elettorato ispanico si concentra in modo impressionante tra i giovani uomini: Donald Trump guadagna 27 punti in quattro anni tra i latinos di meno di 30 anni, ottenendo il 58% dei voti. L’evoluzione è significativa, ma molto meno marcata, tra le donne ispaniche sotto i 30 anni (+9 punti al 35%) così come tra gli uomini ispanici di 60 anni e più (+10 punti al 48%). Allo stesso modo, l’evoluzione del voto a favore di Donald Trump tra i giovani uomini bianchi (-2 punti, 52%) o afro-americani (+6 punti, 22%) è ben lontana da essere altrettanto consistente.

Una categoria della popolazione ha tuttavia modificato considerevolmente il suo comportamento elettorale negli ultimi quattro anni: gli elettori ispanici.

Mathieu Gallard

7 — “¡Es la economía, estúpido!”

L’evoluzione del voto nei distretti con una forte maggioranza di popolazione ispanica aiuta a comprendere che anche in questo caso la dimensione economica si è rivelata cruciale. Nei distretti molto poveri e rurali al confine tra il Messico e il Texas, il voto democratico è crollato in pochi anni, passando, ad esempio, dal 79% per Hillary Clinton nel 2016 al 42% quest’anno nella contea di Starr, dove il 98% della popolazione è ispanica e il 51% vive sotto la soglia di povertà. La tendenza è altrettanto drastica in contee vicine, con una popolazione quasi esclusivamente ispanica e molto svantaggiata, come Maverick (-37 punti per i Democratici in otto anni), Zapata (-27 punti) o Webb (-24 punti).

In altre contee con una larga maggioranza di popolazione ispanica in Stati al confine con il Messico, dove la situazione economica e sociale è sensibilmente meno degradata, il voto democratico rimane invece più solido: nella contea di Imperial (85% ispanico) in California, Kamala Harris ottiene il 61% dei voti, in calo di «solo» 7 punti; ottiene il 67% dei suffragi (-4 punti) nella contea di Santa Cruz (Arizona, 84% ispanico), il 63% (-5 punti) nella contea di San Miguel (New Mexico, 75% ispanico) e il 58% (-7 punti) nella contea di Mora (New Mexico, 79% ispanico). Il contesto economico gioca quindi un ruolo chiaro nella progressione del voto repubblicano tra gli ispanici, con un aumento del voto per Trump tanto più forte quanto più le condizioni sociali sono difficili.

8 — Le periferie bianche benestanti: una frenata all’avvicinamento ai Democratici?

Nel 2016 come nel 2020, una delle principali evoluzioni nel comportamento elettorale degli americani riguardava il progressivo spostamento delle periferie delle grandi agglomerazioni verso i Democratici, in particolare negli Stati tradizionalmente repubblicani della Sun Belt: Georgia con Atlanta, Texas con Dallas-Fort Worth, Houston e Austin, Arizona con Phoenix, Carolina del Nord con Charlotte e Raleigh-Durham-Chapel Hill. In queste zone a maggioranza bianca, spesso benestanti e laureate, che costituivano una delle basi elettorali di Ronald Reagan o George W. Bush, la svolta trumpiana del Partito repubblicano ha rapidamente portato a un spostamento degli elettori moderati verso il campo democratico.

Tra gli ispanici, l’aumento del voto per Trump è tanto più forte
quanto più le condizioni sociali sono difficili.

Mathieu Gallard

Se nel 2016 il movimento era ancora troppo limitato, impedendo a Hillary Clinton di bilanciare la perdita degli stati della Rust Belt con delle conquiste nella Sun Belt, quest’evoluzione ha invece spiegato la vittoria al fotofinish di Joe Biden quattro anni fa. Infatti, Biden è stato il primo candidato democratico a far vincere il distretto di Maricopa — Phoenix, 4,4 milioni di abitanti — da Lyndon Johnson nel 1964, permettendogli di vincere l’Arizona per un margine minimo. Allo stesso modo, la sua capacità di amplificare le vittorie strette di Hillary Clinton in diverse contee tradizionalmente repubblicane e molto popolose delle periferie di Atlanta — contea di Gwinnett, 980.000 abitanti o contea di Cobb, 750.000 abitanti — ha spiegato la sua vittoria in Georgia.

Quest’anno, l’elettorato delle periferie bianche e benestanti ha, nel complesso, messo un freno a questa dinamica. Questo è particolarmente evidente in Texas: nel distretto di Tarrant — Fort Worth, 2,2 milioni di abitanti — la storica vittoria di Joe Biden per 0,2 punti si trasforma in un deficit di 5,2 punti a favore di Kamala Harris; nel distretto di Williamson — periferia di Austin, 800.000 abitanti — la vittoria passa da Joe Biden con un vantaggio di 1,4 punti a Donald Trump con un margine di 2,5 punti. I distretti di Fort Bend — periferia di Houston, 890.000 abitanti — e di Hays — periferia di Austin, 270.000 abitanti — restano invece sotto il controllo dei Democratici, ma con un margine di vittoria nettamente ridotto rispetto al 2020. Lo stesso fenomeno si verifica nelle periferie di Washington in Virginia, nonché nelle agglomerazioni della Florida e della Carolina del Nord. L’unica agglomerazione che si distingue è quella di Atlanta in Georgia, dove prosegue il cambiamento in favore dei Democratici, ma con un’ampiezza troppo ridotta per controbilanciare i progressi repubblicani nei distretti rurali.

9 — Il livello di istruzione come variabile sempre più significativa del voto, al contrario del livello di reddito

Il progressivo spostamento delle classi medie-alte bianche verso il campo democratico, anche se quest’anno ha subito una battuta d’arresto, è connesso al rafforzarsi del legame tra il livello di istruzione e il comportamento elettorale.

Alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000, questo legame esisteva, ma era mascherato dall’importanza del livello di reddito: nel 1996, il divario nel voto a favore di Bill Clinton era di 21 punti tra le famiglie più povere (59%) e quelle più ricche (38%); nel 2000, il divario era ancora di 14 punti per Al Gore. Al contrario, la differenza nel voto a favore di Bill Clinton era solo di 7 punti tra le persone senza diploma (59%) e quelle con un diploma di secondo ciclo universitario (52%), con gli stessi numeri per Al Gore quattro anni dopo.

Oggi, la variabile del reddito, che era ancora non trascurabile nel 2016 con una differenza di 6 punti tra i voti dei più poveri e dei più ricchi a favore di Hillary Clinton, non sembra più giocare un ruolo significativo, anzi si è addirittura leggermente invertita: Donald Trump ha ottenuto il 50% dei voti tra i nuclei familiari con un reddito inferiore a 50.000 dollari all’anno, il 51% tra quelli con un reddito compreso tra 50.000 e 99.999 dollari e il 46% tra quelli con un reddito di 100.000 dollari o più. Per la prima volta, un candidato repubblicano ottiene risultati leggermente migliori tra le fasce di reddito più basse della popolazione americana. Al contrario, il comportamento elettorale si allinea sempre più al livello di istruzione, con divari ormai significativi: il 63% degli americani con solo un diploma di scuola superiore (high school) ha votato per Donald Trump, contro il 38% di quelli con un diploma di secondo ciclo universitario (post-graduate).

Il livello di istruzione è un elemento sempre più significativo
nel comportamento elettorale degli americani.

Mathieu Gallard

L’incrocio di queste due variabili mostra quanto le due coalizioni elettorali siano profondamente cambiate nel corso degli ultimi scrutini. A partire dagli anni ’50, gli elettori bianchi, benestanti e laureati votavano sistematicamente a favore del Partito Repubblicano più di quanto non facesse la media dell’elettorato. Dal 2016, la tendenza si è invertita a favore dei candidati democratici, con ogni elezione che ha amplificato questa dinamica. Così, il 58% degli elettori bianchi con un diploma di college o superiore e un reddito annuo di 100.000 dollari o più ha scelto Kamala Harris.

Al contrario, l’elettorato bianco, con reddito modesto e un basso livello di istruzione, è stato, dalle anni ’50 agli anni 2010, un elettorato molto conteso tra i due partiti. Dal 2016, sembra essersi chiaramente spostato verso il campo repubblicano. Così, il 68% degli elettori bianchi senza diploma universitario e con un reddito inferiore a 50.000 dollari ha votato a favore di Donald Trump

Mentre i progressi di Donald Trump nell’elettorato ispanico indicano un ridotto peso della variabile razziale nel voto, il livello di istruzione è, al contrario, un elemento sempre più determinante nel comportamento elettorale degli americani.

10 — La coalizione repubblicana perde in efficacia elettorale

Nel 2016, grazie alla vittoria negli swing states della Rust Belt (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin), Donald Trump ha dato al suo partito un vantaggio strutturale nel collegio elettorale, per la prima volta dal 1988. Questo vantaggio era rafforzato dalle enormi ma inutili vittorie dei Democratici nei loro bastioni come la California e New York. Infatti, lo stato che aveva dato la vittoria a Trump nel 2016 era la Pennsylvania, dove aveva battuto Hillary Clinton di 0,7 punti, mentre la sua avversaria democratica aveva un vantaggio di 2,1 punti a livello nazionale. Il divario tra lo stato “decisivo” per vincere il collegio elettorale e il voto popolare era quindi di 2,8 punti a favore dei Repubblicani. Questo bias pro-repubblicano nel collegio elettorale era arrivato addirittura a 3,8 punti nel 2020, con lo stato “decisivo”, il Wisconsin, che aveva dato a Joe Biden un vantaggio di 0,6 punti, mentre lui aveva vinto il voto popolare nazionale con una margine di 4,4 punti.

Quest’anno, tuttavia, il vantaggio dei Repubblicani nel collegio elettorale è scomparso. Infatti, lo swing state che ha permesso a Donald Trump di superare la soglia dei 270 grandi elettori è stato la Pennsylvania, che ha vinto con un margine di 1,9 punti, inferiore al suo vantaggio di 2 punti nel voto popolare. Questo divario significa che se il voto popolare a livello nazionale fosse stato pari tra i due candidati, Kamala Harris avrebbe probabilmente vinto lo swing state e sarebbe diventata presidente.

Questa evoluzione notevole rispetto alle due precedenti elezioni si spiega con una distribuzione del voto democratico più efficiente rispetto al passato, e al contrario con una perdita di efficacia della coalizione repubblicana. Negli Stati democratici molto popolati, il vantaggio di Kamala Harris si è infatti nettamente ridotto rispetto a quello di Joe Biden nel 2020: perde 3,9 punti in Illinois, 5,1 punti in California, 5,5 punti nel New Jersey, 5,7 punti nello Stato di New York… Un’evoluzione legata al declino del voto democratico tra le minoranze e le classi medie e alte bianche, ma che consente una distribuzione geografica più efficace del loro elettorato. Al contrario, Donald Trump guadagna ancora nei bastioni repubblicani[nota]Guadagna infatti 4,2 punti in Texas, 3,7 punti in Mississippi, 3,5 punti nel Tennessee, 3,2 punti in Idaho, 3,1 punti nella Carolina del Sud, 2,6 punti in Alabama.[/nota], portando la coalizione repubblicana a soffrire dello stesso problema che hanno avuto i Democratici negli ultimi anni: un eccesso di voti “inutili” nei loro bastioni.

Se il voto popolare a livello nazionale fosse stato pari tra i due candidati, Kamala Harris avrebbe probabilmente vinto lo stato decisivo e sarebbe quindi diventata Presidente.

Mathieu Gallard

Lo stesso declino dell’efficacia elettorale della coalizione trumpiana si osserva nelle elezioni alla Camera dei Rappresentanti: mentre i Repubblicani hanno attualmente un vantaggio di 4,2 punti nel voto popolare a livello nazionale, le proiezioni sulle circoscrizioni ancora da assegnare non danno loro che un esiguo vantaggio in termini di seggi. Otto anni fa, durante la prima elezione di Donald Trump, riuscivano a conquistare una solida maggioranza di 241 seggi contro i 194 dei Democratici con un vantaggio a livello nazionale di solo 1,1 punti.

Se questa sequenza elettorale ha permesso ai Repubblicani di conquistare la Casa Bianca, il Senato e la Camera dei Rappresentanti, nulla indica al momento che questa dominanza sarà duratura.

Note
  1. Il controllo da parte di un singolo partito della Presidenza e di entrambe le camere del Congresso.
  2. Al 15 novembre 2024, alle 7:00 (ora di Parigi).
  3. Negli Stati Uniti, il tasso di partecipazione viene calcolato sulla base dell’intera popolazione adulta o della popolazione potenzialmente votante (cioè i cittadini adulti, esclusi quelli privati dei diritti civili per decisione giudiziaria). In altri paesi europei come la Francia, invece, il calcolo si fa sulla base della popolazione iscritta nelle liste elettorali. Una comparazione diretta, quindi, non è possibile.
  4. Inoltre, possiamo osservare che le donne repubblicane non hanno votato di più per Kamala Harris (5%) che per Joe Biden quattro anni fa (5%).