Fedi aveva vent’anni e il volto da bambino. Si è tolto la vita nel carcere di Sollicciano, a Firenze, lo scorso 3 luglio. Classe 2004, era arrivato in Italia minorenne dalla Tunisia ed era in carcere dal 2022. In un reclamo giurisdizionale presentato grazie a L’Altro Diritto, centro di documentazione dell’Università di Firenze aveva messo nero su bianco le gravi condizioni del carcere fiorentino, pieno di muffa, topi e cimici. E, naturalmente, sovraffollato come tutte le carceri italiane: al 31 agosto 2024, ultimo dato disponibile del ministero della Giustizia, nelle prigioni italiane c’erano 61.758 detenuti su una capienza di 50.911 (dato al quale dovrebbe essere necessario togliere però anche i posti resi inagibili). L’Italia si sta dunque pericolosamente avvicinando ai numeri che nel gennaio 2013 la portarono alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamento inumano e degradante: 66.585 detenuti alla data del 13 aprile 2012 (tasso di sovraffollamento del 148 per cento).

Oltre agli oltre 60 mila detenuti in carcere, al 31 luglio 2024 c’erano 141.115 persone sottoposte a misure alternative, pene sostitutive, libertà vigilata, eccetera. Un numero enorme, cresciuto nel tempo, utile a capire quanto sia vasta l’area dell’esecuzione penale in Italia.

Nel suo reclamo, Fedi descriveva le condizioni di vita e poi di morte del carcere di Sollicciano.

«Le pareti della cella, in particolare in quella vicino al letto, presentano macchie visibili di umidità e di muffa. Tali formazioni funginee sono causate dalle frequenti infiltrazioni d’acqua che, in caso di precipitazioni atmosferiche, aumentano considerevolmente. I detenuti in generale e il reclamante in particolare sono costretti a pulire essi stessi la muffa con la candeggina, ma il problema si presenta in maniera talmente endemica che da soli non riescono a risolverlo in maniera strutturale…».

La presenza di infiltrazioni di acqua e di muffa era «resa ancor più grave se si considera che l’impianto di riscaldamento spesso non è funzionante, anche a causa del costante sovraffollamento nel quale il carcere di Sollicciano versa.

«Anche quando l’impianto termo-idraulico è funzionante la cella è fredda. Il reclamante è, perciò costretto a vivere in un ambiente insalubre freddo ed umido». L’acqua calda non è mai presente in cella, scriveva il giovane detenuto: «Di conseguenza, il reclamante è costretto a lavarsi giornalmente con acqua gelata e a lavare i piatti peraltro nel medesimo lavandino adibito all’igiene personale nelle medesime condizioni. Egli, in ragione della costante umidità e della mancanza di aereazione in cella è costretto a tenere la finestrina del bagno costantemente aperta col risultato che sia l’igiene personale che delle stoviglie deve essere effettuata con l’acqua gelida».

Nella sezione e nella cella c’erano i topi:

«Di recente, il reclamante è riuscito a catturarne uno, che ha poi mostrato agli agenti e al personale medico. In data 6.11.2023 egli, tramite accesso diretto al colloquio psicologico-clinico, si è presentato con una bottiglia all’interno della quale si trovava un ratto catturato nella cella».

Oltre ai topi, Fedi lamentava «la presenza di cimici che in passato lo hanno morso procurandogli delle lesioni. Quest’ultime si annidano, in generale in tutto il carcere, nei materassi, nei tessuti, dentro le crepe delle pareti e negli anfratti degli arredi e provocano lesioni cutanee da morso, chiazze rosse sulla pelle, prurito e gonfiore. È capitato che vedesse le cimici camminare sul soffitto, anche al reparto giudiziario, e che si dovesse svegliare anche in piena notte per girare il materasso peraltro di spugna e fine e igienizzare tutto…».

La cucina, dove Fedi lavorava, «presenta gravi carenze igieniche e strutturali: è infestata dai piccioni e dai topi. Questi ultimi si nascondono sotto i mobili e gli stipetti della cucina e i lavoranti trovano spesso tracce di cibo rosicchiato dagli stessi».

Fedi è una delle 69 persone che si sono suicidate in carcere dall’inizio del 2024.

Il record appartiene al 2022, quando si tolsero la vita 84 persone1. Sono numeri però che non tengono conto di un dato importante, riguardante tutte quelle persone che entrano in sciopero della fame o che tentano il suicidio senza riuscirvi. Alcune di queste persone poi vengono ospedalizzate e muoiono a seguito delle complicazioni dovute alla autoindotta mancanza di cibo e alle conseguenze del tentativo di togliersi la vita, ma la loro scomparsa non viene conteggiata fra i suicidi. Quindi, in realtà le morti in carcere per suicidio sono ben di più di quelle che già ci fanno tremare le vene nei polsi. Ogni suicidio, ha spiegato una volta Emilio Santoro, filosofo del diritto, «fa storia a sé», invitando a tenere conto della complessità di una scelta così personale da non lasciare spazio a facili correlazioni:

«Il primo che ha ipotizzato che si potesse studiare l’andamento dei suicidi come un fatto sociale fu Durkheim nel suo famoso studio di fine Ottocento. Il sociologo francese propose 4 tipologie di suicidio, tra le quali particolare rilevanza per capire il suicidio in carcere ha il suicidio anomico, cioè il suicidio dovuto al disorientamento di chi si trova a vivere in una società senza ordine che mette in discussione i principi considerati scontati. L’anomia è infatti la situazione tipica delle carceri italiane che annichiliscono e infantilizzano la personalità dei detenuti, privi di diritti»2

Il numero di persone che si sono tolte la vita in carcere è così allarmante che anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il 18 marzo di quest’anno, ha sentito la necessità di esprimersi:

«Servono interventi urgenti. È importante e indispensabile affrontare il problema immediatamente e con urgenza. Tutto questo va fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione, per rispetto di chi negli istituti carcerari è detenuto e per chi vi lavora»3.

Di recente il Papa, in visita nelle carceri di Venezia e Verona, ha rivolto un appello alle istituzioni a «non togliere la dignità a nessuno»4 e ha invitato i detenuti a «non cedere allo sconforto; la vita è sempre degna di essere vissuta, e c’è sempre speranza per il futuro, anche quando tutto sembra spegnersi».

Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ex magistrato, nominato in quota Fratelli d’Italia, sulla carta un liberale di buone letture, il 17 gennaio scorso ha detto che i suicidi «sono diffusi in tutto il mondo. Questo non significa sottovalutare, né essere rassegnati, ma prendere atto che è un fenomeno che esiste, come la malattia». Dunque, «non possiamo pensare di eliminare questi fenomeni, perché il carcere purtroppo, come le guerre, fa parte del retaggio del marchio di Caino». Una minimizzazione? Ad aprile, Nordio ha firmato un decreto che prevede, per quest’anno, l’assegnazione di 5 milioni di euro all’amministrazione penitenziaria. Soldi destinati al «potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione. Più che raddoppiato lo stanziamento annuale di bilancio destinato alle finalità di prevenzione del fenomeno suicidario e di riduzione del disagio dei ristretti».

Il recente disegno di legge Carceri a firma Nordio è considerato dagli addetti ai lavori insufficiente. Aumenta il numero di telefonate mensili da 4 a 6 e prevede l’assunzione di mille agenti di polizia penitenziaria. Il disagio in carcere — l’università del crimine, come la chiamava Tocqueville — è strutturale. Ma potrebbe essere ridotto. Magari evitando di trasformare i problemi sociali in materia da diritto penale. Il diritto penale è una risorsa scarsa. Eppure, parlamento e governo italiano sono capaci di scrivere nuovi reati seguendo la logica panpenalista.

L’attuale governo Meloni ha esordito nel 2022 con un decreto-legge «anti rave party» che introduce il reato di invasione di terreni o edifici allo scopo di organizzare raduni, di oltre 50 persone; la nuova fattispecie di reato prevede la reclusione da 3 a 6 anni e una multa da mille a diecimila. Nel novembre 2023, il Parlamento ha approvato il cosiddetto Decreto Caivano che estende le possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere, stravolgendo così — ha scritto in un rapporto l’associazione Antigone che si occupa di diritti dei detenuti — «l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988». Il decreto «sta già determinando un’impennata degli ingressi negli Istituti Penali per Minorenni.

«L’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti continuerà a determinare un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare. Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole si va a inasprire una figura di reato che porterà a maggiori arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono spesso coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio».

Il sovraffollamento, dunque, non è più una prerogativa delle carceri per adulti: al 30 aprile 2024 erano 571 i ragazzi e le ragazze reclusi nei 17 Istituti Penali per Minorenni e in sette di questi — compreso Treviso — c’erano un numero di presenze superiore ai posti disponibili; nei primi quattro mesi del 2024 c’è stata una crescita di 76 unità per un tasso di oltre il 15 per cento.

«L’Italia è difficilmente definibile un modello nei temi del diritto penale, una rara eccezione era rappresentata proprio dal diritto penale. Non sto dicendo che fosse un modello perfetto, ma la stessa Unione Europea e il Consiglio d’Europa avevano preso l’Italia come un contesto a cui fare riferimento. Per dirne una, la direttiva UE 2016/800 sulle garanzie procedurali per i minori all’interno di processi penali è in gran parte modellata sul sistema italiano. Le carceri minorili non sono mai state sovraffollate, anzi fino a oggi sono state sottopopolate. Con una popolazione che durante il periodo del Covid si era ulteriormente ridotta, assestandosi su numeri (circa 350 minori detenuti sul territorio nazionale) che permettevano una presa in carico individualizzata; un principio sancito dal nostro diritto penale minorile e ribadito dalla Corte costituzionale che non a caso parla di funzione educativa e non di rieducazione della pena in ambito minorile. Dopo le misure previste dal d.l. Caivano le patrie galere minorili scoppiano e siamo già a 550 minori al 15 giugno 2024, », dice a Le Grand Continent la filosofa del diritto Sofia Ciuffoletti, direttrice de L’altro diritto.

«In attesa di capire quali siano le visioni di lungo periodo in termini di politica del diritto, possiamo dire che il governo Meloni ha inaugurato, da un lato, una tendenziale guerra ai giovani con il cosiddetto decreto anti rave, emanato sull’onda corta di un fatto di cronaca», dice Ciuffoletti:

«Dall’altro lato emerge la spettacolarizzazione della giustizia mediatica, che poi è quella che detta i tempi e i modi alla politica del diritto. Spesso, la giustizia mediatica chiede un surplus di giustizia penale. La mancanza di una prospettiva di dialogo e di dibattito culturale porta immediatamente alla risposta in termini di politica del diritto penale. La spettacolarizzazione e la mediatizzazione dei casi di cronaca non portano alla necessità di implementare una riflessione culturale nel dibattito pubblico e politico, ma secondo una logica tipica della riduzione della complessità a cercare risposte semplici a problemi complessi. E le risposte semplici sono senz’altro da ritrovarsi nel diritto penale, che è una risposta semplice e che ha una grande performatività in termini politici. È una strategia che va avanti da diversi decenni, trasversalmente a livello europeo, che non paga in termini di risoluzione dei conflitti sociali, ma garantisce, nel breve periodo, un buon appeal in termini politici ed elettorali».

Il carcere insomma non soltanto non è l’extrema ratio, ma viene prima di altro. Per questo in termini generali, dice Ciuffoletti, dovremmo ripartire da una domanda di Michel Foucault: «Da dove viene la singolare pretesa di rinchiudere per correggere?»

Il carcere ha dato prova di effettività in termini di abbattimento del tasso di recidiva? Probabilmente no, dato che in moltissimi paesi dove si può ancora fare ricerca sulla recidiva questo dato è chiaro: il carcere non aiuta ad abbattere la recidiva. In Italia, dove gli studi sulla recidiva sono fermi agli anni 2000, forse l’idea dovrebbe essere quella di sostenere una ricerca sul campo sui tassi di recidiva dopo comparando «l’esecuzione penale in carcere e quella esterna».

Nelle carceri italiane ci finisce chi non ci deve finire. Non solo l’ex pastore sardo Beniamino Zuncheddu, in carcere da innocente per quasi 33 anni, accusato di un crimine efferato (fu condannato all’ergastolo per l’omicidio di tre persone, è stato scarcerato nel novembre 2023 e assolto nel gennaio 2024). Ma anche chi è affetto da gravi patologie psichiatriche, come  Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez, detenuto di 31 anni suicidatosi nel carcere di Lorusso e Cutugno, a Torino, lo scorso 24 marzo. Il pm aveva disposto il trasferimento in una Rems, cioè una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza; le Rems sono luoghi che ospitano le persone dichiarate incapaci (o semi incapaci) di intendere e volere al momento della commissione del reato, ma ritenute socialmente pericolose. Era proprio il caso di Nuñez, gravemente malato, che aveva tentato di uccidere il padre accoltellandolo nel sonno. Il giovane ha atteso lunghi mesi un trasferimento che non è mai arrivato, perché non c’era posto in una delle sole due Rems in Piemonte. Il tema della salute mentale in carcere è tra i più misconosciuti. Si fa fatica a capire l’entità del problema, che però è a monte. Come fa il carcere, luogo psicopatogeno e «fabbrica di handicap», a curare il cosiddetto reo-folle? La domanda è ovviamente retorica.

«Dovremmo cominciare a pensare di rispondere ai problemi sociali quali la tossicodipendenza, il disagio psichico, l’immigrazione, la violenza di strada, i piccoli reati e quelli dei minorenni, in maniera preventiva», ha detto il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato.

«L’aumento velocissimo delle misure alternative dice il professor Emilio Santoro a Le Grand Continent ha reso la pena detentiva una misura o per ‘criminali incalliti’, a occhio 20.000 detenuti, o per le persone socialmente abbandonate che non hanno quel minimo di risorse sociali per organizzarsi una misura alternativa e che sono reputati troppo difficili e costosi da gestire dal nostro sistema sociale. Probabilmente hanno alle spalle vari fallimenti di percorsi sociali. Molti hanno problemi psichiatrici e/o una vita distrutta da eventi traumatici e dipendenze».

«Il problema,» aggiunge, il professor Santoro, «è che invece di inventarci nuovi motivi per mandare in carcere chiunque si allontani dalla normalità per un presunto comportamento che riteniamo anormale e disturbante dobbiamo sforzarci di pensare come depenalizzare molti comportamenti per i quali oggi è previsto il carcere. La parola magica è «depenalizzare», perché se l’amnistia può far uscire dal carcere i socialmente abbandonati ‘disturbatori’ (a volte anche solo esteticamente) che hanno tenuto questi comportamenti nel passato non impedisce che ci rientrino rapidamente (la loro problematicità difficile da gestire rende la cosa probabile), solo la depenalizzazione garantisce che queste persone escano dal carcere senza rientrarvi, passando definitivamente da un percorso marginalizzante a un difficilissimo percorso di inclusione sociale».

Il sovraffollamento carcerario non è un problema soltanto italiano.

Secondo le statistiche del rapporto Space I del Consiglio d’Europa5, in Europa il numero di detenuti per 100 posti disponibili è cresciuto del 2% dal 31 gennaio 2022 al 31 gennaio 2023 (da 91,7 a 93,5 detenuti). «Sette amministrazioni penitenziarie hanno riportato una densità superiore a 105 detenuti per 100 posti disponibili, indicando un grave sovraffollamento», dice l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, pubblicato a inizio giugno: Cipro (166 detenuti ogni 100 posti), Romania (120), Francia (119), Belgio (115), Ungheria (112), Italia (109) e Slovenia (107). Cinque amministrazioni penitenziarie hanno riportato una densità carceraria molto elevata: Grecia (103), Svezia (102), Macedonia del Nord (101), Croazia (101) e Türkiye (100). Altre amministrazioni hanno riportato una densità carceraria inferiore a 100, ma al limite del sovraffollamento: Irlanda (99), Portogallo (98), Finlandia (97), Danimarca (97), Inghilterra e Galles (Regno Unito) (97) e Azerbaigian (96).»

Al 31 gennaio 2023, c’erano 1.036.680 detenuti nelle 48 amministrazioni penitenziarie degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno fornito queste informazioni (su 51). Dal gennaio 2022 al gennaio 2023, il tasso mediano di popolazione carceraria europea è cresciuto del 2,4% nei Paesi che superano il milione di abitanti da 113,5 a 116,2 detenuti per 100.000 abitanti, un aumento simile a quello dell’anno precedente». Sedici amministrazioni penitenziarie hanno registrato un aumento significativo del tasso di popolazione carceraria da gennaio 2022 a gennaio 2023: Repubblica di Moldova (+52%), Macedonia del Nord (+26%), Cipro (+25%), Türkiye (+15%), Azerbaijan (+13%), Irlanda (+12%), Montenegro (+11%), Armenia (+11%), Croazia (+10%), Ungheria (+8. 7%), Irlanda del Nord (Regno Unito) (+8,3%), Georgia (+8,2%), Bulgaria (+8,1%), Austria (+6,8%), Italia (+5,7%) e Svezia (+5,1%), nei Paesi con oltre 500.000 abitanti. I tassi di incarcerazione sono diminuiti sostanzialmente solo a Malta (-22%), Lituania (-8,9%), Estonia (-8,8%) e Grecia (-5,2%), mentre sono rimasti stabili in 23 amministrazioni penitenziarie.

Donald Clemmer scrive in un lavoro pioneristico sul carcere, pubblicato nel 1940 e poi riedito nel 1958, dal titolo La comunità carceraria, che «quando la filosofia umanitaria sarà progredita, quando un maggior numero di persone di valore avranno accesso al lavoro penitenziario, quando saranno costruiti gli istituti, più che mai necessari, per un numero più contenuto di popolazione ristretta, e quando le scienze che hanno ad oggetto la natura umana inventeranno migliori strumenti per il trattamento, allora la capacità criminale di alcuni soggetti delinquenti, che oggi è accresciuta dall’attuale cultura carceraria, potrà risultare diminuita, in quel glorioso mondo nuovo, da qualche parte nel futuro». Quel futuro sembra essere abbastanza lontano, ancora.