Sono le due di pomeriggio, è un lunedì di inizio luglio, i tonnarelli alla gricia dell’Osteria Cinti fanno dimenticare persino il Grande Raccordo Anulare, che è il solito disastro, il solito terno al lotto; se ci entri sai a che ora sei partito, ma non sai quando arriverai. Un po’ come dappertutto a Roma. Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, siede davanti a me, anche lui ha dei tonnarelli nel piatto. Una bottiglia di Ferrarelle, fagiolini verdi all’agro. Poi arriverà una fetta di crostata alla fragola fatta in casa, arriverà un caffè. L’Osteria Cinti è casa sua, viene qua tutti i giorni. La nostra conversazione è iniziata alle undici di mattina nella sua casa-studio ed è finita qui alle tre e mezzo, dopo un paio di piatti di pasta (purtroppo non a testa).
Ma che cosa ci fa un pisano a Roma?
Sono venuto qui per uno dei motivi più antichi del mondo, cioè perché mi sono innamorato di una persona che viveva a Roma e che ero convinto fosse inamovibile da Roma, come tanti romani. Anche se, nel corso degli anni, lei mi ha detto che si sarebbe spostata, pure in Toscana. Invece no, mi sono spostato io. Sono venuto ad abitare con questa persona, che poi è diventata dopo pochissimo mia moglie. Quindi non c’è stata nessuna riflessione sulla scelta della città; non sulla posizione geografica, non sul clima, non sull’ambiente culturale, niente di niente. Solo perché c’era lei. Se lei fosse stata in Gabon, sarei andato in Gabon. Per tanti anni, non apprezzavo minimamente il posto in cui ero. Apprezzavo molto la ragione per cui ero qui, ma non il posto. Ero un po’ scioccato. Sono un provinciale, sono sempre stato abituato a una vita piuttosto semplice, tranquilla, spesso in campagna; e pure qui sono in campagna. Ma tutte le volte che andavo in città rimanevo scioccato dal macello che c’era. Che poi questo shock era legato, molto praticamente, a una cosa semplice. Non abitando a Trastevere – dove quando esci a piedi vedi il meglio dei sanpietrini del centro storico – io dovevo sempre pigliare la macchina. E pigliare la macchina per andare a Roma era sempre un incubo, per me. Non ero abituato. In più non legavo con nessuno; o, meglio, mi ero fatto qualche conoscenza, che poi però non ha proprio retto all’esame del tempo. E quindi stavo molto recluso a casa mia. Potevo essere ovunque. Poi è successo qualcosa. Non so che cosa, ma un giorno ero sul Raccordo con lo scooter e ho accelerato. Ho detto: ‘Ma sì, ma moriamo’. Credo che sia l’approccio che ha un qualunque guidatore di scooter quando entra sul Raccordo, dove si tira a dadi col fato. ‘Uscirò o non uscirò vivo?’, mi chiedevo. Ecco, da quel momento ho cominciato a fregarmene di tutto; della mia incolumità, delle regole della strada. Sono diventato un incivile. E, devo dire, questa cosa mi ha scaldato il cuore. Ho cambiato modo di guidare, sia la moto, sia la macchina. Prima ero attento, parcheggiavo solo dove si poteva. Mi sembravano regole inamovibili della convivenza civile. E invece qui non le puoi rispettare, se vuoi vivere. Poi ho iniziato a frequentare ambienti e situazioni che mi hanno obbligato a stare sempre di più dentro la città. Uffici, Questura, immigrazione, per cui per un periodo sono stato tra i disgraziati, di notte, all’ufficio immigrazione. E lì ho cominciato a diventare un pochino romano. Però ci ho messo dieci anni; anzi, considerando che questa cosa è successa 3 anni fa, ci ho messo 7 anni.
Io ne sono fuggito da Roma, dopo averci vissuto cinque anni. Tuttora, Roma mi crea sofferenza. L’avevo molto idealizzata, quando avevo vent’anni, durante il mio primo stage al Foglio. Era il 2004. Era una Roma più pulita, meno disastrata. Anche io sono un provinciale. Mi piaceva l’idea di essere in un posto in cui le cose accadevano. Abitandoci, l’ho trovata disfunzionale, disorganica, con gli autobus che prendevano fuoco. Insomma, un casino.
Roma ti richiede una mutazione antropologica, che in me è avvenuta. Io mi aspetto, se vado a prendere la metro, di rimanere bloccato. È una specie di ‘esticazzi’ generalizzato che si stende su ogni aspetto della vita, che però quando è arrivato è stato un sollievo, è stato bello. Chiaramente, uno che sogna la vita civile spera di non dover mai arrivare a quel punto lì. Però la scelta qui era, come si dice a Pisa, tra bere o affogare. Quindi sono cambiato, sono diventato sciatto. Ero fissato sulla puntualità, per esempio. Fissato. Non ritardavo mai di un minuto a un appuntamento. Adesso, dé, arrivo con 45 minuti di ritardo. Senza problemi.
Ti sei romanizzato?
Mi sono romanizzato. Qui ho trovato dei legami affettivi, sono quelli che fanno la differenza. Io vivo fuori dalla città, non so come è andare al Pigneto o a San Lorenzo. Non ci vado mai. Ma ho degli affetti che sono di qui. Pochissimi amici veri. Di Roma ce n’ho forse uno. Gli altri sono trasferiti qui. Per tanti anni ho pensato: ‘Me ne voglio andare, voglio tornare in Toscana, voglio tornare alla vita più semplice che avevo’. Ora invece i miei amici mi mancherebbero proprio tanto. Quelli mi tengono qui, ormai sono fregato.
Roma ti ha romanizzato nelle abitudini. Ma ha cambiato anche il tuo lavoro o no?
Solo nell’ultimo libro che ho fatto, in ‘Stacy’, un libro che richiedeva una componente realistica molto forte in termini di ambientazioni, ho utilizzato i paesaggi di qui; gli scorci, i locali, i bar, soprattuto il modo di agire e di dire, l’ho proprio ambientato con i nomi dei posti precisi. Non volevo inventare nulla, volevo che fosse tutto vero. È come se per me avessero un carico simbolico, tutte quelle persone del mondo del cinema e della tv intente a scrivere una roba per Netflix; tutti registi, tutti attori. Anche se, in realtà, quelli che fanno davvero le cose sono pochissimi. Ecco, mi piaceva molto che quel millantare fosse presente, come atmosfera da respirare nella storia. Mi era successa la stessa identica cosa quando stavo a Parigi. Io non ho mai fatto una veduta bella di Parigi. Non sono mai andato a disegnare uno scorcio bello. Quando devo disegnare, spesso disegno gli scorci che mi sono rimasti nella testa dalla gioventù, la roba in provincia dove sono cresciuto. Non farei mai il Colosseo, non ce la farei mai a disegnarlo. A meno che non ci sia qualche motivo precisissimo, per il quale c’è bisogno che io disegni il Colosseo. Poi invece, se torno un giorno a Pisa e c’è lo stradone dietro la Coop alla Fontina, che non ha nulla di bello oggettivamente, mi si muove il cuore e mi viene voglia di pigliare pennelli e fogli e dipingere.
Perché?
Penso che soprattutto nel campo artistico uno sia sempre a scavare brandelli di infanzia. Le luci, le nuvole, che hanno la stessa strana consistenza di quando ero ragazzino, o la ferrovia che passava dietro casa di mia madre. Muovono il mio sentimento sul piano artistico. Di Roma invece mi ispira la confusione, insieme allo humor romano. Anche quello delle offese pesanti, durante le liti stradali, mi piace tanto. Tant’è che quando scrivo cose che per me sono buffe faccio sempre un mix fra i modi di dire toscani e i modi di dire romani. Ci sono alcune imprecazioni delle quali non potrei più fare a meno.
Per esempio?
Mortacci tua, esticazzi. Non so come ho fatto prima senza.
E della tua toscanità, della tua pisanità, sei riuscito a importare qualcosa qui?
Non ho perso nemmeno un briciolo d’accento. Ci tengo. Ho importato tutti e 73 i chili della mia persona.
Ah, ti capisco. Quando sono arrivato a Roma, il mio accento fiorentino è peggiorato per reazione.
Quando vengono a trovarmi i miei amici di Pisa, come Davide, mio amico carissimo con cui suono, parliamo come dei vecchi di Riglione, cioè della provincia della provincia. Anche nel modo di dire e delle intonazioni, che io non ho mai usato e che non mi piacciono nemmeno. Particolarmente strascicati, accentuati nell’accento. Alla fine mai avrei pensato che esistessero robe tipo la nostalgia di casa, l’appartenenza a un posto. Ma è evidente che invece dentro di me ci sono.
Hai nostalgia?
Ho nostalgia di me quando non sapevo niente. Ho nostalgia di quell’innocenza lì. Anche io ho avuto la fase in cui vedevo Roma come un posto meraviglioso. Le poche volte in cui ci venivo, rimanevo estasiato dalla luce che c’era e sognavo di vivere in un posto così. Aveva un carico simbolico che però si è infranto giustamente sulla realtà delle cose. Ho sempre nostalgia delle ignoranze passate, del non conoscere la realtà di alcune aspetti dell’esistenza. Perché si sta troppo meglio senza saperli. Quindi ho nostalgia di quello; del fatto che andavo a fare le visite mediche all’ospedale, arrivavo con la macchina, parcheggiavo ed entravo. Una roba da nulla, si dirà. Ma frequentando spesso ospedali, andare al Gemelli a Roma è una roba incredibile; un’odissea giornaliera per chi è costretto a fare delle cure. Sono bravissimi, non sto criticando il sistema di cura, però è tutto faticoso. Io impiego un’ora di macchina ad andare, un’ora di macchina a tornare. Uno deve sperare di trovare parcheggio, poi deve entrare in questa cosa gigantesca che è il gemelli e perdersi. A Pisa arrivavo all’ospedale, in dieci minuti avevo già fatto la visita e tornavo a casa. Era tutto più piccolino.
Io odiavo dovermi spostare quando vivevo a Roma. Infatti stavo a lavorare o a casa. Per fare qualsiasi cosa buttavo via una giornata.
Qui è sempre così. Ma anche incontrarsi tra persone è difficile. Bisogna programmare prima, poi è possibile che l’incontro salti, perché uno rimane bloccato. A Pisa, eravamo a distanza di una telefonata e cinque minuti di viaggio, massimo dieci se proprio si stava parecchio distanti. Ma anche a Parigi era così. Ci trovavamo con gli amici con la metro. Bastavano 8 minuti di preavviso e ci si trovava a bere la birra, a suonare, a vedere una mostra.
Ti manca Parigi?
No, mi manca me stesso a Parigi.
Quanto tempo ci sei stato?
Dal 2007 al 2010 inoltrato mi sembra. C’era Ségolène Royal. Me lo ricordo, perché venne a chiedermi la dedica su un libro al festival di Angoulême. Era il 2006. Io non sapevo chi fosse. C’era anche una foto di noi due insieme, però l’ho persa.
Parlami dell’Osteria Cinti, dove siamo adesso, a mangiare tonnarelli.
Senza l’Osteria Cinti, andrei via. È la mia seconda famiglia. È una trattoria a conduzione famigliare dove sono stato accolto in un modo che non pensavo fosse possibile. Con un affetto assoluto. È il posto dove mi hanno fatto girare tutti i corti che facevo per Propaganda Live, dove ho girato le scene del film. Nel film ho messo in scena il proprietario. Sono le persone che quando ho avuto il covid mi lasciavano la minestra di ceci alla porta. Gratis, tra l’altro, perché manco hanno mai voluto i soldi. Sono persone meravigliose. È così quando la famiglia è una cosa bellissima; a volte succede. E qui la vedi: è una famiglia di persone che si vogliono bene, lavorano insieme, producono pil ma allo stesso tempo danno da mangiare alle persone che hanno difficoltà, che non hanno soldi per pagare. Sono il meglio che ci può essere della società.
Chi viene all’Osteria Cinti?
Vedo le persone che la frequentano tutti i giorni. Ci sono sempre gli stessi avventori, sempre agli stessi orari. Operai, contadini, che vengono a mangiare. E quando il venerdì è chiuso li trovo spersi negli altri bar. Li vedi che sono proprio perduti. Certo, hanno trovato un altro tavolino dove bere il Campari alle undici di mattina, ma non è la stessa cosa. Aspettano solo che arrivi il giorno dopo per tornarci. È una comunità, c’è poco da fare, ed è una comunità che ha un connotato simile a quello che c’era in provincia dove abitavo. C’era il barrino del paese. Ed è un paese anche questo, ha quella forma lì.
Fra i tuoi vicini di casa c’è un altro personaggio illustre. Un noto politico, ex ministro dei governi Berlusconi, oggi presidente del CNEL: Renato Brunetta. Vi conoscete?
Ci conosciamo in quanto buoni vicini, gentili l’uno con l’altro. Lui è sempre molto cordiale e affabile, con una moglie altrettanto cordiale, affabile e molto simpatica. Una sera mi ha invitato a cena, io purtroppo non ho ricambiato perché casa mia è troppo un casino per invitare le persone a cena. Non ho il posto, non ho i piatti, le forchette, non ho il tavolo adatto. Ho un tavolino minuscolo, siamo sempre io e Chiara, oppure io, Chiara e sua mamma. Non ho potuto ricambiare. Oggettivamente casa sua è un altro livello di ordine, di arredamento. Però è stata una serata ultra piacevole, lui è stato gentilissimo. È molto simpatico anche lui. Mi ricordo che parlammo pochissimo di politica, al tempo c’era il governo del M5s. Eravamo entrambi sulla stessa lunghezza d’onda di una certa ostilità nei confronti dell’esecutivo.
Hanno vinto i barbari?
È stato un periodo strano. Per me, che al tempo facevo un pochino di satira, è stata oggettivamente una benedizione. Però bisogna stare attenti. Uno degli approcci che usavo io alla questione del M5S era un po’ snob. Probabilmente non rifarei tante delle cose che ho fatto al tempo.
Per esempio?
Andare a prendere per il culo persone mediamente semplici che per un periodo hanno detto: ‘Beh, forse anche io posso contare qualcosa’. È un concetto probabilmente sbagliato, ma forse anche giusto, in una democrazia. Quelle persone avevano metodi e modi di esporsi che non venivano mica dal M5S; venivano dalla costruzione culturale di questo paese. Per questo non imputerei tutto a quei poverini. L’approccio della sinistra nei confronti del M5S è stato quello che fu anche il mio; c’era tanto disprezzo nei confronti della persona comune, un po’ ignorante, che voleva alzare la testa, voleva avere voce in capitolo nelle cose. L’incompetenza non è un valore, a volte però non è neanche una scelta. Quindi non sono fierissimo di aver fatto satira su quella roba.
Dici che ora non fai più satira. Però nei tuoi libri la satira ancora ce la trovo.
Nei libri ci finisce inevitabilmente la mia visione del mondo, con le mie domande sul mondo. E quindi è quello che innesca eventualmente un meccanismo satirico. Ma quando parlo di satira parlo di altro; non sono per niente fiero di aver puntato il dito. Spesso nella satira di sinistra c’è una superiorità morale. Capisco chi continua a tenere quell’approccio, ci mancherebbe, spero che sia cosciente di quello che fa, ma io non lo farei più. Perché sto facendo un percorso di invecchiamento e cammino verso la morte e quando sarò all’ultimo respiro vorrò aver fatto delle robe e non altre. Tutto lì.
Ma chi è che ancora fa satira in Italia? Propaganda Live?
Propaganda Live è una trasmissione credo ancora molto seguita, che fa anche tanta satira, oltre a reportage. È chiaro, la satira non può essere mica quella dei primi del Novecento, le cose cambiano. Oggi c’è tanta satira nei meme che fanno i ragazzotti nerd, anche se spesso è una satira molto qualunquista e assomiglia più allo sfottò. Ma non vorrei parlare della satira, mi sembra di essere scemo. Probabilmente ci sono persone che la fanno, la fanno bene, è la loro vita, non mi sento di giudicare nessuno. Parlo solo per me. Io sono a disagio con la satira tradizionale. Penso che ci siano un sacco di aspetti del costume che è divertente prendere in giro. Ma forse è la presa in giro che mi ha un po’ stancato. Non mi fa sentire bene.
Anche io ho un sentimento simile, nei confronti dei social. Ho sempre usato il registro dell’ironia, anche nei miei articoli sulla politica. La mia idea è sempre stata quella di dissacrare il potere. Sui social poi hanno iniziato tutti a volere fare i simpatici. Io mi sono accorto di essere diventato serioso. Non mi va più di fare battute. Anche perché il tempo è poco.
Lo capisco, io per esempio ho chiuso qualsiasi social. Prima seguivo ogni singola dichiarazione, cosa che non faccio più adesso. Sono veramente all’oscuro di quello che succede, tranne per i fatti gravi, come il 7 ottobre. Ma l’idea che prima mi svegliavo la mattina, accendevo Twitter e mi mettevo lì cercavo il tweet con l’errore grammaticale del deputato leghista e su quello costruivo una presa per il culo che chiamava a raccolta i miei seguaci di modo che infamassero quella persona, ecco, è una roba per la quale ora provo una vergogna assoluta. Ma solo perché il tempo è poco, come dici. Certo, servono persone che stanno con lo sguardo vigile alle cose che hanno intorno, pronti a sottolineare la stortura nei media o nella politica. Ma, personalmente, le tre energie che mi sono rimaste preferisco tutte utilizzarle nel coltivare robe positive. Tutto qua. È stata una trasformazione che ho avuto dentro di me; per cui, avendo ora un’età e sapendo di non poter stare tantissimo su questo mondo mi viene da dire: ‘Sei sicuro che vuoi passare il tuo tempo a commentare la frase della Meloni, il modo in cui ha guardato quella cosa o la posizione che aveva sul mezzo militare durante una parata?’. Cioè ma che vita è? Quale impatto reale ha sulla vita delle persone questa roba qui? È questo che mi ha fatto smettere di stare nella squadra dei giusti che vedono gli sbagliati. Ripeto: ma che vita fai? E cosa porti di buono o negli occhi o nel cuore o nella quotidianità di altre persone? L’unica cosa che mi interessa adesso è quell’aspetto lì: aggiungere delle particelle di bene se possibile nel mondo. Il che non vuol dire che sono diventato un frate francescano narcotizzato. Però quando vedo moltitudini di persone sostanzialmente di ottima condizione sociale che gridano al ritorno del fascismo per ogni stronzata mi sembra che buttino via energie. Non serve a nulla.
Ti riferisci all’allarme fascismo?
È una roba ridicola. L’unico allarme che uno dovrebbe gridare è l’allarme tribalismo e dire che quello è il problema. Il vero guaio è come il tribalismo ha preso potere e potenza non solo nel dibattito pubblico, ma nel rapporto fra le persone. Il pericolo fascismo — se fossi uno che si occupa dei pericoli del proprio paese — viene almeno cento passi dopo questo.
Se tu fossi Massimo Giannini, insomma.
Io sono finito nella chat ‘25 aprile’. Credo perché una volta da una trasmissione di Giannini mi fecero un’offerta per fare dei disegni, una cosa che non andò in porto. Quindi, probabilmente, è per questo che aveva il mio numero, visto che io non frequento quel mondo. Penso persino di essere stato uno dei primi a finire lì dentro. Quindi mi sono trovato nella chat del ’25 aprile’, dove ho cominciato a leggere queste robe, e il primo pensiero, devo essere sincero, è stato uno. È il pisano maledetto che vive in me, ma quando ho visto che c’erano De Benedetti, Venditti, ho pensato: ‘Io mi vendo i numeri’. Ho pensato che per persone che lavorano nel mondo dell’informazione quella roba lì poteva essere preziosa. Infatti ero abbastanza sbigottito dal fatto che quei numeri fossero in chiaro. Adesso ho i numeri di tutti; Elly Schlein, Monica Guerritore, Eugenio Finardi, Moni Ovadia. Ce li ho tutti. Non so che cosa farci e non ho mai chiaramente scritto neanche una riga nella chat, perché sono a disagio quando si è quattro in una stanza, figurati in una chat con mille persone. Volevo uscire subito, devo essere sincero. Però da un lato ero curioso di leggere, perché comunque io sono un provinciale e non mi capita tutti i giorni di leggere quello che si scrivono in privato persone famose. E poi c’era un problema: non potevi uscire, perché se ne sarebbero accorti. ‘Gipi ha abbandonato la chat 25 aprile’, quella di lotta al fascismo. E se abbandoni quella chat, sei un po’ fascio. Ogni tanto per guilty pleasure vado a leggere che cosa scrivono. Ho invidiato molto il momento in cui a un certo punto parlavano di Vannacci. Ci sono un sacco di persone terrorizzate da questo signore e quindi uno, per tenere il tono della battuta rapportato all’indignazione e alla paura, ha scritto: ‘Beh, ‘ammazziamolo’. Era chiaramente scritto in tono ironico. Immediatamente un’altra persona, che io ho invidiato, ha avuto l’idea perfetta e mi ha bruciato sul tempo: ha detto ‘Scusate, io esco da questa chat perché per me la violenza è inaccettabile’. Ha preso la palla al balzo per potersene andare senza essere tacciato di neo fascismo. È uscito e io ho pensato: ‘No, cazzo, perché non l’ho fatto io? Adesso rimarrò dentro questa chat tutta la vita’. Io ho paura a uscire dalla chat. Per rispetto a chi ha fatto la lotta partigiana ci vado piano anche a cantare Bella Ciao. Mio padre era del ’22 e lui mi ha raccontato che erano pochini quelli che rischiavano il culo.
Erano pochi, perché quando c’è il rischio vero di morire e di avere amici, parenti ammazzati, ci vuole veramente tanto tanto carattere per alzare la testa e fare scelte radicali. Io non lo so quanti tra quelli che si mettono addosso la bandiera antifascismo oggi, in alcuni ambienti particolarmente ovattati, sarebbero così propensi a perdere tutto, ad abbandonare tutto, per andare a combattere. Io non so quale coraggio avrei. Certo, una parte di me dice che ci andrei, però non sono sicuro perché ho testato a volte il mio coraggio in momenti di vita o di morte. Mica sempre uno è stellare. È randomica, la situazione: una volta riesci ad avere il coraggio, un’altra volta ti cachi sotto. Io non ce la faccio a darmi di default la patente di partigiano se ce ne fosse bisogno. Pensa a un altro fatto. Io mi sono fatto tutti i vaccini del mondo, ma hai presente come siamo stati tutti ubbidienti nel momento in cui lo Stato ci ha detto di fare quel vaccino, perché, dicevano, ‘col vaccino non vi ammalate, non contagiate nessuno’? Erano cazzate, erano balle, perché non lo sapevano neanche loro. Noi però sulla base di informazioni farlocche siamo andati tutti tranquilli, in fila, zitti e boni, a fare il vaccino. Io tra l’altro sono ipocondriaco, avevo il terrore di farmi questi vaccini, ma hai visto come abbiamo ubbidito subito a un dettame dello Stato, che a un certo punto dice: ‘Io della tua vita e delle tue scelte sulla tua esistenza mi occupo al posto tuo’?. Io ho ubbidito e non so in un’altra situazione in cui c’è uno Stato che impone la sua volontà quanto sarei in grado di oppormi. Tutto lì. Per cui mi fa sempre impressione quando vedo questi che si riempiono il cuore con il canto di lotta, perché la lotta è un casino. Perdi le gambe, le braccia, diventi cieco, se sei un maschio puoi essere evirato da una granata. È difficile avere quel coraggio. Quindi quando vedo l’antifascismo di lotta in ambienti che non prevedono lo scontro fisico, mi fa sempre un po’ impressione.
Che cosa ti impressiona?
Che le persone riescano ad abbandonarsi all’afflato eroico così con tanta facilità. Io li invidio, magari sarebbero tutti pronti in prima fila con le armi automatiche. Chi lo sa. Io prima di riempirmi il petto di coraggio antifascista ci penso due volte.
In Francia escono due fumetti. «Stacy» e «Barbarone». A proposito: Pozza di piscio (uno dei personaggi di Barbarone) come si dirà in francese?
«Flaque de pisse».
Ecco, spieghiamo questi due fumetti ai francesi.
‘Barbarone’ è il primo volume di una trilogia di fantascienza comica, che racconta le avventure di questo improbabilissimo esploratore spaziale che si chiama Barbarone, che è un cretino. Un imbecille con grandi slanci. E i suoi amici sono personaggi altrettanto improbabili, con i quali va in giro per la galassia a vivere avventure. È la prima storia solamente comica che faccio. ‘Stacy’ è l’esatto contrario. È un libro nato in un momento doloroso, che racconta la vicenda di una persona del bel mondo, uno sceneggiatore di successo che vive in ambienti molto di lusso della società e che per una frase detta in un’intervista finisce coinvolto in una grande onda di diffamazione online, per cui perde ogni suo privilegio guadagnato. Nel libro intraprende un percorso per recuperare tutto quello che ha perduto, ma in compagnia di un demone che si è generato nel momento di massima sua disperazione, che invece lo affianca e lo incita alla distruzione e all’autodistruzione. È un libro aggressivo rispetto ai miei standard.
Ti è costato farlo?
Ero pieno di rabbia in quel periodo e avevo bisogno di metterla da qualche parte, perché non diventasse una manifestazione della vita reale e nei rapporti con gli altri, e quindi l’ho travasata nella storia. Una storia in cui ho spinto sulla spiacevolezza. Il protagonista è orribile, secondo me. Ma anche gli altri personaggi sono tutti orribili, sono degli opportunisti senza alcun principio morale. L’unico per il quale ho un po’ di simpatia è il demone, che però vuole la distruzione di ogni forma di vita. È un libro particolare e spero di non doverne mai fare un altro così. Però sono contento del libro. Ha vinto un premio a Napoli e so, perché io non c’ero, che alcuni miei colleghi fumettisti hanno fischiato l’attribuzione del premio. Questa roba mi è piaciuta molto. È un libro che fa girare i coglioni e io sono agli occhi del fumetto italiano, soprattuto dei più giovani, un vecchio bianco, etero maschilista, retrogrado, anticomunista. In realtà ne hanno beccata una. Anzi, due: sono vecchio e anticomunista. Mi piace dire di essere anticomunista, perché fa sempre girare un po’ il cazzo. Quando faccio degli incontri pubblici e il pubblico sta molto dalla mia parte – perché lo faccio ridere, perché racconto una roba commovente – mi sale sempre la mosca all’orecchio che mi fa dire che sono anticomunista. Perché voglio vedere qual è la reazione delle persone. Di solito è come se tu gli dessi una pugnalata. Lo dico quasi sempre con intento provocatorio. Però corrisponde anche abbastanza al vero.
Ma sei anche antifascista?
Di default. Non è il problema quello. Ma non capisco come si faccia a essere antifascisti e allo stesso tempo ad avere simpatie per l’altra ideologia. Non capisco come si possa dire che era una bella frase auspicare la dittatura del proletariato. Io sono uno stupido democratico, mi piace la democrazia, anche con tutte le storture che c’ha. Mi piace la libertà sopra ogni cosa. Quindi mi dispiace per il proletariato, ma non vorrei che ci fosse la sua dittatura. Nemmeno quando appartenevo al proletariato ho mai sognato di essere nella posizione di poter dare ordini.
La gricia è finita, se ne potrebbe avere un’altra?